Diego Benedetto Panetta (Gaeta, 1992) è un praticante notaio e studioso di Filosofia del Diritto e della Politica. È laureato in Giurisprudenza all’Università Pontificia Lateranense (Città del Vaticano) dove si è specializzato in Filosofia del Diritto, sotto la guida del prof. Francesco D’Agostino. Presso la stessa Università ha conseguito un master in Diritto Canonico e ha collaborato con la Cattedra di ricerca “Giovanni Paolo II” in Filosofia e Storia delle Istituzioni Europee presieduta dall’On. prof. Rocco Buttiglione e con l’Area internazionale di ricerca “Caritas in veritate”, per lo studio della Dottrina sociale della Chiesa. Attualmente frequenta la scuola di preparazione al concorso notarile e collabora con diverse testate giornalistiche.

Recensione a: F. Elías de Tejada, Filosofia del diritto pubblico. Contributi giusnaturalistici, intr. e cura di G. Turco, Jovene, Napoli 2022, pp. 225, € 24,00

Francisco Elías de Tejada y Spinola (1917-1978) fu un illustre pensatore e cattedratico spagnolo del secolo scorso. Egli esercitò la sua attività di docenza di Diritto naturale e Filosofia del diritto presso diverse università spagnole (Murcia, Salamanca, Siviglia, Madrid). Come ricorda il professor Giovanni Turco, curatore del volume nonché autore di un ampio saggio introduttivo, Elías de Tejada fu «autore fecondissimo, particolarmente nei campi della filosofia del diritto e della storia delle dottrine politiche» ed «esploratore delle più diverse culture», in un raggio d’azione che va «dal Cile alla Tailandia, dall’Africa nera alla Germania, dalla Scandinavia alla Romania». Inoltre, fu animatore di diverse iniziative culturali, tra le quali spicca la Organizacíon de Jusnaturalistas hispánicos Felipe II, con la quale promosse la riscoperta dell’autentico diritto naturale cattolico.

Il curatore del volume ha selezionato e presentato cinque saggi dell’autore spagnolo, nei quali vengono approfonditi i seguenti temi: le relazioni tra politica e diritto; lo Stato di diritto nel pensiero tedesco e nella tradizione delle Spagne; la necessità di sostituire i principi generali del diritto con il diritto naturale ispanico; la questione della vigenza del diritto naturale; il diritto naturale come fondamento della civiltà.

Il diritto, secondo Tejada, risponde a due fini principali: assicurare la sicurezza e garantire la giustizia. Il primo dei due manifesta la necessità di un ordine che freni gli istinti di sopraffazione e sia in grado di assicurare la sicurezza individuale o collettiva. Tale fine rivela l’aspetto istintuale dell’essere umano, legato alla sua animalità. Il secondo manifesta il desiderio che tale ordine rifletta la gerarchia dei valori etici riconosciuti dalla ragione umana. In virtù di ciò, esso rivela l’aspetto propriamente razionale dell’essere umano, giacché l’ansia di giustizia che pervade l’uomo non costituisce una mera aspirazione sentimentale, ma risponde ad una esigenza dell’intelletto. Per potersi parlare di diritto positivo, in senso proprio, devono essere adempiuti entrambi i fini. Mancando la garanzia di giustizia, il diritto si riduce ad essere norma di convivenza, «apparato di coazione», svincolato a ciò che solo può realmente fondarlo e giustificarlo, o, in altre parole, trascenderlo: il diritto naturale.

Pensare il diritto, cioè esercitare l’intelletto nell’indagine della essenza, è lo sforzo a cui sollecita Tejada. Il diritto, ab origine, non può che presentarsi sotto due forme: come risultato della volontà di un governante («per quante aureole democratiche lo adornino, un governante può sbagliarsi o può fare deliberatamente il male, poiché l’uomo può peccare settanta volte al giorno; la maggioranza democratica non è mai garanzia di avvedutezza, perché un cieco non è adatto a guidare un altro cieco») o come frutto della volontà di Dio, colto nella sua «affermazione implicita» attraverso l’ordine finalistico impressogli nella natura (che sprona la ragione a “scoprire” l’ordine dato) e in quella «esplicita», per mezzo della legge divina positiva.

Le Spagne del Siglo de oro dei secoli XVI-XVII, che Tejada definisce come Christianitas minor, in quanto fecero propria la concezione teocentrica del mondo di quella maior, ossia della Cristianità medioevale, elevarono il Diritto naturale a «chiave interpretativa e ad ossatura» di una intera civiltà. In ossequio a tale visione, è particolarmente emblematico – sottolinea l’autore – ciò che i classici spagnoli prevedevano nei confronti del re tiranno, cioè verso colui che non rispettava il diritto naturale. Il tiranno è «degno di morte, reo di belva rabbiosa, che sarà ucciso dal primo che incontri». In questi termini si esprimeva il frate agostiniano Juan Márquez, cattedratico di Salamanca, in un suo celebre testo intitolato El gobernador christiano (1652).

Quando Tejada fa dunque riferimento al Diritto naturale ispanico, egli intende indicare nient’altro che il Diritto naturale, classicamente inteso. Il curatore del volume precisa quest’aspetto con le seguenti parole:

Il Diritto naturale ispanico corrisponde alla concezione propria del realismo metafisico, di conio aristotelico, conforme alla lezione dei giuristi romani, sviluppato dal pensiero patristico e scolastico, particolarmente da Tommaso d’Aquino, e declinato dai giuristi-teologi ispanici (e non solo) dei secoli XVI-XVII. Il Diritto naturale, così inteso, si profila e si condensa nella storia, particolarmente nelle tradizioni giuridiche che ne hanno variamente raccolto e svolto il retaggio, ma non si esaurisce in essa. La sua perspicuità universale urge nella particolarità dell’esperienza istituzionale, legislativa e giurisprudenziale, senza limitarsi ad essa (p. 94).

Esso fu privato della sua essenza con l’avvento del luteranesimo. La dottrina della predestinazione, infatti, dichiarò le opere umane prive di reale valore meritorio ai fini della salvezza; affidando questa all’arbitrio di Dio, essa determinò così la completa deresponsabilizzazione dell’uomo. In una prospettiva simile, infatti, Tejada spiega come

L’universo […] non sarà più quel rapporto scolastico tra il Creatore, che stabilisce un ordine oggettivo, e la creatura, posta di fronte all’obiettivo con un’azione soggettiva che nel suo libero agire deve decidere il suo destino eterno; […] su questo terreno, poiché la sua salvezza o condanna non dipende dall’agire umano, il massimo che l’uomo può fare è attenersi a ciò che Dio vuole, conformarsi liberamente alla volontà di Dio, trovare la propria e completa giustificazione nella fede in Dio. […] è curioso come Lutero stesso ci dica che neppure i comandamenti hanno un valore prescrittivo, ma che l’adempimento dei comandamenti […] è valido, dice letteralmente, poiché ci aiutano ad orientarci, ma non perché siano necessari per la salvezza (F. Elías de Tejada, Conseguenze del Protestantesimo. Quadro generale della crisi protestante, in Le radici della modernità, trad. it., Solfanelli, Chieti 2021, p. 119).

Il Diritto naturale moderno, di conio luterano, risulterà dunque essere un diritto antropocentrico, in quanto fondato su un individuo impossibilitato a relazionarsi con il trascendente e che trae la propria fonte ultima dalla razionalità umana, pertanto valido “etsi Deus non daretur”. Il giusnaturalismo moderno finisce dunque con assegnare il primato assoluto alla natura umana, la quale può essere declinata secondo un’ottica improntata ad un ottimismo antropologico, nella linea di Grozio (1583-1645) e di Rousseau (1712-1778), o verso un’ottica tendente al pessimismo, come in Hobbes (1588-1679). In entrambe le prospettive, lo iato con il diritto naturale cattolico è evidente.

Le tesi di Grozio e di Hobbes, secondo il pensatore spagnolo, costituiranno, dal versante propriamente giuridico, una delle cinque rotture che segneranno la scomparsa della Cristianità medioevale e l’avvento dell’Europa moderna, lungo un periodo storico che va snodandosi dal 1517 sino al 1648. Le altre sono:

– la dianzi ricordata rottura religiosa con Lutero (1483-1546), che determinerà una lacerazione profonda in seno alla Cristianità, e che avrebbe comportato la liquefazione dell’unità della fede, sostituita da un equilibrio meccanicistico e formale di differenti confessioni religiose;

– la rottura etica con Machiavelli (1469-1572), il quale “paganizza” la morale. La virtus, ad esempio, non consisterà più nel dominio degli appetiti sensibili, come insegnato dalla Scolastica medioevale, ma consisterà nel dominare la sorte avversa, nel divenire, in qualche modo, uno strumento di potere. L’essere umano, da creatura sottoposta al giudizio di Dio, diviene individuo sciolto da vincoli che non rispondano alla sua unica volontà.

– la rottura politica con Bodin (1530-1596), che trasfonderà ciò che Machiavelli presentò in campo etico, al campo politico. Alla concezione romana e Scolastica di auctoritas, cioè potestà limitata dal Diritto naturale, egli sostituisce quella di souveraineté. La figura del monarca “assoluto” che si va configurando con Bodin, ossia del “sovrano” – in senso proprio –, è colui che essendo sciolto da ogni vincolo, non dipende che dal potere della propria “spada”, ovvero, della sua volontà.

– la rottura del “corpo mistico” della Cristianità con i trattati di Westfalia del 1648; questi sanciranno la fine definitiva della Cristianità, in particolar modo per quel che attengono ai rapporti fra gli Stati e gli equilibri interni ad essi, entrambi poggianti su logiche meccanicistiche.

La chiave per comprendere rettamente la politica e il diritto, secondo Tejada, va rinvenuta nell’analisi della natura umana. Natura umana, tuttavia, non astrattamente considerata, ma aperta alle «qualificazioni che derivano dal suo inserimento nell’ordine universale, naturale e morale […] stabilito da Dio» (p. 121).

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