Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell'interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Nel 2022 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la classe di concorso A019 (Filosofia e Storia). Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, l’ermeneutica letteraria e i paganesimi antichi. Ha pubblicato saggi e articoli per riviste di filosofia, letteratura e fotografia. Con la cura del volume Psyché. L’anima ha contribuito alla collana del «Corriere della Sera» dedicate a Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà  (a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, 2022/2023). È redattore della rivista culturale online «Il Pequod».

Contestualmente all’Edizione Nazionale dell’Opera Omnia di Luigi Pirandello (https://www.pirandellonazionale.it/), in collaborazione con Mondadori e il MiBACT che ne hanno sposato il progetto editoriale e l’ampliamento digitale, fa notizia la riedizione in formato tascabile, nella celebre collana «Oscar Moderni», dei capolavori dello scrittore e drammaturgo siciliano.

Nel 2023 si aggiunge quindi anche la riedizione del romanzo forse più fortunato di Pirandello, quel Fu Mattia Pascal, appunto, intorno al quale, dal punto di vista sia del mero contenuto che della vicenda compositiva, è sorto un vero e proprio mito. Rispetto alle altre edizioni in commercio, o alle passate edizioni anche per i tipi della stessa Mondadori, la 2023 dell’Edizione Nazionale si mostra degna di nota per l’alto valore scientifico e divulgativo, cosa che ne fa un ottimo strumento in mano sia agli studiosi e appassionati di Pirandello sia ai lettori che vogliano avvicinarsi a questo romanzo unico nel suo genere.

Insieme all’accuratissima nota storico-filologica di Antonio Di Silvestro e all’intelligente bibliografia di Eliana Vitale, l’edizione si segnala inoltre per quella che potrebbe definirsi una vera e propria trovata pirandelliana, ovvero la particolarissima e partecipata Postfazione di Antonio Sichera, che firma anche la Premessa, stavolta di servizio, al romanzo. Nell’esperienza comune di lettore (in particolare del lettore attento agli apparati critici) è infatti veramente difficile imbattersi in un esercizio di questo tipo, una scena teatrale nel pieno stile dell’agrigentino in cui il critico da una parte dismette il vezzo accademico e dottrinale, che pur deve contraddistinguerlo, e dall’altra si compromette anima e corpo con i personaggi del romanzo nel tentativo di proporre, con metodi, battute e punti di vista alternativi, la sua ermeneutica. Per spiegare al lettore la sua ipotesi interpretativa del libro, fatta di spunti, intuizioni, tracce, cifre, figure, Sichera sceglie di mettere in scena un’autentica pièce, un dialogo in cui a turno intervengono i principali narratori del romanzo, Mattia e don Eligio, il primo che si confessa e il secondo che raccoglie la sua confessione.

È un espediente veramente singolare, che se rende da una parte più piacevole e intrigante la lettura di quella che altrimenti sarebbe stata una poco avvicinabile postfazione (poiché troppo densa di dettagli, dal linguaggio tecnico e difficile, oscura nei riferimenti), dall’altra induce il lettore, che ha appena concluso il libro e vuole saperne di più dall’esperto, a continuare a domandarsi sul significato del criptico ed enigmatico romanzo pirandelliano. Il critico, dunque, diventa anche lui un personaggio del gioco del romanzo e della dinamica infinita dell’interpretazione, si fa sollecitare dalle domande di Eligio e Mattia, partecipa al loro dialogo e all’incalzare delle loro questioni, assiste allo svelamento, per così dire, dell’altro libro dei significati reconditi che sta dietro il libro reale, che è compito del critico individuare e spiegare.

Il critico Antonio viene chiamato, anzi provocato dallo stesso Mattia Pascal, che vuole raccontargli un’altra storia rispetto a quella che gli appartiene da quasi centovent’anni, quella storia che Gadamer avrebbe definito degli effetti. Qui ha inizio l’intero dialogo, lungo il quale vengono fuori le spiegazioni dei passi centrali del romanzo e anche di quelli poco frequentati, come l’ultima notte romana di Adriano Meis.

Naturalmente, il senso della critica, intendo della critica professionale erudita e scientifica, non può riassumersi solamente in uno scambio di battute. I contenuti del dialogo tra il critico Antonio da un lato e Mattia ed Eligio dall’altro hanno trovato una sistemazione per ora definitiva nel libro di Sichera dal titolo Ecce Homo! Nomi, cifre e figure in Pirandello (Olschki, Firenze 2005). Ma se ha ragione Oscar Wilde quando nella Preface al Dorian Gray diceva che «chi può incarnare in una forma nuova, o in una materia diversa, le proprie sensazioni della bellezza, è un critico», ovvero chi è in grado di andare da un medium a un altro dell’espressione riguardo a ciò che sente e intuisce, allora in questa Postfazione si è raggiunto il punto esatto del sapere mediale del critico, dalla prosa scientifica a quella dialogica, la quale, per dirla tutta, restituisce molto di più e meglio l’essenza stessa della critica: un ascolto profondo del testo, un dialogo in cui il lettore accosta la sua vita, il suo spirito e la sua carne al corpo vibrante del testo, generando un’esperienza integrale in cui ottenere risposte e attribuire un senso inedito all’esistenza, che è del resto uno dei grandi motivi per cui la letteratura, l’arte e la filosofia si fanno e si leggono.

Al caffè Giolitti di Roma, alle 11 in punto, prende quindi avvio questa conversazione, in cui Mattia, scortato da Eligio, racconta ad Antonio la sua vita e la sua storia, gli rivela i suoi segreti, tranne quello più intimo, metafora dei segreti indicibili e strutturali a ogni opera ed ermeneutica che voglia comprenderla: il nome di sua madre. Ma, se ci si pensa, il margine di segreto e di incompiuto che rimane in ogni opera, come in ogni esperienza della vita, persino della vita in sé, è ciò che consente all’arte e all’interpretazione di essere ancora. Proprio come dice il critico Antonio, che riassume così il suo mestiere, nonché il compito infinito della critica: «Per ricordare, per raccontare, per continuare ad ascoltare…» (p. 286).

Lascio naturalmente al lettore pirandelliano di apprezzare il lavoro svolto per questa edizione e per (ri)assaporare la storia così geniale e feconda di verità del Mattia Pascal. Suggerisco soltanto una breve sosta nel teatro critico di Sichera, laddove si manifesta, e ai miei occhi è lampante, il pregiudizio filosofico che ogni vera critica deve avere per essere realmente tale, per assolvere a quello che abbiamo definito il suo compito infinito. Mattia Pascal mal digerisce la filosofia, anzi, la detesta, specie quando si accorge della distanza assoluta e incomponibile che essa avrebbe nei confronti della vita: Mattia era immerso nel suo studio nella biblioteca di Monsignor Boccamazza, ma, pur librandosi tra i massimi sistemi – i libri di filosofia «pesano tanto: eppure, chi se ne ciba e se li mette in corpo, vive tra le nuvole» (p. 42) –, la filosofia non può dire alcunché sulle morti di sua figlia e di sua madre. «Fu lì», fa dire Sichera a Mattia sulla scorta di quanto si legge nelle prime pagine del romanzo, «che capii che la filosofia non serve a nulla…» (p. 268). Ma la filosofia, così aberrante secondo Mattia, ritorna prepotente nel senso ultimo del libro che il critico Antonio restituisce nella conclusione di questa conversazione così particolare, tra Pascal (Blaise), Montaigne, Dostoevskij, Shakespeare e le Sacre Scritture: «Che la vita non si domina, non si tiene a bada con la morale, non è un possesso. La vita, nel profondo, non è né legge né bios: il suo senso è relazione con il corpo bambino, con il corpo dell’altro senza nome, è abbracciare ed essere abbracciati. Toccare ed essere toccati dall’altro… questo ci fa umani, ci apre alla vita: una mancanza offerta, che si sporge, non una pienezza definita, che si chiude su di sé… Dico così, come mi viene…». A cui subito dopo Mattia replica: «Calma, calma… Vi ringrazio entrambi ma qui la filosofia rischia di diventare troppa, e a me interessava solo raccontare di nuovo la storia. Con Eligio, davanti a lei. E sono felice che l’abbia ascoltata…» (p. 285).

Ha ragione Mattia nel dire che troppa filosofia impedisce il racconto, ma quando la critica vuole riaddensare il concetto rarefatto nella pagina letteraria, da cui, come una sorgiva, il racconto stesso ha origine, essa diviene appunto teoresi, e prova ne è il come mi viene del critico Antonio. La critica è allora un esercizio filosofico tendente alla definizione, alla chiusa, ma non con la forma del cerchio che si conclude sempre su se stesso bensì della spirale, a cui il calore del contatto testo-lettore funge, per così dire, da moto angolare, che risospinge ancora e ancora. Nella sua essenza la critica è infatti anche relazione, dialogo, domanda, ciò che si ricava dopo essersi fatti interrogare dall’incontro di senso che sempre costituisce la lettura di un grande capolavoro, quale è appunto Il fu Mattia Pascal restituito da questa edizione rigorosa e viva alla freschezza che merita.

 

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