Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell'interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Nel 2022 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la classe di concorso A019 (Filosofia e Storia). Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, l’ermeneutica letteraria e i paganesimi antichi. Ha pubblicato saggi e articoli per riviste di filosofia, letteratura e fotografia. Con la cura del volume Psyché. L’anima ha contribuito alla collana del «Corriere della Sera» dedicate a Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà  (a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, 2022/2023). È redattore della rivista culturale online «Il Pequod». Ha pubblicato De scriptura. Dolore e salvezza in Proust (Mimesis, 2024).

recensione a: A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, Algra Editore, Viagrande 2024, pp. 160, € 14,00.

Quando si dice che la metafisica costituisce uno dei modi più profondi e perspicui per comprendere, sezionare e analizzare la realtà, anche nella sua fattispecie politica, sociale e culturale, questo rappresenta un fortissimo principio di verità, e allo stesso tempo garanzia del vero tema di questo libro, e cioè la libertà di dire quello che si pensa, quella che i Greci studiati da Foucault chiamavano parresia, gli stessi Greci che sono la fonte a cui la riflessione di Biuso attinge, la vera origine del pensare, e naturalmente dell’Europa e della sua successiva stratificazione che adesso sta rischiando, per mano di coloro che l’identità europea l’hanno adulterata, gli Stati Uniti d’America, un appiattimento irreversibile.

La matrice teoretica del libro è chiara ed evidente, è quella del gioco dinamico e infermabile di Identità e Differenza, per cui la pluralità di ogni ente, evento e processo deve essere garantita, pena un colpevole autoritarismo delle opinioni e delle culture che è la più trasparente dimostrazione del nichilismo, dell’annientamento di tutte le altre identità a favore di un principio unico, che di per sé non dovrebbe sussistere.

Il volume affronta alcune delle tematiche più scottanti e attuali con acume e dottrina, dall’ideologia woke al gender; la prevaricazione politica di uno stato-civiltà sulla politica mondiale che sta rendendo sempre più minimale, o per meglio dire schiavistica, la condizione dell’odierna Europa, sempre più stampella e braccio armato della superpotenza oltreoceano; dall’erosione dell’istruzione all’infantilismo collettivo; dalla mercificazione della cultura alla perdita di ogni senso e capacità critica.

È un libro coraggioso, come dovrebbe esserlo ogni tentativo di pensiero che si rispetti e non asservito a ideologie dominanti, a potentati finanziari e all’etica dei valori, la quale è anzi oggetto di una dura contestazione non in quanto modo sensato e meditato di stare al mondo, per dirla con l’Aristotele della Nicomachea, ma come fiera di valori impoverenti, putridi e segno di una stanchezza fisica e intellettuale che alla fine risulta tutt’altro che salutare, bensì altamente nociva e perniciosa. Valori di cui Biuso coglie tutte le pericolose propaggini nel vivere collettivo, ovvero quando diventano fanatiche estremizzazioni che violano il principio metafisico di fondo che intride l’essere. Il pregio di questo libro, e della prospettiva che propone, risiede dunque nel fondarsi non nell’etica, che semmai è successiva al pensiero, ma nella metafisica, che diviene allora il vero discrimine delle cose, la lente attraverso cui osservare con giustezza le cose umane, per assicurare il meglio e prevenire la barbarie.

Direi allora che si potrebbero leggere anche solo due pagine del libro, in cui si cita Spinoza, un metafisico che ha discusso teoreticamente di etica e che sulla base della sua filosofia ha poi affrontato la politica e la società del suo tempo, fornendo un esempio di serena convivenza tra gli umani e di attraversamento dell’esistenza quanto più pieno, gioioso e fecondo possibile. Biuso è chiarissimo nell’esprimere il suo concetto dirimente le relazioni umane, quando si esercita il pensiero in modo razionale: «La libertà di espressione non deve avere alcun limite, poiché appena si cominciano a porre dei confini, rischia di essere prima o poi cancellata. Contro ogni atteggiamento autoritario travestito da garanzia collettiva, tale libertà deve essere garantita a qualunque idea, anche a quella che secondo i criteri di una determinata società appare ‘aberrante’: che sia l’eliocentrismo per la comunità scientifica antica, il cristianesimo per i politeisti, il politeismo per i cristiani, l’ateismo per il medioevo (e oltre), la blasfemia per le società musulmane, il nazionalsocialismo per le società democratiche, lo stalinismo per la società nordamericana, il fondamentalismo islamico e il razzismo per le società politicamente corrette» (p. 132). È naturalmente con grande spirito provocatorio che l’autore accosta posizioni e fenomeni storico-politici del passato e del presente al proprio opposto, alla propria nemesi. Perché con la garanzia della libertà di qualunque posizione, pensiero e prospettiva posta come principio, viene meno la possibilità stessa del conflitto, della prevaricazione e di qualunque dogmatismo. È infatti una profonda allergia al dogma in quanto tale che questo libro manifesta, auspicando l’emergere della differenza da cui può nascere e strutturarsi l’identità, che non osa minacciare né deve temere di essere minacciata.

Certamente, un libertarismo (ovviamente nel senso di una filosofia della libertà, non come dottrina politico-economica) così ampio, direi quasi assoluto, può prestare il fianco a numerose critiche, soprattutto alla luce dei cosiddetti diritti storicamente acquisiti con lunga fatica e spesso anche a seguito di grande violenza. Per fare alcuni esempi: è legittimo far parlare di fascismo pur costituendo un reato contro la Costituzione? Dell’omosessualità come di qualcosa contro natura? Dei disabili come di una zavorra sociale? Non dovrebbe il corpo collettivo, che opta invece per il contrario, sorvegliare in modo che nessuna di queste cose avvenga? E come farlo? Sorvegliando appunto il linguaggio, da cui consegue il divieto di parlare, quindi di pensare e di agire. Ma fare questo, estremizzare fino a tal punto il controllo, significa adoperare lo stesso autoritarismo che è il male da cui invece ci si dovrebbe curare. Per l’autore, una questione equivocabile è infatti quella dei diritti, che diventano strumentalmente mezzi di propaganda e di potere, di oscurantismo e di ignoranza, talché la Divina Commedia deve essere bandita dalle scuole e la biologia dei corpi intesa come un pregiudizio e un retaggio di ristrettezza mentale. A livello normativo, secondo Biuso chiedere che «delle leggi proibiscano preventivamente la formulazione di idee, concetti e anche pregiudizi significa che si vuole la libertà di parola per le parole con le quali concordiamo», a cui fa seguire come corollario, in modo assai delicato, una citazione da una martire della libertà quale Rosa Luxemburg, la quale affermava che «la libertà è solo la libertà di chi la pensa diversamente» (ibidem).

Ad ogni modo, dinanzi a un atteggiamento così aperto, quasi sfrenato dal punto di vista della libertà, resta il dubbio naturale su come fare a individuare un terreno comune. La sociogenesi è un processo altamente complesso, plurale e ramificato, e sono propriamente queste caratteristiche che Biuso difende, a cui la sua riflessione vorrebbe richiamare l’attenzione, a un uso distorto, iper-moralistico e totalizzante della libertà che però nega le sue stesse condizioni di sussistenza, di cui il Politically Correct non è altro che la massima rappresentazione, il fenomeno più perspicuo.

Dinanzi alle società odierne, che «sono e rimangono un formicaio di obbedienti, una triste accozzaglia di buoni» (p. 14), la figura dell’intellettuale, la cui funzione è «biologicamente simile a quella di alcune specie di pesci che filtrano le impurità delle acque e le restituiscono al mare» (p. 20), sta eclissandosi, impedita nella sua espressività da un’ignoranza dilagante, favorita dall’ondata di oscurantismo wokista e politicamente corretta proveniente dagli Stati Uniti. Un moralismo assai pericoloso che elude la differenza e che «ritiene di poter sanare e nascondere con un linguaggio asettico la ferita sociale» (p. 30), o più semplicemente le confortanti falsità con cui ci rendiamo sopportabile la vita, giustificabili i difetti e le mediocrità, e legittimo il risentimento verso chi è di più. La cui radice è individuata giustamente da Biuso in una inspiegabile educazione alla menzogna, in un’insensata paura di offendere, che se è comprensibile nelle relazioni minime tra le persone (amicali o amorose che siano) divengono in realtà deleterie se assurgono a principi regolatori del dire e dell’agire collettivo. E ciò perché il «linguaggio non costituisce soltanto uno dei più forti elementi identitari dell’umano ma è anche un’antenna sensibilissima dei movimenti profondi che investono il corpo sociale. Chi non lascia libere le parole non rispetterà, alla fine, neppure la libertà delle persone» (p. 34).

Fatte queste premesse, risulta del tutto comprensibile la definizione di una società politicamente corretta in quanto dittatoriale, rispetto alla quale Biuso pone il serio interrogativo se non sia meglio, in merito alla risoluzione di certi conflitti culturali, una maggiore libertà invece che una censura, che storicamente, dall’Inquisizione cattolica fino agli odierni imperi virtuali del social-digitale, ha sempre condotto a pericolosi squilibri e a violenze gratuite. Dinanzi allora alla civiltà dominante, qual è quella statunitense che sta realmente minacciando la sopravvivenza dell’Europa, l’autore invoca ancora una volta la differenza, il pluralismo a questo punto imprescindibile, la convivenza pacifica delle varie istanze riconoscendo l’altro in un totale accoglimento, non valoriale, culturale o sociale (che può anche avvenire), ma meramente esistenziale, accettarne insomma la presenza in quanto tale: «Le civiltà, le pluralità, costituiscono una garanzia di autentica eguaglianza e di accoglimento dell’altro, delle sue differenze, anche di quelle che a noi non piacciono» (p. 52). Pluralismo quindi che deve essere sostanziale, oltre ogni possibilità di cancel culture, «la cui radice è l’odio per le differenze, il bisogno di una ortodossia morale ed esistenziale di fronte alla quale la stratificazione della storia, la pluralità dei linguaggi, la bellezza dell’arte e del pensiero devono essere annichilite in nome del Bene supremo dell’uniformità» (pp. 55-56).

La riflessione declinata vuole essere quindi una strenua difesa di un’idea di Europa messa a dura prova dalla vera e propria dominazione coloniale di alcune derive oscurantiste frutto del liberismo economico e della tecnocrazia finanziaria, la cui operazione culturale è in realtà l’abbassamento di ogni cultura fino alla totale mercificazione dell’individuo, ma più gravemente del sapere: un conformismo moralistico il cui influsso, se prevarrà, condurrà alla lunga all’incapacità di pensare il mondo in modo ricco, serio, rigoroso, articolato, fecondo, cose che invece il decadimento dell’istruzione e la piattezza social-digitale stanno mostrando in maniera pressoché incontrovertibile.

Contro Ždanov, Goebbels o i potenti della finanza mondiale contemporanea del pensiero unico e omologante, si tratta quindi di una questione di preservazione, ad esempio delle «civiltà dalle quali attingiamo ciò che siamo» (p. 72) senza bisogno di rinnegare o cancellare alcunché, ribadendo con forza e decisione che «i libri, la letteratura, la conoscenza devono essere anche ‘immoral’ per essere liberi e dunque fecondi» (p. 73). In una formula, se qualcosa è corretto, non è la politica che deve stabilirlo, ma è l’Europa in quanto «è la mia casa, è mia madre, è la lingua che parlo, sono gli dèi, è la bellezza, è la filosofia, è la libertà» (p. 154).

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