Recensione alla Mostra su Robert Doisneau, a cura di Gabriel Bauret, presso i Chiostri di Sant’Eustorgio, Milano (aperta sino al 15 ottobre 2023).
Come altri fotografi e metafisici, anche Robert Doisneau sostiene e riconosce che «la fotografia è un’arte funerea. Appena hai scattato, l’immagine appartiene già al passato». Percorrendo le sezioni che compongono questa avvolgente e felice mostra – i bambini, il lavoro, la seconda guerra mondiale e la liberazione, l’amore, gli interni, i ritratti – emerge in tutta la sua lievità e tragedia il destino degli spazi, delle città, dei corpi umani, dei loro sorrisi e crucci, delle ironie e delle intenzioni, del tempo che dedicano a sopravvivere (il lavoro) e dei modi di tale sopravvivenza (il lavoro e i suoi frutti nella totalità del tempo). Questo destino è esserci nel momento dell’istante e poi subito dissolversi nell’esserci stato della memoria personale, della storia collettiva, dei documenti che permettono all’istante di vibrare ancora negli anni e, in alcuni casi, nei secoli, negli evi. Sino a quando la grande energia necessaria a perpetuare il respiro umano nella materia sarà cessata del tutto.
Nel frattempo lo sguardo puro e profondo di persone come Doisneau permette di conoscere, ricordare e gustare un mondo dal quale ci separano pochi decenni ma che si è interamente dissolto. Il mondo della Francia e di una Parigi nelle quali un ballo non è forma di stordimento ma relazione tra persone, gli angoli delle strade sono vuoti nel pieno del giorno e attraversati da ragazzine tranquille, un signore assai elegante sbircia un nudo prorompente mentre la moglie guarda altro, il vento si intrufola tra le gonne formando corpi plastici come sculture dentro l’aria, il canale Saint-Denis è un ovale di serenità.
A chi tanto si scandalizza di coloro che parlano per la Francia e per Parigi di «Grand Remplacement», di una sostituzione etnica la quale – come sostiene Renaud Camus – consiste semplicemente nel fatto che dove ora c’è un popolo con determinate caratteristiche e costumi, nell’arco di poco tempo ce ne sarà un altro con diverse caratteristiche e costumi, a chi ritiene che descrivere una tale evidenza sia inammissibile, basterebbe il suggerimento di confrontare le immagini della Parigi di Doisneau con ciò che è Parigi nel 2023. Si può valutare tale trasformazione in termini del tutto o parzialmente positivi, si può rimanere indifferenti alla questione ma non si può negare la realtà di una radicale trasformazione nelle abitudini, nei costumi, nel modo di presentarsi e di essere della città.
Trasformazioni che sono sempre accadute, certo, perché nelle vicende umane tutto scorre, ma la differenza sta anche nei ritmi e nelle modalità di tale flusso. Perché sono poi tali ritmi e modalità a determinare la sopravvivenza o meno della memoria negli abitanti di un luogo e negli esponenti di una civiltà. E dove tale memoria è attaccata, denigrata, calunniata e alla fine dissolta – questo è appunto il modus operandi della Cancel culture – l’esito non è la trasformazione ma è semplicemente la fine di una modalità collettiva di vita.
È quello che è accaduto, ad esempio, con la fine dell’Impero Romano. Solo che quel tramonto è durato tre secoli, dalle crisi economiche del III secolo sino alla fine del V, mentre «la grande sostituzione» ha ritmi assai più veloci, come è tipico del nostro presente, e quindi i suoi esiti sono traumatici, sono distruttivi, sono appunto dissipativi dell’Europa.
È come se una grande entropia storica e ideologica fosse all’opera nella vita quotidiana delle città europee – un esempio è la Svezia, dove interi quartieri di Stoccolma sono di fatto proibiti agli svedesi –; come se la bellezza e la ricchezza degli spazi del Continente fossero ritenuti elementi disdicevoli in una prospettiva globalista di uniformità verso il brutto e l’utilitario; come se il possedere un’identità non fosse la condizione primaria per accogliere davvero qualunque differenza.
E invece, per parafrasare Tacito, «ubi solitudinem faciunt, pacem appellant» (De vita et moribus Iulii Agricolae, XXX, 4-7), dove fanno il deserto, lo chiamano «accoglienza».