Diego Benedetto Panetta (Gaeta, 1992) è un praticante notaio e studioso di Filosofia del Diritto e della Politica. È laureato in Giurisprudenza all’Università Pontificia Lateranense (Città del Vaticano) dove si è specializzato in Filosofia del Diritto, sotto la guida del prof. Francesco D’Agostino. Presso la stessa Università ha conseguito un master in Diritto Canonico e ha collaborato con la Cattedra di ricerca “Giovanni Paolo II” in Filosofia e Storia delle Istituzioni Europee presieduta dall’On. prof. Rocco Buttiglione e con l’Area internazionale di ricerca “Caritas in veritate”, per lo studio della Dottrina sociale della Chiesa. Attualmente frequenta la scuola di preparazione al concorso notarile e collabora con diverse testate giornalistiche.
Recensione a
L. Iannone, Critica della ragion tecnica (prefazione di Roger Scruton), Idrovolante Edizioni, Roma 2021, pp. 215, € 18,00.
«Lo scenario è chiaro. Se le religioni individuavano un dopo oltre la linea temporale, la tecnica esaurisce l’orizzonte all’interno del tempo. Non c’è la storia come éschaton ma un orizzonte secolarizzato dove la tecnica potenzia se stessa e il corso degli eventi perde di significato […]» (p. 198). Le riflessioni che Luigi Iannone opera nel corso del suo Critica della ragion tecnica affascinano e al contempo allarmano l’uomo moderno. L’Autore infatti prova ad esplorare la tecnica e a sondarne l’influenza nei meandri vorticosi dell’intera esistenza, lasciandosi guidare dal criterio ermeneutico tracciato da Martin Heidegger (1851-1924), secondo cui la tecnica attiene alla dimensione del “disvelamento”, cioè della verità. Tentare di decodificare l’essenza della moderna ragion tecnica equivale a “pensarla”, a dipingerla nei suoi contorni vividi e, quindi, a decifrarne il senso ultimo.
In questo preciso atto interpretativo l’autore anticipa la soluzione al problema e «rende ragione della speranza che è in noi» (1Pt 3, 15). Mantenere aperto il canale con l’essere, dunque con se stessi e con le facoltà che più caratterizzano l’umano, significa infatti fare esperienza di humanitas. «Solo facendo riguadagnare all’umano il tema della finitezza e della mortalità sarà possibile pensare a un nuovo inizio […]» (p. 215). Ma perché vi è necessità di pensare e di ripensare la tecnica? In ragione del fatto che essa negli ultimi due secoli ha assunto proporzioni mai viste prima nel corso della storia. La capacità di incidere nella realtà quotidiana e il carattere dell’inusitato che essa reca con sé, riorienta l’uomo a partire dalle sue domande ultime, dal senso che egli intende dare al bene più sacro ed intimo che egli possiede, ossia alla sua stessa vita.
La tecnica vive un costante rapporto di asimmetria con l’essere umano. Laddove essa consente il raggiungimento di scopi, diviene essa stessa scopo a se stessa; fagocita dunque trasformazioni attivando desideri e creando dipendenze. Essa nasce neutra ma presto il grado di emancipazione che raggiunge diviene totale, a tal punto che l’uomo le si sottomette, affidandogli i propri gusti e desideri. Il periodo che si snoda a cavallo tra i secoli XVI e XVII, e che prende il nome di Rivoluzione scientifica, risulta determinante per comprendere il punto di inizio della moderna ragion tecnica. Essa procede da un cambio di atteggiamento radicale che l’uomo decide di instaurare con il creato. Ciò che muta infatti è il rapporto che lega l’uomo alla natura. «Non tanto ci si interessava alla natura come essa è – osserva il fisico tedesco W.K. Heisenberg (1901-1976) –, quanto ci si chiedeva che cosa se ne potesse fare» (Fisica e filosofia, trad. it., Il Saggiatore, Milano 2008, p. 229).
Con la Rinascenza dunque l’atteggiamento dell’uomo si muta da contemplativo in pragmatico. Si rinuncia a conoscere filosoficamente, ovvero autenticamente, per immergersi nell’empiria, o tutt’al più per conoscere teoricamente. Nel caso del diritto, per esempio, rispondere a cosa un singolo ordinamento consideri tale o preveda in presenza dell’avverarsi di fattispecie, è cosa diversa dall’interrogarsi su ciò che sia il diritto o la giustizia. In quest’ultimo caso, infatti, si conosce “radicalmente”, in quanto se ne ricerca l’essenza. Stessa cosa dicasi per la politica; essa equivale al potere? Il suo esercizio può prescindere dalla conoscenza di cosa sia la politica? Certamente, altrettanto indiscutibilmente, però, l’uomo, che lo voglia o meno, agirà in vista di un fine. Cosa legittima dunque il comando di un uomo libero nei confronti di un altro essere umano? Ancora una volta: il potere? È sufficiente?
È sufficiente il pensiero scientifico, ex natura sua convenzionale ed ipotetico, a disvelare l’essenza delle cose? Esso, per bocca di uno dei suoi massimi esponenti, non è interessato a «tentar le essenze» (G. Galilei, Terza lettera del sig. Galileo Galilei al sig. Marco Velseri delle macchie del sole, 1.12.1612). Probabilmente questo è uno dei più grandi limiti di un sapere che al giorno d’oggi si presenta come onnicomprensivo. L’Autore, anche per questo, non crede
nell’assai diffuso errore interpretativo per cui ogni tipo di argomentazione si muova innanzitutto dalla condizione contraddittoria che la tecnica, in sé, non sia né buona né cattiva, e che l’efficacia o gli svantaggi dipendano da come la si utilizzi perché, nonostante le modalità di lettura della realtà derivino sempre da come si riveli questa caratterizzazione strumentale, simili affermazioni solo in parte possono corrispondere al vero (p. 11).
Ciò per una pluralità di ragioni che lungo le pagine vengono attentamente esaminate nei più svariati campi d’osservazione. Perché la specificità di questo testo, a differenza di altri scritti nel passato, consiste nella capacità di analisi e descrizione di ciò che sta accadendo oggi. Nell’attualità della visuale è insita la possibilità di una migliore capacità interpretativa. La generazione dell’Autore e, ancor più, quelle successive, vivono infatti «sulla propria pelle quelle profezie e quei timori diventati prassi»: «Perché è la prima volta nella storia dell’umanità che la tecnica indirizza in maniera così decisa le scelte di carattere religioso, sociale, familiare e individuale» (p. 23).
Non si intende, per essere chiari, rinunciare ad un sano utilizzo degli strumenti tecnici. L’uomo è legato alla tecnica in maniera quasi ontologica, da un certo punto di vista. Attraverso di essa l’essere umano ha potuto superare limiti fisici e biologici. «La tecnica – scrive l’Autore – è perciò sostanza e forma stessa dell’umanità» (p. 16). Eppure essa rischia di infrangere l’anelito verso la trascendenza che inabita l’uomo, legando questi ad un piano orizzontale, soggiogandolo ad un destino che non conosce altre dimensioni oltre la Storia. Bisogna tentare di risvegliare nell’uomo la capacità tutta umana di stupirsi. Certo, riaccendere la grammatica dello Spirito in un momento storico nel quale la forza catecontica per eccellenza (la Chiesa cattolica) è in pieno declino, è cosa ardua. «Perché – osserva l’Autore – il punto conclusivo non è ritrovare la fede attraverso una ragione ormai anestetizzata dal calcolo e dal metodo matematico, oppure grazie a un tradizionale e puro percorso spirituale ma constatare che, in entrambi i casi, la radicalizzazione del tormento dell’uomo è dovuta alla irriconoscibilità di Dio e all’essere oramai inadeguato a comprendere la propria finitezza».
L’essere umano qui si trova dinanzi ad una strada in apparenza già tracciata. Egli fa esperienza del limite, a cui è ontologicamente legato; mette alla prova la sua resistenza al mistero. Questo può essere occasione di disvelamento della realtà, o di dispotica chiusura nei confini del proprio Io. Da quest’ultimo atteggiamento nasce la necessità di “liberazione” intra-terrena, preludio assiologico e premessa indispensabile al sorgere delle ideologie. Come infatti ricorda Roger Scruton nella prefazione, «la liberazione […] significa […] perdita dei fini, dei limiti, dei confini, e in un mondo senza fini, tutto è un mezzo e niente ha significato» (p. 6). Ebbene il testo di Luigi Iannone ricorda, viceversa, che il limite o confine è condizione indispensabile per pensare rettamente il reale.