Recensione a: F. Sciacca, Franz Kafka e la sfinge del potere, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 110, €12,00.
È molto giusto quanto afferma Fabrizio Sciacca, l’autore di questo libro: quell’interprete che ammetta di non poter penetrare nel segreto dell’opera di Kafka, concesso che si possa farlo in generale per qualunque altro autore, è l’unico studioso possibile dello scrittore praghese. Il pensiero kafkiano non oppone delle resistenze interpretative, come se ci fosse una enigmaticità di fondo che impedisce ogni sforzo ermeneutico. Semmai, quello che ormai può definirsi un concetto filosofico, estetico e letterario, il kafkiano, è più una questione di generazione del senso, di ontologia formale (cfr. p. 76). Uno dei tratti più interessanti della riflessione presentata in questo volume è infatti l’accostamento tra Kafka e il Wittgenstein del Tractatus (cfr. pp. 77-79), rispetto a cui, per quanto concerne l’aspetto generativo dell’estetica kafkiana, richiamerei alla proposizione 4.1212 dell’opus magnum del filosofo anglo-austriaco, per la quale «ciò che può essere mostrato non può essere detto». Non è un’affermazione del tutto esagerata dire che la letteratura kafkiana si fonda precisamente su questa dinamica: mostrare senza dire espressamente. L’opera mostra la sua forma, ma non può dire nel senso wittgensteiniano di se stessa, del suo contenuto, in altri termini della sua semantica.
Kafka crea dei gorghi concettuali dai quali si diramano nuove possibilità di senso, stabilite di volta in volta dall’interpretazione. Se si potesse riassumere il discorso in una sola formula, direi che quella kafkiana è appunto una semantica in cui il significato è dissolto nella forma, in cui anzi è la forma stessa a fungere da funzione significante. Kafka istituisce infatti situazioni, contesti, casi-limite, in cui a essere preponderante è la forma in se stessa, il concetto per il concetto, una possibilità nella quale si rinvengono sia il positivo che il negativo, che a loro volta si risolvono completamente l’uno nell’altro: un processo che dovrebbe vertere su un colpevole ma senza una colpa dichiarata; un lavoro per qualcuno che dovrebbe svolgersi alle sue dipendenze ma che non si palesa mai; un messaggio, diretto verso l’ultimo e più lontano dei sudditi dell’impero, che però non potrà mai raggiungerlo, benché sia l’imperatore in persona a comandare di inviarlo. Queste sono le tipiche situazioni kafkiane, la forma che si compie in se stessa senza ricorrere ad altro, e l’umano in esse naufraga, non comprende, anzi, muore come K. con un coltello piantato nel petto, segno della sua vergogna futura e invincibile. L’umano vive quindi questa condizione, inaggirabile, di essere nel senso ma di non riuscire ciò nondimeno a conoscerlo. E in questa assenza l’esistenza si logora.
Se andiamo al Processo, il senso della vita di K. è riuscire a risolvere il processo in cui è piombato senza colpa, ma è il concetto di colpa a mutare radicalmente. Nell’indicazione di Sciacca, K. è colpevole non in quanto ha commesso un reato per cui essere in colpa, bensì per il fatto che qualcosa come il processo gli viene intentato. È il processo a renderlo colpevole, non un crimine, una calunnia, un furto, un omicidio. La concezione della legge e della giustizia per Kafka, secondo l’autore, non è tale per cui legge e giustizia esistono come corrispettivo della colpa. L’essere-in-colpa è in verità un fatto ontologico, strutturale all’esistenza e quindi alla vita umana, sicché l’esserci, per dirla con Heidegger, è colpevole di per sé. La colpa è il carattere primario del suo essere. Non perché è colpevole di una colpa in particolare che l’umano è nel processo ma per l’essere-in-colpa in quanto tale, sicché necessita di una legge, di una giustizia, di un tribunale. Basta solo avvedersene, esserne richiamati come succede a K. la mattina qualsiasi in cui viene arrestato ma senza essere tradotto in nessun carcere. Alla fine del romanzo, nel Duomo, in cui avviene quella che l’autore definisce la «teatralizzazione della verità» (p. 19), il carattere processuale della vita emerge in tutta la sua chiarezza: il tribunale è la vita che mette sotto processo se stessa proprio in quanto vita consapevole di sé. Il tribunale esiste perché c’è qualcosa come una vita colpevole. Giacché allora l’«ubiquità» (ibidem) del tribunale kafkiano. La vita è la sua colpa, e quindi come legato a sé con una catena esiste anche il suo processo e il suo tribunale. «Il tribunale è in ogni luogo, ma non intacca la normalità della vita di K. Il tribunale è solo un nome, e come una guardia segue K., ovunque egli si trovi. In questa ubiquità del rito sta la necessarietà del nesso tra processo e colpa. K. non viene processato perché colpevole, ma è colpevole perché viene processato; e dal momento in cui il suo processo ha inizio, cioè dal suo arresto» (ibidem).
Ciò nonostante, penetrare all’interno di questo enigma, varcare la soglia della legge, scoprire la verità circa la colpa, non è concesso, si è condannati anzi allo scacco. Rimanere all’entrata della legge, pur essendo quell’entrata lasciata aperta e custodita per chi stava aspettando, per noi e noi soltanto. Attendere per tutta la vita di conoscere la legge ma vivere nell’ignoranza che questa possibilità fosse coglibile. Ci si deve quindi chiedere: «Nel Processo, allora, può K. essere innocente? Può veramente ritenersi tale, se c’è una colpa così profonda, ultima, radicale, la colpa di esistere?» (p. 25).
Tutta la profondità, persino l’intollerabile, dell’opera di Kafka risiede negli interrogativi sollevati da Sciacca: la convinzione per cui la vita è essenzialmente colpa, che si ripiana soltanto con il suo finire. Già con il detto di Anassimandro, la prima testimonianza storica della filosofia, il pervenire alla forma dell’ente è un fio da ripianare con il suo venire meno, e la colpa dell’esistenza, e il conseguente processo che la vita consapevole fa di sé, è perfettamente in linea con questa macro-dinamica teoretica. Forse nel nucleo più recondito della legge, secondo Kafka, giace questo nichilismo di fondo, la serenità del niente a cui era pervenuto nell’ultima indicazione da lui espressa circa la sua stessa opera: distruggerla, cancellare ogni traccia.
La legge è il nulla, e il processo che la vita intenta su se stessa per comprendere, se ne è in grado, che essa esiste nei termini di un processo ne è il portato più naturale. Il processo è il procedere del nulla, e se qualcosa è, lo è se come procedimento filosofico di comprensione di questo stesso nulla. L’essere è quindi la parola letteraria, la quale, una volta compreso il nulla, deve distruggersi per completare il cerchio e adempiere a questo nichilismo del ritorno. «Il processo è lo spirito della legge. Il punto dell’inconoscibilità della legge e della giustizia, per l’ebreo Kafka è chiaro: è impossibile entrare dentro la legge. Si diventa vecchi, si vive aspettando, osservando il guardiano, arrivando persino ad accorgersi delle pulci nel suo bavero di pelliccia. È un’attesa destinata a cadere nel vuoto. Non c’è pessimismo: se esiste la legge, esiste perché l’uomo è libero; e se questa legge non viene compresa, è a causa della solitudine radicale dell’uomo» (25). Formulate le premesse, spingerei oltre il dettato dell’autore, e cioè che quello del Josef K. del Processo è stato un totale fallimento, a lui il processo non è servito a niente, perché, di fatto, non ha compreso la natura della colpa e, con un ossimoro, l’essenza di nulla che l’umano è.
Analizzando Ritorno, racconto di Kafka forse tra i meno noti, l’autore si sofferma su questo aspetto, sulla solitudine come possibile preludio alla comprensione del nulla: «Nel luogo del ritorno, non c’è nessuno ad attendere. E altro non c’è che la riconquistata solitudine, dove il soggetto impara a risillabare le parole della giustizia senza che diventino ineffabili e senza che si confondano con le parole della legge. Altro non c’è che il silenzio, la voce del tempo. E questa voce, come in un musicale pianissimo, danza sugli anni e sui secoli, e ci riconduce alle sorgenti del nostro esserci» (p. 39). Si ritorna all’origine, questo è il moto della vita, che è però un gorgo il quale non appena sfiorato risospinge nuovamente a viaggiare ancora, un moto centrifugo e centripeto che a momenti alterni fa toccare il fondo da cui poi avviene un rimbalzo, che fa ripiombare ancora nella vita, e poi nella consapevolezza del nulla, fin quando almeno ci sarà tempo esistenziale.
Con un’interessante riflessione, Sciacca articola acutamente la questione suggerendo di guardare al problema con uno sguardo più ampio. Né solo entrata né sola uscita dalla legge, ma l’insieme di entrambe le direzioni: «Entrare nella legge è un concetto errato, al pari dell’idea di uscirne. Non si entra né si esce, si è nella legge, perché la legge è tutto ciò che accade secondo necessità. L’illusione è pensare che la legge detti regole frutto di scelte libere e razionali. Non è un mondo in cui la legge ha bisogno di regole, perché la legge è natura, quindi – implicitamente quanto letteralmente – sopravvivenza, cura della vita. Tutto quello che si può fare è assecondare la legge come cura della vita, amore, stare al mondo. Ed è quando si arriva al punto di comprensione di questa verità – l’unica possibile da comprendere – che si torna all’origine, ovvero al punto di non ritorno: l’origine del tutto, l’enigma della vita stessa» (p. 40). In altre parole, la vita, se si vuole affrontarla, bisogna farla durare, e ci si imbatte nelle situazioni farsesche e cialtrone del Disperso oppure, più profondamente, nell’attesa frustrata di capire il senso ma di vivere nel frattempo come l’agrimensore K. del Castello, tra lavoro, litigi, incomprensioni e amori facili e lussuriosi.
Questa sembra essere la vita per Kafka. E insieme alla vita anche la filosofia come (im)possibilità di conoscenza e di comprensione di tutto questo, rispetto a cui vi è una ferrea «preclusione della ricerca della verità» (p. 57). Si può certamente affrontare il Processo, vagare in cerca di esperienze e perdono come nel Disperso, attendere e sperare come nel Castello, per rimanere soltanto ai tre grandi romanzi, ma la colpa sembra trovarsi a monte, o per meglio dire il difetto generale in cui l’ente si trova immerso, in particolare l’ente vivente che può filosofare. «Perché è ciò che sta a monte, che manca nel suo aspetto ultimo e radicale: la ricerca d’una via. Strade curve, confini disegnati da geometrie assenti, non-finite. Frammenti di quel soggetto in crisi che non riesce più a cogliere la totalità cui appartiene, e nemmeno la singolarità che lo costituisce, di cui egli è l’unico testimone, parte di un processo che celebra se stesso. Solo se riveliamo al mondo – al nostro mondo – le divergenze e le possibilità di errore, concepiamo una piazza o un orizzonte, e non una via. La via è in se stessa una banale impossibilità, perché ammette solo se stessa. La via è preclusiva al mondo. La via del mondo è solo il fatto di non essere una via» (p. 57). La vera via è fatta più per cadere che per essere seguita, dice Kafka. E se la vera via non esiste, c’è però la possibilità di percorrere, di camminare e cadere, almeno fino al definitivo ritorno nel nulla.