Iddu, film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Con Toni Servillo (Catello Palumbo), Elio Germano (Matteo), Daniella Marra (Rita Mancuso), Barbora Bobul’ová (Lucia Russo), Antonia Truppo (Stefania). Italia, Francia 2024
Un siciliano su tutti credo abbia compreso con acutezza il fascino del delinquente, del malandrino, del malvagio. Giovanni Verga, ne L’amante di Gramigna, fa di questo tipo d’uomo un ritratto memorabile, nonché della donna che cede a una smodata e insensata passione amorosa verso il criminale di turno, bello e dannato. Bello e dannato, nel modo in cui lo descrive anche Giacomo di Girolamo, lo era anche Matteo Messina Denaro[1]. Il fascino che si prova verso il male è forse giustificabile dalla tendenza connaturata all’umano, come aveva intuito Freud, verso il nulla, un’inclinazione resistita verso la distruzione di sé, che può esercitarsi nei modi più diversi. Per questo, forse, il cattivo, il dannato, chi sprezza la morte e non teme il niente suscita tutto questo, persino ammirazione. Per l’astuzia, il coraggio, l’intelligenza. Per il potere suadentissimo di dare la vita e la morte, anche per il solo gusto di esercitarlo e confermare così l’attimo glorioso della propria supremazia.
Il Matteo di questo film spara, uccide, incendia vigne, incute timore e rispetto, come se fosse un Dio venuto da chissà dove, una presenza collocata in un altrove inattingibile ma allo stesso tempo immanente, umanissima. Un uomo chiuso nella sua gabbia domestica in cui dispensa saggezza, decisioni su affari e omicidi. È semplicemente Iddu, lui, la stessa impersonalità che si riserva a un dio ignoto, che è sì celeste ma diabolico, poiché per mezzo di lui agisce il male. Il mafioso, più in particolare il mafioso latitante, parla letteralmente da un altro mondo, e proprio in virtù di questo status acquisisce una dignità celeste. La sua parola, o un suo pizzino, può tutto, persino risollevare le sorti di un uomo che gli è stato padrino e che ora, per smarcarsi dall’arresto e da altra galera, decide di tradirlo e di schierarsi dalla parte di un’operazione farsa, che, come si vedrà alla fine, ha solo il compito di mostrare a tutti che un tentativo si è fatto, che si sta provando. Un’altra opera dei pupi.
Il Matteo di questo film non è un uomo rozzo e ignorante come i suoi predecessori corleonesi (detti appunto i viddani). È una persona dai gusti fini e ricercati, che si diletta anche nella lettura: la cultura, quella che, rispetto ai senatori, agli imprenditori e ai presidi con cui ha a che fare, costituisce il suo personale punto debole, il motivo dell’inferiorità da colmare a ogni costo. Ma non è la cultura istituzionale a fare di un uomo un uomo di conoscenza. O se è questo, non è soltanto questo. Vorrebbe forse dire che Matteo, e i mafiosi insieme a lui, è un uomo che difetta di conoscenza? Una delle scene chiave di questo film è infatti quel nervo scoperto che Matteo tocca quando discute con la signora Lucia, citando alla lettera alcuni dei passi più densi del Qohélet, uno dei libri in assoluto più profondi ed enigmatici dell’Antico Testamento, un’opera interamente dedicata al rapporto che sussiste tra la conoscenza e il nulla.
È in questo senso, allora, che si può affermare che Matteo (alias Messina Denaro) è un uomo di conoscenza, per essere penetrato così a fondo nell’enigma di inanità delle cose e per non esserne rimasto stravolto, mantenendo anzi la lucidità e la disillusione che servono per vivere.
Eppure, la sensibilità nichilistica di Matteo, a tratti anche gnostica, rivela il carattere profondo del criminale, la sua intima natura: un niente che tende verso il niente. Con la differenza che Matteo ha quel minimo di cultura necessaria a dare espressione a tale dinamica della conoscenza. Solo un niente può compiere quello che i mafiosi compiono, coloro che si spingono oltre il limite della vita e della giustizia e che per questo ne pagano esistendo le conseguenze, con una vita da topo costretto a nascondersi (più o meno) o confinato in una cella, oppure con il pericolo costante di venire ucciso.
Matteo sa bene come va il mondo, conosce gli uomini profondamente, sa quanta ferocia c’è bisogno per metterli a bada e per comandare. Certo, con la stessa indole nichilista, se avesse avuto un cursus honorum degno dei politici che incontrava lungo la sua strada, quelle scuole alte che ti proiettano ai piani elevati delle istituzioni, sarebbe stato, possiamo presumere, anche lui un preside, un colonnello, un senatore, un presidente. Con la differenza che, forse, avrebbe solo ammazzato meno con le proprie mani.
Il film inizia e finisce con due pupi: una scultura arcaica a cui Matteo è legatissimo e che ora è nella vetrina centrale del museo civico del paese, la quale il preside Palumbo, mentre passeggia sgomento per la sala ascoltando in mente le parole terribili del boss che lo condanna a una vita grama, vede sostituita con un Matteo abbigliato come il Messina Denaro il giorno della cattura avvenuta il 16 gennaio del 2023. Un oggetto da museo che sarebbe un errore imperdonabile ignorare e dimenticare. Va invece custodito e visitato, per rendere la conoscenza che il mafioso incarna perfettamente inutile, anch’essa vanitas vanitatum.
[1] Cfr. G. Di Girolamo, L’invisibile. Matteo Messina Denaro, il Saggiatore, Milano 2017.