Luca Dilillo (1996) si è laureato in Storia e Filosofia all'Università degli Studi di Catania. È aspirante docente abilitato in queste discipline e ha approfondito i suoi studi esplorando le possibilità di applicazione pratica della filosofia con un Master in Consulenza Filosofica e Antropologia Esistenziale presso l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e l'Università Europea di Roma. Collabora con la rivista online "Il Pequod" scrivendo riflessioni e approfondimenti su argomenti letterari, storici e filosofici.
Recensione a: A. Berger, Tolkien, l’Europa e la Tradizione. La civiltà e l’immaginario, trad. it. di F. Costadoni, Passaggio al Bosco, Firenze 2022, pp. 100, € 10,00.
Che John Ronald Tolkien sia stato un grande autore fantasy nessuno oserebbe metterlo in dubbio. Ma sulla natura peculiare di questo ‘fantasy’ si può e si deve invece naturalmente dibattere. Innanzitutto occorrerebbe mettersi d’accordo sul significato di una parola in apparenza così vuota perché abusata – complice una lingua inglese oggi tanto spesso mezzo di superficiale banalizzazione dei concetti. Fantasy non vuol dire altro che fantasia; ma fantasia è termine ambiguo e complesso. Di che genere di fantasia si fa portatrice l’opera letteraria del grande Autore?
A partire da questo interrogativo ritengo che si possa tentare un approccio allo svelto libriccino di Armand Berger, specialista di studi germanici e curatore del numero della rivista «Nouvelle École» dedicato al professore oxoniense. Parlare infatti del peso della tradizione mitologica europea sulla costruzione del mondo di Tolkien non è che un modo per comprendere l’origine e la natura dell’intera sua operazione ‘fantastica’. La fantasia tolkieniana – come il testo di Berger ribadisce a più riprese – forma un tutt’uno con il grande mito occidentale, ne è a tutti gli effetti una continuazione moderna. Conoscere l’humus sul quale è maturato e cresciuto l’immaginario del nostro autore non è certo necessario per godersi le sue opere; ma ciò che Berger si prefigge è di rendere il giusto omaggio all’immensa rilevanza morale e culturale, ancora purtroppo disconosciuta da molti, di quanto realizzato dal professor Tolkien: di fatto, egli ha “preso sulle spalle il peso della tradizione”, custodendo e poi trasmettendo alle generazioni future una preziosa eredità culturale e spirituale.
C’è di più: Tolkien non si è limitato ad essere studioso della tradizione mitologica e leggendaria; dopotutto, studiare non coincide con preservare, men che meno con trasmettere, e ciò risulta abbastanza chiaro. Ma neppure il mero insegnare, classicamente inteso, implica di per sé stesso custodia e consegna. L’opera tolkieniana ha qualcosa di più vitale: essa ridona vigore agli antichi miti, li rende ‘moderni’, se così si può dire, inserendoli in una nuova cornice, originale, ma che risuona dello spirito di un immaginario sacro e immortale. Quest’opera non è solo un passatempo fantasy, ma risponde a un’esigenza vitale, a un dovere morale, a un istinto ancestrale. Fin dalle prime battute Berger ci mette davanti il contrasto tra le tendenze di un’epoca dominata dalla crisi creativa, dall’esaurimento e dalla spasmodica ricerca di novità e l’audace e spensierato andar controcorrente di un autore che rivolge lo sguardo all’indietro; Tolkien ama le lingue, la lettura, le fiabe e le leggende. Da piccolo legge le storie di Andrew Lang, folclorista scozzese che nei suoi Fairy Books aveva adattato antichi racconti per un pubblico giovane. Uno di questi racconti è la storia dell’eroe Sigurðr, uccisore del drago Fáfnir: è il primo incontro del professore con un immaginario mitologico decisivo per la sua fantasia creatrice.
In poche righe Berger condensa una quantità incredibile di riferimenti, letterari, filologici, storici, filosofici. Il suo libro ha il grande merito di spingere il lettore fuori da quelle righe, verso i mondi ricchi di fascino e valore che contribuiscono a plasmare l’universo tolkieniano. Getta dentro chi è sempre rimasto ai margini di un tale magma; per chi ne possiede qualche nozione, è occasione per scoprire nuovi collegamenti o rinverdirne di già noti. Anche solo il passaggio qui accennato è un fiorire al pensiero di nessi sostanziali: prima di tutto tra la fiaba e la grande mitologia europea, congiunte nella mente del professore fin da quelle letture giovanili. Impossibile per lui disprezzare da adulto quel mondo delle fairy stories che proprio da bambino lo aveva messo in contatto con leggende antichissime dal sapore di autentica fiaba.
C’è poi il legame inscindibile che intreccia l’amore per le lingue a quello per le storie. È la medesima, rigorosissima competenza filologica che Tolkien riversa tanto nell’attività accademica quanto nella creazione di mondi e linguaggi: codici linguistici e cultura di un popolo che sono del resto due facce di una stessa medaglia, come il professore non mancava di ribadire. Ancora, affiora il posto speciale che mitologia scandinava e antico norreno sempre avranno all’interno dell’universo tolkieniano, nella doppia direzione della fascinazione esercitata dalla leggenda di Sigurðr e dello studio universitario della lingua norrena, scelta come specialità nel corso di studi in Anglistica. Tutto questo non è che un saggio dell’armonico mescolarsi di studi, letture, passioni e professione nell’arco dell’esistenza di Tolkien; un accordo discordante che Berger fa emergere in ogni passo della sua disamina di ispirazioni e modelli di riferimento del nostro autore. E con questo non siamo di fronte a uno studio specialistico, ma ad un assaggio, potremmo dire ad un’introduzione ragionata sul mondo di Tolkien, che attraversa materiali mitologici, simboli archetipi della tradizione europea, la visione dell’eroismo e i rapporti tra tecnica e natura, con lo sguardo sempre rivolto ai legami con il patrimonio culturale occidentale: una “passeggiata” tra reale, mitologico e immaginario – per usare le parole di Berger – utile a stimolare piuttosto che ad approfondire, gettando una luce fuggevole sulla ricchissima base mitologica, storica e immaginifica dell’universo tolkieniano; da questa passeggiata affiora un profondo anelito tradizionale – e non tradizionalista – orgogliosamente antimoderno, nella misura in cui rifiuta le aberrazioni di una modernità sradicata dalle sorgenti più autentiche dell’esserci; un anelito di sacro rispetto per l’esistente, per la natura, intesa come assetto equilibrato del cosmos, e per la cultura europea, che va preservata, custodita e amorosamente affidata ai posteri come missione etica, affinché non vada perduto ciò che siamo.
Di tutta la cultura generata nel nostro bel continente, certo quella mitologica, leggendaria e folclorica è la più bistrattata, ridotta tutt’al più a insieme di storielle obsolete, senza valore, accessorie: un antico divertissement, povere note a margine dei maggiori conseguimenti della nostra civiltà. L’opera di Tolkien, appassionando e affascinando, ci educa alla bellezza del mito. Ci consegna l’immenso valore culturale e spirituale di un grande patrimonio ignorato, l’immensa e profonda verità di questa parte della tradizione europea: una verità insieme reale, letteraria, immaginifica, simbolica, archetipica e idealmente universale, sepolta più che dal tempo, dalla banalità del sopravvivere contemporaneo. Non è assurdo né sciocco ritenere valide e vere le antiche storie: esse ci ricordano chi siamo, ci riuniscono al senso intimamente umano e naturale dell’esistere, ci riconsegnano al soffio vitale di sacralità della terra e dei simboli. Ed è questa forse la qualità principale delle storie di Tolkien: egli «lega le parole poetiche in una dimensione archetipica e mitica, sfumando termini, immagini e ritmo in un mosaico finemente realizzato, che agisce su di noi, nel momento della rivelazione d’una civiltà stranamente nuova al tempo stesso familiare» (p. 86).
Chi superficialmente liquida questo riproporre gli antichi miti dentro una cornice nuova come segno di scarsa originalità non tiene conto di un punto essenziale: Tolkien è lontano da quel clima di marca romanticheggiante che esalta all’estremo una nozione di genialità individuale spinta alla continua e ossessiva ricerca del radicalmente nuovo, la quale infine non può che esaurirsi nella crisi creativa – come si diceva all’inizio. No: Tolkien preferisce una via magari più dimessa, certo meno battuta dalla modernità, per quanto egualmente nobile: egli non è un ‘genio ispirato’, ma l’umile «depositario di una tradizione che ci trasmette» (p. 80), un «grande bardo anglosassone», come l’ha definito Wynstan Hugh Auden. Lo è fin dall’inizio, da quando avvia l’impresa temeraria di donare all’Inghilterra una mitologia veramente sua, pregna di terra e di popolo; continua ad esserlo anche dopo l’abbandono del progetto, riscrivendo le antiche leggende che più ama, inventandone di nuove in cui «infondere la mitologia propria delle differenti tradizioni europee» (p. 51).
La fantasia del professore si inscrive nella tradizione, rinnovandola. Se dunque in racconti, lai e avventure degli Hobbit ritroviamo di volta in volta immagini familiari: la cerca del tesoro, il passaggio attraverso il bosco, la lotta contro il drago, l’eroismo e il potere, la simbologia della luce, la Caduta; se li ritroviamo è perché in tutti quei luoghi Tolkien ci narra ciò che rende indimenticabili le fiabe di ogni tempo: il permanente dell’umano. Il libro di Armand Berger, riportandoci al sostrato mitologico dell’opera del professore, richiama a quel “portare il peso della tradizione” che è in fondo un dovere morale di tutti noi. Perché tutti noi siamo chiamati a scegliere fra tramandamento e dissipazione. A questo proposito è perfettamente calzante l’immagine che Berger propone: quella di Fëanor, il Noldo ribelle che, una volta giunto sulla Terra di Mezzo, brucia le sue navi, tagliandosi la strada per un possibile ritorno al Reame Beato. Il suo destino parla chiaro: morte per sé e decadenza per il suo popolo.
Alla fine dei conti, quel che il professor Tolkien ci insegna è che ci è data una scelta: possiamo, se lo vogliamo, «tornare agli alberi»; possiamo «tenere i piedi ben piantati sulla terra madre»; possiamo amare la terra e il cielo, abitarli e celebrarli come la vita stessa, alla maniera degli Hobbit. Possiamo decidere di coltivare, di custodire, magari infine di tramandare. E finché potremo scegliere, allora avremo Estel:
Speranza, vale a dire Fiducia.