Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
A. de Benoist e J. Freund, Il mare contro la terra. Carl Schmitt e la globalizzazione
Diana, Napoli 2019, pp. 124, €14,00.
Fondatore del movimento culturale denominato Nouvelle Droite e fine conoscitore del pensiero di Carl Schmitt, Alain de Benoist ricostruisce nell’agile volumetto Il mare contro la terra, con precisione filologica, la genesi di Terra e mare, l’opera più singolare ed eccentrica tra quelle scritte dal grande giurista tedesco. Un’opera eccentrica nella forma (più accessibile e cordiale rispetto al resto della produzione intellettuale schmittiana), ma profonda nelle intuizioni e nell’originalità. Benoist tratteggia nelle prime pagine, attingendo all’epistolario di Schmitt, i precedenti dell’idea schmittiana di contrapposizione (non solo) metaforica tra l’elemento terraneo e l’elemento acquatico, nonché le vicissitudini e le contingenze che condussero il pensatore tedesco a scrivere il saggio.
Non è questa la sede per esporre sinteticamente il contenuto di Terra e mare. Trattandosi di un classico della letteratura politica diamo per scontato che il lettore già conosca l’opera e, se ancora non la conoscesse, proprio la lettura del lavoro di Benoist (completato con la riproposizione del saggio di Julien Freund sulla Talassopolitica, risalente al 1985 ma ancora attuale) potrà offrirgli un’intelligente introduzione. Qui ci preme invece cogliere al volo alcuni punti della riflessione schmittiana, mediata dalla tersa prosa di Benoist, e proporli al lettore quale stimolo interpretativo dell’odierna globalizzazione.
Terra e mare, con l’insistita contrapposizione dell’Inghilterra oceanica all’Europa continentale (ossia alla Germania nazionalsocialista), paga un forte tributo al contesto in cui vide la luce, nel 1942, ma al contempo è anticipatrice di visioni di sorprendente attualità. Il concetto della ontologica rivoluzione degli spazi si traduce, metaforicamente, persino sul piano antropologico: con l’inglese della tarda età elisabettiana conquista la ribalta della storia l’uomo dei mari, «uomo di una specie diversa da quello della terraferma» (p. 56), l’uomo dell’illimitatezza spaziale incommensurabilmente potenziata dalla tecnica, l’uomo che oltrepassa se stesso e la storia nel sempre più accelerato flusso delle innovazioni e degli scambi, l’uomo del nessun luogo e della mutevolezza permanente. Nel 1942 la Germania perseguiva la politica del Lebensraum, lo spazio vitale, ma Schmitt già aveva compreso che la storia procedeva verso una rete di Großraum, i Grandi Spazi contrapposti. Il Lebensraum apparteneva al passato continentale e “terrestre”, esso non era altro che un territorio concepito nella consueta maniera continentale e radicato nel suolo. Insomma si traduceva in un vecchio spazio allargato.
Il Großraum di cui Schmitt più diffusamente si riferisce nella sua opera capitale del 1950, Il Nomos della terra,, «è tutt’altra cosa rispetto al “territorio” del vecchio ordine eurocentrico». Esso è ormai uno spazio a vocazione oceanica e mondiale, uno spazio di oltrepassamento non solo degli ultimi residui del jus publicum europaeum (in inesorabile disfacimento sin dall’epoca della Rivoluzione francese), ma dello Stato territoriale sovrano.
Con l’approccio realista e pessimistico, da cattolico agostiniano, che sempre lo contraddistinse e che, e non per caso, gli venne rinfacciato nel 1936 dal periodico nazionalsocialista «Das schwarze Korps», Schmitt accetta l’inquietante divisione del globo tra grandi spazi a vocazione mondiale, ma scorge un pericolo ancor più grave. Il superamento dei grandi spazi, data l’ineluttabilità del processo di deterritorializzazione degli Stati e della politica, segnerebbe l’avvento del Menschenstaat, lo Stato mondiale dell’umanità. E sarebbe anche la fine della politica perché un’unica compagine mondiale annullerebbe la demarcazione fondamentale amicus/inimicus, alla base del politico e delle sue categorie. Ma già nei primi anni Cinquanta Schmitt, posto di fronte alla radicalizzazione oppositiva dei due grandi spazi (l’atlantico-americano e l’Eurasia sovietica), non credeva alla realizzazione storica della definitiva prevalenza di un unico Großraum e del conseguente avvento dello Stato mondiale e della fine della politica (e della storia).
Schmitt riteneva, invece, che dalla Guerra Fredda sarebbe emerso il fatto nuovo della divisione del globo tra una pluralità di grandi spazi e individuava in questo futuro pluralismo di realtà oceanico-mondiali l’unica possibilità di sopravvivenza della politica e della basilare contrapposizione amico/nemico. Benoist sottolinea giustamente la preveggenza (razionalmente fondata e argomentata) di Carl Schmitt: non il dominio mondiale americano o sovietico ma un mondo multipolare; una contrapposizione complessa di quattro o cinque macro-aree a vocazione oceanica e mondiale, ma pur sempre (per il fatto stesso della reciproca contrapposizione) delimitate nell’ambito delle categorie del politico. Il pensatore francese sottopone l’originalità schmittiana a verifica storica postuma, con esiti di piena conferma. Agli inizi degli anni Novanta del XX secolo il Großraum statunitense sembrava destinato ad avviluppare in sé l’intero globo, senza più freni né ideologici né culturali né tantomeno militari. E già compariva chi, come Francis Fukuyama, teorizzava la fine della storia in uno spazio globale di perpetuo liberoscambismo capitalistico.
Con la rapida emersione di nuovi grandi spazi – cinese, indiano – e il ritorno in forme inedite di vecchie resistenze ideologiche – l’Islam, vecchi e nuovi nazionalismi e sovranismi, sappiamo oggi che Fukuyama ha avuto torto e Schmitt, quarant’anni prima, aveva meglio compreso e meglio previsto gli sviluppi di lunga durata della storia mondiale. Le categorie schmittiane del politico continuano a possedere valenza concettuale e interpretativa anche nel mondo di oggi. L’idea cara a Schmitt del katechon (ripresa dalla teologia politica paolina) non fa eccezione: chi può ancora opporsi all’emergente ideologia globalista, apolide, finanziaria e spoliticizzata se non, appunto, i singoli grandi spazi?
Il grande spazio si configura dunque come possibile katechon, soggetto che raffrena e ritarda la fine della politica, della storia e dell’umanità differenziata. E tuttavia oggi assistiamo a quella che senza mezzi termini e pessimisticamente Benoist definisce la «destituzione del politico» (p. 59), cioè del mondo tellurico «legato a limiti terrestri stabili», alle frontiere, agli Stati sovrani, alle culture e tradizioni radicate nel suolo e nella storia. Tutto sembra procedere verso la vittoria della legge liquida (oceanica) dei mercati: «globalmente parlando, la modernità è marittima, in quanto consacra l’economia sul politico». Al singolo componente di una comunità di storia e di destino sostituisce il consumatore apolide e indifferenziato.
Il mare, così spesso evocato da Schmitt, va inteso (anche e soprattutto) in senso metaforico, naturalmente. Esso rinvia ai noti concetti sopra richiamati e Schmitt, pur non omettendo riferimenti ad altre categorie (il cattolicesimo rurale e terraneo contrapposto al protestantesimo borghese e a vocazione marittima), chiarisce a se stesso e ai lettori la metafora del mare con un preciso riferimento storico: l’Inghilterra. Essa, scrive de Benoist ispirandosi a Schmitt, «smettendo di essere un semplice prolungamento insulare del Continente, si deterritorializza» (p. 35). E certamente Schmitt ha bisogno dell’Inghilterra («una nave che percorre gli Oceani […], una nave pirata») per incarnare la metafora marittima in una solida e concreta realtà storica.
Benoist espone limpidamente il pensiero di Schmitt sul processo di “deterritorializzazione” dell’Inghilterra, senza però sottoporlo a revisione critica. Ci pare invece lecito porsi qualche dubbio. Se l’idea generale di Schmitt è chiara, non è detto che il fenomeno storico prescelto sia il più appropriato. La “deterritorializzazione” di uno Stato e di una nazione presuppone la compiutezza di due condizioni: a) la dislocazione oceanica del proprio baricentro di interessi commerciali e imperialistici; b) la dissoluzione dei legami sociali, culturali, religiosi, giuridici con la homeland, la terra di origine. Uno Stato, un popolo, una cultura deterritorializzati si tramutano in realtà liquide, fluide, mercantili, si diluiscono nell’illimitatezza (appunto oceanica) del mercato di libero scambio, senza storia e senza punti di riferimento ad eccezione di un sistema minimale di regole (certe e chiare) che salvaguardino la rapidità degli scambi, ossia la lex mercatoria.
Ora è indubbio che un elemento caratterizzante della storia moderna britannica (e non solo britannica) sia stato (e continui a essere) il liberoscambismo oceanico (oggi diremmo meglio: globale). Ma è altrettanto indubbio che tra le nazioni europee la britannica (e specificamente la inglese) è quella che negli ultimi quattro secoli ha dimostrato il più tenace, perseverante, ostinato e geloso attaccamento alla propria terra, al proprio piccolo scoglio circondato dai mari. Già Edmund Burke alla fine del XVIII secolo sottolineava con legittimo compiacimento la peculiarità inglese di costumi, tradizioni, leggi, pregiudizi e costituzione politica nati dalle stratificazioni storiche sul suolo britannico. L’uomo inglese già allora dominava i mari perché sapeva chi era e da dove proveniva. Con un balzo di due secoli rispetto all’epoca di Burke un altro intellettuale inglese, Roger Scruton (England: an Elegy, 2000), completamente avulso da polemiche antischmittiane, evoca con un lirismo ben radicato nella storia e nella sociologia il legame particolarissimo che unisce l’uomo inglese alla homeland, alla countryside reale e metaforica, alla casa (home) e alla comunità territoriale e di destino che è la sua isola.
D’altronde, quando nel 1923 George Santayana scriveva che l’inglese «carries his English weather in his heart wherever he goes», non faceva altro che rivestire letterariamente una verità immediata e intuitiva e a tutti nota. Con le recentissime elezioni britanniche questo popolo (il più “oceanico” e liberoscambista del globo, secondo le categorie schmittiane) ha confermato per una volta di più il singolare attaccamento alla propria terra e la refrattarietà alla cessione di potere statuale sovrano e di controllo dei confini costieri a un ente sovranazionale. Un dato su cui vale la pena riflettere.