Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a: C. Mortati, La teoria del potere costituente, a cura di M. Goldoni, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 156, € 16,00.
Composta nel febbrile clima intellettuale dell’autunno 1945, quando tra i costituzionalisti l’idea e la sfida dominante era la messa a punto di un nuovo inizio dello Stato, La teoria del potere costituente di Costantino Mortati (1891-1985) si impose alla riflessione giuridica (e in senso lato politica) di quegli anni come uno degli apporti più ludici e originali e ricchi di origine. Mortati, membro democristiano dell’Assemblea costituente (1946-1948) ai cui lavori contribuì in misura rilevante, sarebbe diventato nei decenni a venire un maestro riconosciuto della scienza costituzionalistica. Ricoprì anche il ruolo di giudice della Corte Costituzionale dal 1960 al 1972.
Oggi ha senso rileggere la Teoria del potere costituente – ristampata per i tipi delle edizioni Quodlibet – come un piccolo classico della letteratura giuridica e che si affianca e completa la più famosa dottrina mortatiana della “costituzione materiale”. Ma ha senso rileggerlo, a nostro avviso, soprattutto come lezione di realismo giuridico e di antipositivismo, in un momento come questo (l’epoca del covid) in cui in nome della legislazione dell’emergenza abbiamo assistito al ritorno invasivo di un legislatore che pretende di creare dal nulla e imporre norme, leggi e regolamenti che mal si adattano e anzi a volte violano i basilari princìpi di libertà sanciti dalla Carta Costituzionale.
Lasciando al lettore interessato la possibilità e il piacere di studiare gli aspetti squisitamente giuridici (a volte un po’ tecnici) del saggio, ci limitiamo qui a richiamare l’attenzione su alcuni passaggi più chiaramente politici, improntati al realismo e all’antipositivismo, del robusto edificio concettuale approntato dal Mortati in queste belle ma impegnative pagine.
Ad esempio, il realismo antiformalistico e antipositivista di Mortati emerge con lucidità quando il giurista si interroga sulla legittimazione dell’attività costituente. Un organo costituente (sia esso un’assemblea o il popolo medesimo quale corpo idoneo a esprimersi secondo procedure giuridicamente coerenti) acquisisce legittimità quando la sua propria attività è in grado di «porsi come effettivamente vincolante, col grado di suprema legge regolativa di un ordinamento statale» (p. 76). Ma il vincolo si impone sui singoli e sull’insieme del popolo o per mera forza, quando cioè il suddito-cittadino è costretto a constatare la propria individuale debolezza rispetto all’apparato coercitivo del potere; oppure quando il suddito si persuade che quell’apparato coercitivo (e più in generale i vincoli di soggezione) va accettato come male necessario perché garantisce un minimo di pace sociale; oppure infine, nelle odierne società democratiche figlie della cristianità, quando il cittadino attribuisce allo Stato una valenza ideale o ideologica o di trascendenza – quale può essere ad esempio il fine della giustizia sociale. Ma una tale valenza ideale/ideologica non galleggia nell’aria come una astrattezza metafisica bensì si radica molto a fondo nel gruppo sociale prevalente, ne esprime gli interessi e il progetto politico. Orbene, questo gruppo sociale prevalente plasma l’assetto costituzionale, traduce in costituzione (e a cascata in leggi ordinarie) l’ideale che gli è proprio, in ciò dichiarandolo e “positivizzandolo”. Le forze sociali dominanti possono però soccombere nella fucina delle trasformazioni storiche a vantaggio di nuovi gruppi portatori di visioni e interessi nuovi e incompatibili con la costituzione. Quando il fondamento ideologico di uno Stato reale (cioè la società e la mentalità collettiva o i gruppi sociali egemoni) muta in radice, la precedente costituzione va in frantumi.
Altro punto saliente del pensiero politico-giuridico del Nostro riguarda il serrato confronto tra la sovranità nazionale e la sovranità popolare, dove la prima – di matrice francese e giacobina – pretende di identificarsi nella volontà generale. La Nazione, innalzata a Entità originaria, conchiusa, già formata e sovrana («fonte primigenia di ogni forma, natura naturans contrapposta alla natura naturata», p. 102) esprime la propria volontà generale tramite i suoi “delegati” all’assemblea, con la conseguenza che questi ultimi non rappresentano affatto i singoli cittadini ma, appunto, la Nazione tutta intera, concepita alla stregua di una entità metafisica. I rappresentanti di un simile Ente non hanno l’obbligo né avvertono l’esigenza di consultare e interpretare la volontà dei singoli e dei gruppi sociali o di interessi perché già esprimono assiomaticamente la volontà generale. Il risultato di tali fumisterie ideologiche ammantate da altrettanti sofismi giuridici è per il realista Mortati uno solo, tante volte confermato dalla storia: «la formazione di un ordinamento nella sua essenza autoritario … di carattere oligarchico» (p. 109). La retta sovranità è per Mortati quella popolare, che è data dalla sommatoria dei singoli ma anche dei gruppi, associazioni e corpi intermedi nei quali e attraverso i quali si esplica la partecipazione politica a tutti i livelli, sia sostanziali che formali. Il realismo di Mortati, unito alla particolare contingenza storica in cui scriveva, lo porta ad attribuire un ruolo di primaria importanza ai partiti politici, a queste organizzazioni spontanee capaci «di portare negli organi di deliberazione politica la volontà del popolo» (p. 112); ma capaci di ciò solo se idonei a garantire una sufficiente armonia tra eletti e elettori in un contesto – quale quello introdotto dal suffragio universale – di forti disomogeneità ideologiche, sociali e sociologiche. C’è da chiedersi se oggi il partito politico assolva ancora a questa funzione.
Non meno acute sono le Brevi note sul rapporto tra costituzione e politica nel pensiero di Carl Schmitt poste dal curatore M. Goldoni a chiusura del saggio. Si tratta di un conciso ma denso scritto in cui l’ultimo Mortati (le Note risalgono al 1973) dialoga a distanza con il grande giurista tedesco riconoscendone «il singolare fascino e l’altissimo magistero scientifico» (p. 131). Emergono tra i due affinità di pensiero e la comune pertinace ostilità nei confronti del positivismo giuridico. Mortati apprezza in particolare la messa a nudo schmittiana della mistificazione positivistica di separazione tra dimensione giuridica e componenti ideologiche, sociologiche, politiche e morali. Se il giurista educato al positivismo studia la norma di per sé, nei suoi contenuti formali e restando del tutto impermeabile alle “contaminazioni” del mondo esterno (che intaccherebbero la purezza generale e astratta della legge), ecco che sia Schmitt che Mortati non esitano a rivendicare per il giurista un campo di indagine e di incidenza incommensurabilmente più ampio: l’interprete della norma si apre alla concretezza fattuale (cioè sociologica e valoriale) sottostante alla dimensione della norma giuridica posta in vigore dall’ordinamento. Il giurista cioè studia il fatto sia quando esso coincide con una data norma e sia quando necessita – quale fatto grezzo, nato dal magma caotico della vita – di una giuridicizzazione. D’altronde anche i positivisti leggevano (inconsapevolmente, ma non sempre) le norme col filtro dell’ideologia liberal-borghese del formalismo giuridico.
Ma accanto alle affinità sussistono pure le profonde e radicali differenze. Entrambi gli Autori muovono dal presupposto antipositivista della necessità di armonia (valoriale e sociale) tra l’assetto giuridico statuale formale e la società viva esplicantesi in gruppi sociali, ideologie, correnti politico-culturali e religiose etc. Quando tale consonanza viene meno, quando cioè (per utilizzare un gergo del giorno d’oggi) il “Paese legale” non rispecchia più il “Paese reale”, avviene la frattura ma resta certo che gradualmente o rivoluzionariamente il secondo prevarrà sempre sul primo e creerà una nuova legalità coerente con le sottostanti e sostanziali forze politico-sociali. Ma il punto di maggior distanza tra i due pensatori è proprio qui, e si svela la radicalità schmittiana rispetto alla cautela (concettualmente robusta e argomentata) di Mortati. La rottura dell’armonia, per Schmitt, comporta che le vive forze sociali non si riconoscano più nell’apparato di governo (e più in generale nello Stato): si instaura dunque una conflittualità secondo la ben nota antitesi amicus/inimicus, una categoria cioè che forma l’essenza del politico e che si caratterizza, tra le altre cose, per la sua irriducibile autonomia e alterità rispetto a ogni istanza giuridica. Essa segna il momento della estrinsecazione della decisione suprema di emergenza, cioè la decisione sullo stato di eccezione, e quindi segna il manifestarsi dell’atto sovrano nella forza che prevarrà. Mortati non segue Schmitt su questa strada di radicale antitesi. È vero che anch’egli ammette la categoria amicus/inimicus, ma non la considera affatto suprema, anzi la inserisce robustamente all’interno della giuridicità. La vera centralità viene conferita al rapporto supremazia-soggezione, da cui discendono gli altri (compresa l’antitesi amicus/inimicus). Quando un individuo o gruppo sociale si sottrae al vincolo di soggezione esso si oppone alle finalità di potere del gruppo che controlla l’apparato statuale di coercizione; diventa quindi senz’altro inimicus ma nel senso di ribelle, un “fuori-legge” che presuppone l’esistenza di una legge, cioè di un ordinamento giuridico. Ma proprio per questo suo radicarsi nel rapporto supremazia-soggezione quella di “nemico” non è una categoria autonoma rispetto al giuridico. Non si dà mai, pertanto, una separazione tra politica e giuridicità, neppure nei momenti supremi di rottura di una legalità preesistente.
Al giurista, in particolare all’interprete della costituzione, spetta l’arduo compito di tenere costantemente aperto il canale di armonico dialogo tra il dato normativo tendenzialmente fisso e il sistema dei valori sostanziali oggi in rapido mutamento. Pena la rottura della legalità e l’aprirsi di scenari dagli esiti imprevedibili e probabilmente catastrofici.