Anna Frosini (2006) frequenta il IV anno del Liceo Scientifico Scienze Applicate "E. Majorana" di Capannori.
Recensione a: M. Bucciantini, Siamo tutti galileiani, Einaudi, Torino 2023, pp. 120, € 12,00.
Il nuovo volume di Massimo Bucciantini esce per la collana Vele della casa editrice Einaudi. Si tratta di un collana nata del 2003 per volontà di Ernesto Franco, pensata per raccogliere una serie di saggi brevi inerenti le trasformazioni della cultura e della politica contemporanee. Già prima di cominciare a trattarne, emerge dunque la rilevanza del libro in questione, il quale si distacca dai limiti che possono provenire da qualsiasi branca del sapere – da noi così definita in modo stereotipato –, per ergersi in alto dando voce all’unicità della conoscenza, al sapere tout court.
Tutto ha inizio da qui. Il saggio di Bucciantini comincia così, da un blocco composito di “date al cubo”. Tridimensionali come lo spazio reale, pregne di mutamenti epocali, di vicende che sospendono il mondo, queste fungono da faro tutt’oggi. Hanno una potenza sconvolgente, che ha modificato la realtà di allora, ridefinendo le caratteristiche specifiche proprie della modernità. Tale periodo è quell’età che l’autore denomina GalWill, dove Gal sta per Galileo e Will per Shakespeare. Iniziata nel 1564 con la nascita di entrambi, essa denota il modo in cui in quel tempo si sgretolavano le visioni del mondo precedenti. Un termine un po’ pop, quello coniato da Bucciantini per descrivere tale lasso temporale; pop come, d’altronde, era parte della comunicazione di Galilei della sua conoscenza scientifica.
È pop anche l’origine del titolo Siamo tutti galileiani. Questo si riferisce a Siamo tutti Anna Frank, edito dal quotidiano “la Repubblica”, in occasione di episodi oltremodo disdicevoli nella realtà calcistica del 2017. Entrambi sono accomunati da esigenze etico-conoscitive, che l’autore nel saggio esprime in relazione al loro essere insite nell’esperienza ed eredità scientifica di Galilei. Ma cosa significa oggi, essere galileiani?
Il termine galileiano qui va inteso in un’accezione molto più ampia. Non è circoscritto al mondo delle scienze matematiche, fisiche, chimiche, mediche e biologiche. Anzi, direi di più, non è affatto scontato che tutti coloro che con le attestazioni più varie si fregiano del titolo di scienziato siano poi, alla prova di fatto, dei galileiani.
Quindi, essere tali non è una questione puramente scientifica. Bucciantini parla per frammenti sparsi di che cosa ciò voglia dire. È il lettore che, al termine della lettura, racimola gli indizi, mette insieme i frammenti.
Passando per i grandi del sapere che esprimono sotto forma di estratti la loro voce in merito alle questioni trattate – tra cui, a più riprese, Italo Calvino, che è galileiano eppure non un uno scienziato, e per lo stesso Galileo, ovviamente, nelle vesti di matematico, filosofo, artigiano, disegnatore e, soprattutto, comunicatore scientifico –, è il lettore stesso ad applicare il metodo scientifico per giungere ad una forma di sapere quanto più ampio e tendente alla totalità. Cruciali il sottrarre, ovvero l’essenzialità, il pensare con le mani, la politica linguistica, la laicità, l’autonomia scientifica e la collettività: sono questi i temi centrali.
A mio avviso Siamo tutti galileiani è un libro densissimo. Leggendolo, è inequivocabile la concretezza, la solidità di pensiero. Tutta concentrata in poco più di cento pagine. I collegamenti proliferano da una parola a un’altra, descrivendo nella mente del lettore una rete interconnessa di concetti e informazioni. Ma questo saggio non s’arresta, non si limita a rimanere rinchiuso nella mera rievocazione passiva, a rimanere astratto. Offre, bensì, una nuova visione prospettica del passato e, necessariamente, dell’oggi. Un nuovo punto di vista. Un nuovo point of view, o addirittura POV, per adeguarsi allo stile pop adottato dall’Autore.
Bucciantini ci offre tutti i mezzi necessari per guardare indietro e in parte all’oggi, un po’ come Galilei che spediva le lenti al lettore per far sì che fosse egli stesso a osservare la novità.
Dico in parte, riferito all’oggi, poiché emerge anche un certo groviglio, una certa complicatezza del presente, ovvero una difficoltà, persino oscurità, non sempre necessaria, inevitabile. Ciò che ho percepito è stata una velata ma profonda critica alla scuola, quasi una sentenza di condanna, per la presenza di questo disordine generale che caratterizza il presente. Mi trovo in disaccordo su questo punto. Forse perché ancora ne faccio parte, forse perché ridurre ad una singola entità lo spettro delle motivazioni per cui qualcosa accade, mi sembra, appunto, riduttivo.
L’immagine descritta da Bucciantini della realtà scolastica è negativa e in negativo. Essa viene definita in base a ciò che potrebbe essere – e che, quindi, non è -, con annesse critiche a ciò che già è. Uno dei tanti punti che viene definito è quello riguardante la globalizzazione del sapere e una visione unitaria della cultura, ed emerge come tale rivoluzione del sapere debba partire dai metodi didattici in primis.
Per l’Autore dovrebbe essere presente un minimo comune denominatore, un fil rouge insomma, da cui far partire il processo conoscitivo. Un qualcosa che assicuri pari basi a chiunque faccia parte di questo sistema scolastico, che sembra quasi voler avere un carattere globale, appunto, più che europeo. Questa considerazione riflette pienamente la percezione tipica occidentale, ancora in evoluzione, che vede l’uomo come cittadino del mondo. Col processo di globalizzazione, in molti, anche in diverse parti del globo terrestre, hanno certe medesime opportunità, alcuni strumenti comuni, che fanno sì che la visione, su molti aspetti della realtà – non solo d’accezione locale, o nazionale, ma anche globale – sia piuttosto omogenea.
Ora, a mio avviso, non si può parlare complessivamente di un acquisto, bensì di una perdita. Se ciò comporterebbe – e ha infatti comportato e comporta – al riconoscimento di certi valori universali inerenti l’essere umano, mirati al conseguimento del suo stato di benessere e al mantenimento di quest’ultimo, penso che venga a meno, inevitabilmente, la contestualizzazione – a livello storico, sociale, culturale, politico e così via – ed il concetto di unicità e di pluralità – cito Hannah Arendt – della condizione umana. Ritengo, infatti, che sia dall’eterogeneità che debba partire questa rivoluzione del sapere.
Presupponendo, dunque, la già esistente presenza di un minimo comune denominatore, risulta che il cambiamento debba provenire dagli stessi metodi di insegnamento. Ma, anche qui, emergono gli aspetti negativi e in negativo di questa pratica. Bucciantini, infatti, critica le complicazioni derivanti dalla pandemia di Coronavirus nell’ambito scolastico. Vengono messi in risalto gli errori della scuola, sostenendo la mancanza di un processo educativo. Insomma, viene detto cosa non fare e cosa non va bene.
Forse parlare di una lieve forma di pessimismo può risultare ardito, ma la percezione che si ha – o che almeno ho sperimentato in prima persona – nella lettura di Siamo tutti galileiani, è che il presente sia incomprensibile, colpevolizzando il sistema scolastico per questo.
Siamo tutti galileiani offre, quindi, una visione d’insieme su quasi tutta la realtà. Lascia da parte, infatti, una porzione del presente, quasi come se ci fosse un’annessa domanda aperta: è necessario un nuovo metodo per decodificare questa realtà così criptica?
A mio avviso, sì. È necessario un nuovo metodo, una nuova interpretazione del mondo che ci circonda. E, nel tentativo di darne degli spunti, vorrei partire proprio da questo libro. Le cosiddette date al cubo non rappresentano altro che eventi epocali, ovvero di sospensione, per cui si è in grado di identificare un prima e un dopo. Anche l’epoca GalWill è un momento storico di sospensione. E, citando lo stesso Bucciantini, «[…] anche allora non fu affatto semplice capire quali fossero i segni della nuova epoca che stava nascendo». Anche qui emergono bene i lati negativi. Le crepe, le faglie. Eppure, l’Autore in questo caso riconosce che, seppure quella – come, m’azzardo a dire, per certi versi anche la nostra – fosse un’epoca tragica, sono presenti anche accezioni positive: al riguardo l’età GalWill, inoltre, è definita anche come conflittuale.
Partendo da questi presupposti, vorrei riallacciarmi alla nostra epoca. È evidente un parallelismo, a livello di conflitto e di tragicità, tra questa e quella descritta in Siamo tutti galileiani. Nonostante ciò, se nella precedente si riconoscono le cose positive, in quella odierna no.
Il successivo punto che vorrei definire è come per Galilei e Shakespeare niente è come appare. Questa prospettiva, figlia, tra i tanti, anche di Montaigne, denota una certa incertezza ed illusione nell’essere umano. E inoltre, sempre attingendo al libro in questione, «poiché non esistono leggi immutabili, l’immaginazione è dunque lo strumento migliore per ampliarle, migliorarle e a volte scardinarle».
Riunendo tutti questi concetti nel tentativo di formulare un qualcosa di più prossimo ad un accenno di una prospettiva di soluzione, ritengo che si debba partire dalla precedentemente citata eterogeneità e dalla vita activa arendtiana – o meglio, dall’agire. Parlare di una cultura, riconoscendone però al suo interno l’alterità delle varie voci, è ciò che viene lievemente accennato da Bucciantini, senza però soffermarsi troppo. Sembra quasi che la cultura, che deve essere unica nel senso di unita e coesa, finisca per diventare una e una sola. Insomma, il tanto criticato dogmatismo, alla fine, emerge anche da questo.
Il punto ultimo che terrei a chiarificare, quindi, è come solo partendo dall’unicità dell’individuo stesso e dalla sua condizione d’azione si può riuscire a tirare le fila, a sbrogliare il groviglio del presente. E, a parer mio, non c’è modo migliore di farlo se non coniugando due componenti: il lavoro e l’immaginazione. Il primo, che vorrei intendere parte nell’accezione arendtiana e parte in quella estremamente pratica, e la seconda, nella sua accezione più performativa possibile, a parer mio sono alla base di questa rivoluzione del sapere.
Questo presente, così apparentemente negativo, segue un tòpos ricorrente della storia. Credo sia una questione di fiducia, quella di oggi così come nel passato. Pensare di osservare un cambiamento istantaneo oggi non è quello che ci insegna lo ieri. Certo è anche vero che, vivendo immersi nella condizione, nello stato tragico che tanto critichiamo, è difficile distaccarvisi. Tuttavia, ripeto, la questione per me è una questione di fiducia. Non in qualcosa di più grande, bensì nell’uomo stesso.