Maria Alessandra Varone (1998) si è laureata in Filosofia all’Università degli Studi Roma Tre nel 2019, conseguendo poi la laurea magistrale in Scienze Filosofiche nel novembre 2021. Attualmente è dottoranda presso l’Università degli Studi Roma Tre per il curriculum Filosofia analitica e scienze empiriche e con interessi di ricerca rivolti alla metafisica e alla storia della scienza in Europa tra la seconda metà del diciottesimo secolo e la prima metà del diciannovesimo secolo.
Recensione a: P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, Garzanti, Milano 2003, pp. 249, €10,00.
La vita è sogno è stato composto nel 1635 da Pedro Calderón de la Barca (1600-1681). Il dramma in tre atti, ambientato in una Polonia immaginaria, racconta la storia di Sigismondo, principe legittimo del regno, figlio di Basilio, re e astrologo. Basilio, leggendo gli astri, ha visto nel fanciullo un futuro tiranno, motivo per il quale, non avendo il coraggio di ucciderlo, per sventare la minaccia, decide di mantenerlo in vita e di segregarlo in una torre, alla cui guardia pone Clotaldo, suo fido. Basilio, però, decide di dare una opportunità al figlio, a condizione di rispedirlo immediatamente nella torre, qualora le profezie si fossero avverate, facendogli credere che la sua vita reale fosse un mero sogno.
Nel frattempo due stranieri scoprono la torre segreta e il suo prigioniero: la giovane Rosaura, dama che ha perso il proprio onore concedendosi al principe Astolfo, e il suo servitore, Clarino, codardo e beffardo. Rosaura, in abiti maschili, e Clarino, giungono in Polonia affinché lei possa riscattare il proprio onore affrontando Astolfo; il quale, nel frattempo, damerino e inetto barocco, seduce Stella, l’infanta. Portato poi Sigismondo a corte, egli giura vendetta per l’ingiustizia subita, assumendo un atteggiamento tirannico e sanguinario, realizzando così la profezia. Vane le parole e le minacce di Clotaldo, Sigismondo si tranquillizza solo alla vista di Rosaura, non più in abiti maschili, ma di dama, e così si trova il modo di stordire il principe e riportarlo nella torre. Al suo risveglio, Sigismondo non capisce più se quello che ha vissuto a palazzo fosse reale o un sogno, il che lo porta ad una trasformazione interiore sulla base dell’incertezza della vita, che pare afferrabile e sicura, come terreno d’azione, solo nell’attimo presente. Ma non finisce qui.
Alla notizia che il trono di Polonia sarebbe andato non a Sigismondo, legittimo erede, ma ad Astolfo e Stella, il popolo insorge e scoppia una guerra civile. I ribelli liberano Sigismondo dalla torre e lo nominano loro capo. Dopo una battaglia, Sigismondo vince, ma non si limita a vincere, ma a farlo nobilmente risolvendo tutti i problemi. Nonostante fosse innamorato di Rosaura, non solo per la sua bellezza, ma per quella della sua anima, la dà in sposa ad Astolfo, rinnovando il suo onore; per sé, sceglie Stella, prevenendola dalla vergogna, e garantendo legittima discendenza al trono.
La trama non riesce a rendere la bellezza dei versi e delle questioni in gioco. Sigismondo, infatti, è un controeroe greco. Egli infatti, esattamente come i grandi colossi della tragedia classica, si pone nella relazione destino-scelta, ma non vi soccombe. Questo è un elemento fondamentale, perché non si tratta di un semplice modello alternativo a quello greco, ma risolutivo, perché viene posto all’interno di una dinamica identica. Sigismondo, infatti, non è né totalmente nel torto né totalmente nel giusto, non è perfetto, sbaglia, ma si riscatta perché vuole farlo, non perché deve. E così tutti gli altri protagonisti, tra i quali spicca, su tutti, Rosaura, la quale da donna imprudente e privata dell’onore diventa una guerriera e infine una sposa. Colpiscono i versi sublimi nei quali Rosaura supplica Sigismondo di farla combattere al suo fianco nella guerra contro re Basilio, per il suo onore, e lo supplica nelle due vesti in cui l’ha vista, da uomo e da donna:
Da donna, vengo a chiederti / di salvare il mio onore; / da uomo, a incoraggiarti / a riconquistare il trono. / Da donna, a commuoverti / chinandomi al tuo prestigio; / da uomo, vengo a servirti / della tua gente in soccorso. / Da donna, a farmi aiutare / contro l’oltraggio e l’angoscia; / da uomo, a darti forza / con la spada e con me stessa. / Ma se oggi come donna / tu pensassi di sedurmi, / come uomo, ti darei / morte in nobile difesa / del mio nome; e per riaverlo, / in questa prova d’amore, / donna sarò nel piangere, / uomo nel farmi valere.
Sono versi straordinari che toccano, e che ricordano molto le note alte e dolci della Clorinda di Torquato Tasso. Sigismondo non è indifferente a queste parole, che, anzi, lo fanno innamorare di più. Ma ciò esalta ancora meglio la scelta finale di lasciarla ad Astolfo. A permettergli questo è proprio il confronto tra l’eternità e il tempo, tra la passione presente e il benessere duraturo. In quel momento capisce che, se da un lato l’istante presente gli è nemico, perché lo acceca con la passione, gli è anche amico, perché può ancora scegliere, può ancora agire: non è detta l’ultima parola e ne è totalmente padrone, ha lucido controllo, è pienamente consapevole della potenza reale della scelta:
Ma se la mia delusione / nasce da qui, se comprendo / che il piacere è una fiamma / che a ogni soffio di vento / in cenere si tramuta, / pensiamo alle cose eterne: / a quella gloria perpetua / dove la gioia non dorme / né la grandezza ristagna. / Rosaura è oltraggiata: / è dovere di principe / dare onore, non sottrarlo. / In nome di Dio: intendo / riconquistare il suo onore / prima della mia corona.
Ma la grandezza di Sigismondo non è solo verbale, infatti non manca il desiderio nonostante la risoluzione, la battaglia è realtà che dura, non il soffio di un istante. Altrimenti non avrebbe valore. Infatti, dice poi a Rosaura, quando lei vede che lui evita il suo sguardo e la tratta con indifferenza, come se non gli importasse della sua supplica:
Per te non trovo altra voce / che quella del mio impegno; / non ti parlo, perché voglio / che per me parlino gli atti; non ti guardo, perché devo, / in così duro tormento, / non sulla tua bellezza, / ma sul tuo onore fissarmi.
Vi è il rovesciamento finale della relazione istante-eternità; in questo dramma non si conquista l’attimo al prezzo della infelicità eterna, ma si conquista la felicità duratura a prezzo dell’attimo. Non è un abbandono della temporalità cheirologica greca, basata sulla fecondità dell’istante, ma un suo superamento, e ciò non avviene in termini sintetici, ma antitetici, con il coraggio dell’aut–aut.
Calderón dimostra che il problema di Antigone non era lo scontro tra legge divina e umana, ma era solo l’ostinazione di Creonte; dimostra che la profezia di Edipo non l’ha subita, ma l’ha realizzata in un attimo di orgoglio ed ira. È nel padroneggiare il presente, unica realtà che sfugga al sogno, che l’uomo può trasformare il brutto e renderlo bello limpido. Limpido è la parola giusta, perché niente rimane irrisolto, non c’è il chiaroscuro greco, c’è solo luce perché si esce dalla incertezza tragica e si arriva alla chiarezza giusta.
Rosaura, donna dall’onore perduto, diventa un’eroina e lo rinnova; Sigismondo, rabbioso vendicatore, diventa un re saggio e ottiene il perdono. Del resto, la svolta prodigiosa era stata anticipata da Calderón:
Mi indichi il Cielo la strada; / ma non so se potrà farlo, / quando in così fondo abisso / il cielo interno è un presagio / e tutto il mondo un prodigio.