Gianluca Magazzini si è laureato al "Cesare Alfieri" di Firenze in Scienze Politiche indirizzo Storico-Politico, con una tesi sulla Repubblica di Weimar. È un gestore di attivi liquidi presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia, dove si occupa della strategia di portafoglio con “focus” mercati azionari e materie prime. Attivo sui mercati finanziari dal 1997 è stato inizialmente negoziatore su derivati per un istituto bancario europeo e poi gestore di patrimoni presso altre banche italiane.
È al momento evidente che le sanzioni imposte dalla Nato alla Federazione Russa dopo l’invasione di quest’ultima dei territori ucraini abbiano avuto un impatto negativo per i paesi europei ed in particolare per Germania. Quest’ultima, infatti, motore industriale indiscusso della Ue, ha sviluppato la propria forza produttiva non solo grazie alla qualità della gestione delle proprie imprese o dall’adozione dell’euro che l’ha favorita nelle esportazioni, ma molto è dipeso anche dall’approvvigionamento energetico abbondante e a basso costo fornito dal gasdotto Nord Stream collegato direttamente alla Russia.
Quello che ad oggi sappiamo è che un veloce e valido riposizionamento energetico da parte dei paesi Ue, prima fra tutte la Germania, non è possibile: le energie alternative (eolico o solare) sicuramente non sono minimamente in grado di soddisfare la domanda di industrie del livello di quelle tedesche (per esempio la Basf o la Siemens, per non parlare delle acciaierie e l’indotto automobilistico). Inoltre, il gas che gli americani possono mettere a disposizione dei paesi europei ha un costo molto più elevato ed è di difficile approvvigionamento (basti pensare al trasporto e alla necessità di rigassificatori che non sono attualmente disponibili o in quantità sufficienti).
Neppure l’intervento del governo tedesco a sostegno della produzione e dei consumi con 200 miliardi di euro al sistema può risolvere il rischio di una quantità di energia che non sia sufficiente a mantenere l’attuale produzione. Gli stessi rischi ci sono in Italia (che ad oggi non ha visto nessun intervento governativo in campo energetico a calmierare i costi), mentre la Francia potrebbe essere messa in una posizione migliore grazie al nucleare. In ogni caso, se non ci sarà a breve una risoluzione del conflitto fra Russia e Ucraina, le conseguenze per l’industria dell’Area Euro e, più in generale, la sua economia potrebbero essere disastrose, anche a livello sociale, con possibili ripercussioni sul piano politico.
L’industrializzazione europea si sviluppa con i primi aiuti da parte degli americani dopo la seconda guerra mondiale, poi con la riunificazione della Germania all’indomani della caduta del Muro di Berlino e infine con la globalizzazione la capacità manifatturiera europea prende il volo e si inserisce nei mercati asiatici e soprattutto in quelli nordamericani. La bilancia commerciale tedesca è esplosiva, mentre quella italiana, nonostante la perdita di competitività degli ultimi venti anni, rimane costantemente positiva. L’export europeo è la fonte di ricchezza che dà peso all’Euro e tiene insieme l’unione monetaria, nonostante le differenze economiche tra i paesi si evidenzino con il differente spread nel costo di rifinanziamento tra paesi del sud e del nord che è andato sempre a vantaggio di questi ultimi.
Si può pensare quindi che, in assenza di una soluzione rapida della questione energetica, si arrivi a problemi sistemici innescati da una deindustrializzazione forzata dalla scarsità di energia oppure a costi produttivi troppo elevati, tali da rendere i paesi della Ue molto meno competitivi. Sicuramente tale processo avrebbe come conseguenza lo spostamento di gran parte delle produzioni delle maggiori produzioni tedesche verso il Nord America e l’Asia, quindi un’ulteriore svalutazione dell’euro che perderebbe peso e ruolo come valuta a livello internazionale.
A livello sociale il costo sarebbe molto alto con conseguente abbassamento degli standard di vita dei cittadini europei che non beneficerebbero più del flusso dei dollari derivante dall’export. Politicamente si potrebbe andare verso un frazionamento dell’Europa anziché verso un’unione; quest’ultima è già stata del resto più volte messa in crisi dalla mancanza di un debito e di una fiscalità comune che la politica non è riuscita a mettere sul tavolo durante gli ultimi venti anni.
Le opzioni europee per uscire da un tale possibile disastro economico non sono molte. La fine della guerra e delle sanzioni alla Russia sarebbero l’unica via pienamente efficace a far proseguire con rinnovata fiducia la potente macchina manifatturiera europea, ma non essendo realisticamente una possibilità a breve, i paesi dell’Unione dovrebbero andare contro il volere della Nato (in pratica, degli Stati Uniti) e riavvicinarsi alla Russia rompendo alleanze politiche e commerciali, un’opzione ad oggi non percorribile. L’Unione europea però ha davanti a sé un’altra scelta, che non risolverebbe comunque del tutto il problema della carenza energetica che dovrà affrontare nei prossimi anni, ma potrebbe rafforzarla a livello politico, cosa di cui ha disperatamente bisogno per costruire una realtà che si possa riconoscere “compatta”. Non è quindi il momento di lasciare che ogni Stato membro prenda decisioni non comuni a tutti gli altri, come invece sta avvenendo in questo momento, con Francia e Germania che intervengono sui prezzi energetici a difesa di aziende e consumatori, anche in modo legittimo, ma non corretto dal punto di vista di una comunità di Stati che trae la propria forza, appunto, solo e soltanto da una politica unica solidale e condivisa.
A livello di Unione, oltre alle sanzioni, la politica che sta mettendo in atto la Commissione europea, è quella del cosiddetto Price Cap (porre un tetto di prezzo del gas russo), di cui si sta discutendo in questi giorni nell’incontro a Praga, ma non sembra una strada molto sensata, perché la Russia si rifiuterebbe di vendere gas al prezzo deciso dal compratore. Del resto, India e Cina continuerebbero a rifornirsi a prezzi di mercato e di fatto l’Europa ancora una volta otterrebbe, come dalle sanzioni, un effetto negativo. Sembra un altro passo falso della politica che più che guardare al “nemico” fuori, potrebbe cercare soluzioni al proprio interno.
Se tra il 2011 e il 2012 la Bce intervenne su mercato con il programma di “Quantitative Easing” acquistando i titoli dei paesi membri in difficoltà in seguito alle ripercussioni della crisi immobiliare Usa del 2008 (il programma è stato poi implementato nel tempo con l’acquisto di emissioni bancarie per mantenere basso il costo di rifinanziamento), oggi potrebbe essere pensata un’emissione di debito tramite un istituto europeo (ad esempio, la Bei, ossia la Banca europea per gli investimenti), interamente garantito dalla Bce, al fine di reperire capitali da utilizzare per lo scopo comune di mantenere sostenibile, per aziende e consumatori, il prezzo dell’energia. Ciò prevedrebbe un “debito comune” di fondamentale importanza per l’economia ma soprattutto per dare forza al progetto europeo. La possibilità di contrarre nuovi debiti in questo periodo, in cui i tassi reali che vengono pagati dal debitore sono negativi, aiuterebbe nel progetto. Allo stesso tempo, anziché lavorare su di un impraticabile Price Cap, si dovrebbe intervenire sulla speculazione in atto al mercato olandese del TTF (Title Transfer Facility, mercato di riferimento per lo scambio del gas naturale tra i più grandi e liquidi dell’Europa continentale), che di fatto gonfia i costi energetici, quindi provvedere ad una riforma dell’attuale sistema di finanza speculativa sui beni strategici per l’industria e le famiglie.
La difficoltà della crisi energetica, che probabilmente si protrarrà nei prossimi anni, può essere affrontata solo con un cambio di mentalità da parte di politici dell’Unione europea che fino ad oggi hanno operato per lo più per la stabilità finanziaria del sistema bancario, hanno seguito il volere degli angloamericani nella geopolitica che sta pesando sui popoli europei, ma sono mancati nel pensare un debito e una fiscalità comune, pilastri essenziali per mantenere in piedi una valuta condivisa da paesi membri con differenti strutture economiche. Il proseguire nella vecchia direzione politica pone molti dubbi sulla futura tenuta dell’euro.