Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a:
P. Camporesi, Il governo del corpo. Saggi in miniatura, Il Saggiatore, Milano, 2022, pp. 192, € 22,00.

Fra i volumi di Piero Camporesi, filologo e storico italiano fra i maggiori del Novecento, conosciuto forse più all’estero che nel nostro Paese, volumi meritoriamente ripubblicati negli ultimi tempi dalla casa editrice Il Saggiatore, ci soffermiamo su Il governo del corpo. Rispetto ad altri titoli più noti del saggista romagnolo, Il governo del corpo rappresenta una piccola, ma – per così dire – vertiginosa raccolta di saggi. Si tratta, come recita anche il sottotitolo, di vere e proprie miniature, lampi di erudizione e di divulgazione. Camporesi, anche in questo caso, non scrive propriamente né da storico, né da critico letterario, tenendo per mano il lettore in brevi fughe nel passato, portandolo a vedere gli «improvvisi sussulti della storia» (p. 18), a prendere le distanze da ciò che appare naturale quando invece non è che una costruzione storica, l’esito di un processo culturale e, a volte, di vere e proprie rivoluzioni.

Quali sono i temi a cui sono state dedicate queste piccole dissertazioni, nate essenzialmente negli anni Ottanta del secolo scorso come articoli per la Terza pagina del “Corriere della Sera”? Potremmo dire che si tratti degli argomenti più cari a Camporesi: il cibo e la cultura culinaria, il sesso, i rapporti fra teologia e storia, le malattie, la scoperta di nuove passioni e di nuove mode nel corso della storia moderna… da questo punto di vista, ne esce davvero confermata l’immagine dell’autore come di un “marginale contento”, come egli stesso scriveva nella introduzione alla prima edizione di questo volume:

Sono riuscito così a guardare da molte finestre e soprattutto a respirare qualche buona boccata d’aria diversa, più ricca d’ossigeno e ionizzante. Ho fornicato con la storia alimentare, con i manuali di cucina, con l’economia agraria, con le culture dei campi, della strada e della fame, ho visitato il paese di cuccagna e quello di carnevale. Mi sono piacevolmente sentito un marginale e ho vissuto liberamente in limine per un quarto di secolo: ho frequentato per un certo tempo santi padri e teologi, sono andato con predicatori, esorcisti, medici, anatomisti, naturalisti, speziali, «minerari» e «pratici investigatori», ciarlatani, spacciatori di segreti, vagabondi e zerganti, buffoni e cantimbanchi e simil genìa» (p. 10).

D’altra parte, quegli interventi erano rivolti a una questione di fondo, sempre più incombente nell’epoca ancora solare degli anni Ottanta: la fine dell’Italia contadina, con i suoi riti, la sua cultura e i suoi sapori particolari. Ciò che Camporesi vedeva sempre più chiaramente, pur senza farsi prendere da inutili nostalgie, era l’incalzante omologazione di massa dei comportamenti e dei gusti degli italiani. Pensiamo soltanto al vero e proprio ribaltamento avvenuto rispetto al cibo: in pochi decenni, si è passati dalla preoccupazione per il mangiare (e per i piaceri che potevano derivarne) alla preoccupazione, anzi alla paura di mangiare troppo o male. Oggi ciò che conta non è nutrirsi, ma essere leggeri. All’epoca della sobrietà e a quella, piuttosto breve, dell’opulenza, sembra essere succeduta una nuova ideologia, quella del mangiare sano. Il cibo è divenuto oggetto di una specie di religione, tanto da essere allo stesso tempo rimedio contro i pericoli per la salute e fonte di nuove, massive nevrosi.

Alla base della mutazione radicale del significato “esistenziale” che, per millenni, l’uomo ha attribuito al cibo, c’è stata la diffusione di un nuovo, onnipresente narcisismo di massa: l’amore di sé, del proprio corpo, della propria igiene, della propria salute, ha appunto comportato una feroce omologazione in ogni ambito della vita umana, non solo per l’alimentazione, ma anche per il sesso, la cura delle malattie, il rapporto con la natura e con la religione.

La nostra è l’epoca dei deodoranti, per cui l’olfatto è un senso sempre più inutile e il naso una protuberanza fastidiosa:

L’eccellenza del naso è ormai tramontata: da anni anche nel cinema hollywoodiano i grandi nasuti sono stati ridotti al rango, non proprio esaltante, di “caratteristi”. Pur se i nuovi maschi, gli incerti stalloni melensi dal naso contenuto, pare abbiano generalmente seri problemi di convivenza uxoria. Il tramonto del naso fortemente modellato conduce, inevitabilmente, alla progressiva decadenza dell’olfatto e, di rimando, all’inevitabile deterioramento del gusto (p. 104).

Allo stesso modo, siamo nell’epoca dei detersivi: la paura delle contaminazioni, delle impurità, è governata da un mercato sempre in crescita, che conduce a una generale sterilizzazione di tutto ciò che eccede dalla neutralità.

Un’ultima notazione meritano le osservazioni di Camporesi sulla concezione moderna dell’aldilà, su come questa evoluzione dei costumi e dei consumi abbia inevitabilmente intaccato anche le credenze degli uomini, la loro visione della vita presente e futura. Non si tratta soltanto di secolarizzazione: siamo, infatti, ormai legati ad esempio all’idea di una specie di «post-inferno»: proprio perché siamo sempre meno uniti alla terra, non riusciamo più a immaginare che nelle sue profondità ci sia il diavolo con tutti i dannati. Allo stesso modo, il paradiso si è dissolto, essendo il cielo ridotto a spazio di volo. L’unica religione possibile – pare dirci Camporesi – è quella egocentrica dell’io, di un nuovo fanatismo individualistico, peraltro molto più deprimente dei precedenti.

Chiuso a tempo indeterminato l’inferno, la vecchia cantina graveolente di zolfo e di carni sfatte certamente peccaminose ma non proprio radioattive; trasferito altrove, per ovvia misura precauzionale, l’eden dei beati, ai poveri cristi che non hanno più isole felici e luoghi ameni verso cui salpare, a tutti gli animali che strisciano sulla terra e alla gente comune che vive nel mondo sublunare giorni sempre più opachi e precari, la prospettiva di doversi tappare il naso per l’eternità e il terrore di sbagliare la verdura giusta devono necessariamente inoculare il dubbio che Prometeo sia stato, se non un mascalzone, un irresponsabile provocatore (pp. 83-84).

Questa, in sintesi, la lezione di questo libro, lezione che dobbiamo prendere non solo e non tanto come la lamentazione di un uomo troppo votato a un passato per nulla memorabile, ma come una specie di avvertimento, ancora oggi più che mai attuale: i successi della medicina, le nuove regole del viver sano, l’illusione di potersi mantenere giovani sempre più a lungo – così che ormai le farmacie non vendono farmaci, ma tecniche di ringiovanimento – possono darci una vita sempre più lunga, ma sono ancora ben lungi da garantirci una buona qualità della vita; anzi, probabilmente, non potranno mai garantircela o, almeno, solo per pochi fra noi. Ciò che resta, per i più, non è altro che una forma nuova di governo del corpo, per cui l’anima (un’anima divenuta ipermoderna, igienista e post-erotica) continua essere, per dirla con Foucault, pur sempre la vera prigione.

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