Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.
Recensione a: I. Calvino, Il castello dei destini incrociati (1973), Mondadori, Milano 2023, pp. 180, € 13,00.
Quest’anno è un secolo dalla nascita di Italo Calvino, cinquant’anni dall’uscita dell’opera Il castello dei destini incrociati (nell’edizione ampliata che presentava anche il racconto de La taverna dei destini incrociati), e infine proprio in vista della prima di queste ricorrenze la casa editrice Mondadori ha deciso di ripubblicare in nuova veste tutte le opere di Calvino, compresi alcuni dei più importanti lavori di saggistica.
Riteniamo importante dire subito che la nuova veste, molto colorata e dall’estetica giocosa, solleva qualche perplessità: ma questa è evidentemente una questione soggettiva, anche se non sono pochi i lettori di Calvino nostalgici delle scelte estetiche einaudiane.
Che cos’era il castello dei destini incrociati, e soprattutto in che modo si lega al nostro tempo e al saggio delle Lezioni americane che l’autore ha consegnato come “mappa”, sistema di conoscenza, per il nuovo millennio?
Questo romanzo viene pubblicato per la prima volta nel 1969 all’interno di un volume dal titolo Tarocchi – Il mazzo di Bergamo e New York (Franco Maria Ricci Editore), in una edizione che non contiene ancora il romanzo breve de La taverna. Nell’edizione einaudiana degli anni Settanta è già presente il testo narrativo accompagnato dalle riproduzioni delle carte dei Tarocchi che continuamente variano nella combinazione: è proprio da tale combinazione che Calvino innesca il processo di diversifcazione delle storie dei personaggi. Un’opera di letteratura combinatoria che lascia intendere gli interessi dell’autore e nei confronti di una certa letteratura fantascientifica e del mondo della cartomanzia, dall’altro lato riflette le influenze del periodo parigino affianco a Raymond Queneau, Georges Perec e la compagnia dell’Oulipo.
Il castello dei destini incrociati, precisa Calvino, nasce da una serie di suggestioni che egli stesso raccoglie dopo aver seguito l’intervento di Paolo Fabbri su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi durante il Seminario internazionale sulle strutture del racconto del luglio 1968 a Urbino. I due avviano una corrispondenza, e da qui emerge l’idea di Calvino di utilizzare i tarocchi come una macchina narrativa combinatoria, estendendo il lavoro descritto negli scritti di M.I. Lekomceva e B.A. Uspenskij, La cartomanzia come sistema semiotico e B. F. Egorov, I sistemi semiotici più semplici e la tipologia degli intrecci (traduzione italiana in I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, a cura di Remo Faccani e Umberto Eco, Bompiani).
Tuttavia, Calvino tiene a precisare nelle corrispondenze che la sua ricerca non si avvale interamente dell’apporto metodologico dei lavori precedentemente citati; da questi lavori rileva e porta nella sua letteratura la questione che definisce l’importanza di ogni singola carta a partire dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono. Questo meccanismo verrà raffinato proprio attraverso gli scambi orali ed epistolari con l’amico Fabbri.
Tornando al romanzo, possiamo dire che si tratta di una storia che segue regole e combinazioni rigide, seppur dentro una cornice che sembra distante dalla quotidianità. In questo senso, matematica e arte divinatoria, consentono di organizzare un racconto infinito contenuto in un numero finito di pagine.
Il filo che stringe un legame tra il romanzo del Castello e le Lezioni americane è evidentemente la testimonianza di un certo modo di guardare il mondo. D’altronde, lo stesso Calvino a più riprese ha evidenziato la sua necessità: trasmettere al lettore un certo modo di guardare le cose e gli eventi. In entrambi i lavori dell’autore, talora implicitamente, si rimane catturati nelle antinomie del vivere che sembrano regolare l’adattamento a questa nuova visuale; a questo proposito è utile ricordare il testo L’occhio di Calvino, scritto da Marco Belpoliti nel 1996 e pubblicato da Einaudi, e naturalmente la lezione americana sulla Visibilità.
Queste antinomie, se nel romanzo possono solo essere intuite attraverso le peripezie che emergono dalla situazione in cui si ritrovano i personaggi di fronte al racconto del loro destino attraverso la macchina combinatoria delle carte, nelle Lezioni vengono sistematizzate in 5+1 sezioni (Consistency, è l’ultima lezione solo abbozzata) in cui ogni antinomia viene approfondita in una sola polarità, che inevitabilmente lascia intuire molto dell’altra.
Per tornare al Castello, è indispensabile dire quanto la struttura di questa opera dice del suo autore; infatti, l’operazione di partire da una informazione visiva o per meglio dire immaginale come può essere una carta dei tarocchi, ha segnato sin dall’inizio la carriera di Calvino. In realtà, ha segnato la vita stessa, perché è lo stesso Calvino a raccontarsi come abile inventore e combinatore di storie di fronte a quadri, fumetti, fotografie. Un certo farneticare infantile, così lo chiama, su pagine piene di figure, sino a raggiungere una personale iconologia fantastica.
Troviamo l’autore immerso in questo atteggiamento visivo-esegetico anche di fronte le pitture di Carpaccio a San Giorgio degli Schiavoni a Venezia, nel tentativo di seguire e reinventare i cicli di San Giorgio e San Gerolamo, fondendo in una unica storia elementi diversi, assenti, emersi da dettagli in between – nella corrispondenza – tra interiorità ed esteriorità.
Dopo cinquant’anni, quei destini continuano ad incrociarsi nel castello e giù nella taverna, purtuttavia riuscendo a stabilire un contatto ancora vivo tra struttura originale del testo e sentimento di inesauribilità che ha il suo motore in un elemento affatto aleatorio e invisibile: le possibilità matematiche dischiuse dall’intreccio tra strategie della cartomanzia ed emblemi visuali racchiusi in ogni carta. Un connubio perfetto per il Calvino che dagli anni Sessanta ha sempre più ricercato un metodo per spingere all’infinito i significati narrativi proprio attraverso le limitazioni strutturali, in questo caso date dal numero finito dei tarocchi ed evidentemente delle pagine dell’oggetto-libro.