Giovanni Cerro è tutor della Scuola Internazionale di Alti Studi “Scienze della cultura” della Fondazione Collegio San Carlo di Modena, istituzione presso la quale ha conseguito il dottorato di ricerca con una tesi sull’antropologo e psicologo positivista Giuseppe Sergi. Ha pubblicato saggi in volumi e riviste italiane e internazionali sui rapporti tra antropologia e politica nella cultura europea tra Ottocento e Novecento, dedicando particolare attenzione alla teoria della degenerazione, alla nascita e all’evoluzione del movimento eugenetico e del pensiero razzista.

Recensione a
E. Gentile, Chi è fascista 
Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 144, €13,00.

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Il 29 ottobre 1944 appariva sul «Giornale di Napoli» un articoletto a firma di Benedetto Croce che fin dal titolo poneva la domanda: Chi è «fascista»? Il filosofo partiva dalla constatazione che in quel tempo definire fascista un avversario politico era abitudine così diffusa da rischiare «di diventare un semplice e generico detto di contumelia, buono per ogni occorrenza». Proprio perché convinto che «nel costume e nelle pieghe mentali» persistesse ancora «non poco residuale fascismo», Croce invocava la necessità di studiare il fenomeno nel «suo significato storico e logico», a partire dall’idea che esso trovò accoglienza «in tutte le classi e in tutti gli ordini economici e intellettuali, in industriali e agrari, in clericali e in vecchi aristocratici, in proletari e in piccoli borghesi, in operai e in rurali». Il fascismo, così come il nazismo, «furono un fatto o un morbo intellettuale e morale, non già classistico ma di sentimento, d’immaginazione e di volontà genericamente umana»: essi trovarono condizioni propizie per germogliare in quella crisi di irrazionalità nata dal malcontento e dalla mancanza di fiducia tanto verso il liberalismo quanto verso il marxismo. Per comprendere davvero il fascismo era pertanto «ingenuo», proseguiva Croce, «credere di averne trovato la radice nei superficiali e meccanici concetti delle classi economiche e delle loro antinomie, ma bisogna[va] scendere molto più in fondo: nei cervelli degli uomini; e colà scoprire il male, e colà (ed è certamente difficile) esercitare la sola cura che abbia speranza di riuscire salutare». Su tale cura Croce non si dilungava, promettendo di tornare ad occuparsene in un’altra sede.

Il volume di Emilio Gentile oggetto di questa nota prende a prestito il titolo del saggio crociano, eliminando il punto interrogativo presente nello scritto originario, e si propone di affrontare quella che potrebbe definirsi la disputa sulla natura del fascismo. Una disputa che ciclicamente si ravviva, oltrepassando spesso i confini della ricerca accademica e specialistica per irrompere nel dibattito pubblico, dove è spesso proposta con toni a dir poco accesi, che rischiano di aumentare la confusione su un argomento già di per sé complesso. Volendo semplificare, da una parte, vi è chi sostiene che il fascismo sia un fenomeno dotato di una propria individualità storica, quindi delimitato da precise coordinate spaziali e temporali e con caratteristiche altrettanto determinate. Dall’altra parte, il fascismo è assimilato a una sorta di idea eterna, contraddistinta da qualità essenziali, che periodicamente si incarnano e si concretano nella realtà. Per chi ha una certa familiarità con gli studi di Gentile sarebbe persino superfluo ricordare la posizione dell’autore, i cui studi fin dalla metà degli anni Settanta hanno offerto un contributo decisivo all’avanzamento della storiografia europea sul fascismo e sull’intero periodo tra le due guerre mondiali. Nel caso di questo volumetto si deve segnalare che l’argomentazione assume una forma espositiva particolare, quella di un’intervista immaginaria all’autore, con evidenti richiami ad altri celebri esperimenti simili (con la differenza della presenza reale di un intervistatore): dall’Intervista sul fascismo di Renzo de Felice all’Intervista sull’antifascismo di Giorgio Amendola fino all’Intervista sul nazismo di George L. Mosse e a Riflessioni sul fascismo italiano di A. James Gregor.

Mi sembra che il discorso di Gentile tocchi almeno tre livelli di riflessione, che pur strettamente intrecciati tra loro, vorrei qui provare a distinguere. Il primo livello del discorso è di tipo definitorio perché si interroga su che cosa è o meglio su che cosa è stato il fascismo. Vengono quindi respinte tutte le interpretazioni definite riduzioniste e unidimensionali, che tendono a individuare la preminenza di un aspetto specifico, non comprendendo che il «fascismo fu movimento, partito, regime molto complesso nel suo svolgimento storico» e che dal «punto di vista organizzativo, culturale e istituzionale fu la risultante di molte componenti», di cui il culto del capo, ovvero il mussolinismo, fu soltanto un momento, senza dubbio rilevante, ma comunque non esauriente. Sono rifiutate dunque la lettura liberale, già evocata con Croce, secondo la quale il fascismo sarebbe una malattia morale; quella marxista, che vi vedrebbe la reazione antiproletaria della borghesia; quella socialdemocratica, che vorrebbe spiegarne la nascita e il successo con l’incapacità di adattamento di alcuni popoli alla modernità. Per Gentile, si tratta di modelli esplicativi, che pur nella loro diversità di impostazioni ed esiti, pretendono di respingere il fascismo nel campo del patologico e dell’irrazionale, operando così in modo metastorico o peggio antistorico.

Di contro, Gentile propone una definizione articolata del fascismo – che si trova esposta in fondo al volume, dove occupa ben quattro pagine – anzitutto come movimento politico, sociale, culturale e ideologico, le cui origini vanno rintracciate nell’esperienza della Grande guerra e nella volontà di sublimare tale esperienza, prolungandola nel tempo e addirittura istituzionalizzandola attraverso il riconoscimento del ruolo della politica come religione secolare, vale a dire della sua capacità di produrre miti, riti e simboli da utilizzare come strumenti di mobilitazione delle masse. Il fascismo italiano, inoltre, si distinse per essere il primo partito milizia europeo a conquistare il potere con il proposito dichiarato di distruggere le istituzioni tipiche della democrazia parlamentare e liberale, e il suo stesso funzionamento, affermando il primato della politica sulla sfera individuale e collettiva e imponendo un soffocante controllo e intervento dello Stato e del partito sulle vite e persino sulle «coscienze» degli italiani. Fu, inoltre, il primo fenomeno totalitario dell’Occidente politico moderno, come riconobbero fin dai primi anni Venti alcuni degli oppositori al regime, quali Luigi Sturzo, Giovanni Amendola, Luigi Salvatorelli e Lelio Basso. Un argomento, quello del totalitarismo come tratto costitutivo del fascismo, che ha esposto le ricerche di Gentile a numerose critiche, fin dalla pubblicazione del suo La via italiana al totalitarismo, uscito originariamente nel 1995. Questa spinta totalitaria andrebbe intesa, suggerisce Gentile, in senso dinamico e sperimentale perché mirava all’instaurazione di una rivoluzione permanente e perché non può ritenersi pienamente compiuta in nessuna delle differenti fasi che pure caratterizzarono la lunga traiettoria del regime.

Il fallimento di questo tragico progetto, però, non ne esclude l’esistenza. Il carattere totalitario si concretizzò non solo in uno slancio bellicistico e imperialistico, ma anche nel tentativo di rigenerare la nazione e di creare un uomo e una donna nuovi, nonché una nuova civiltà e un nuovo ordine. In questo laboratorio di trasformazione antropologica degli italiani, che non può essere ricondotto a un modello unitario o monolitico, ma che fu profondamente influenzato da circostanze sia interne, sia internazionali, sono riconoscibili alcuni tratti comuni. La virilità, la giovinezza e la militarizzazione della politica furono costantemente contrapposte alla decadenza, all’inettitudine e alla netta separazione tra sfera civile e militare che avrebbero caratterizzato il modello di società dell’Europa liberale. L’ambivalenza del ruolo in cui furono confinate le donne fu, secondo l’autore, un’altra caratteristica di lungo periodo del fascismo: da una parte, le donne furono considerate quali custodi e vestali dello spazio domestico, dall’altra parte, si assegnarono loro funzioni assistenziali e pedagogiche, legate all’«allevamento» e all’educazione dell’uomo nuovo, funzioni sempre attentamente disciplinate e regolamentate dalle organizzazioni partitiche e statali. In ogni caso, il regime avversò, respinse e represse con forza tutte le richieste di emancipazione provenienti dal mondo femminile. A ciò si devono naturalmente aggiungere le politiche antisemite e razziste che il fascismo teorizzò, adottò e applicò con particolare virulenza soprattutto dopo l’invasione coloniale dell’Etiopia.

Proprio prendendo le mosse da queste considerazioni, Gentile ci conduce al secondo momento della sua indagine, che si potrebbe definire cronologica perché dedicata alla ricerca della data di nascita del «fascismo storico», ovvero di quel fascismo «che distrusse le organizzazioni del proletariato, portò Mussolini al potere nell’ottobre del 1922, gli impose la distruzione del regime liberale e l’instaurazione del regime totalitario, dominò per venti anni in Italia, divenne modello di regime totalitario per partiti e regimi antidemocratici nazionalisti nell’Europa fra le due guerre mondiali, contribuì a minare la pace con l’aggressione all’Etiopia, rese lo Stato italiano ufficialmente razzista e antisemita, si schierò con il nazismo nella Seconda guerra mondiale, e fu travolto e distrutto dalla completa disfatta». Il «fascismo storico», così inteso, non nacque a Piazza San Sepolcro con la formazione dei Fasci di combattimento il 23 marzo 1919 (a riguardo Gentile parla di un «falso centenario» per la ricorrenza del 2019), ma nel novembre 1921, quando si costituì il Partito nazionale fascista. A proposito del fascismo diciannovista, Gentile afferma che, «contrariamente a quanto ancora si crede non era affatto anticapitalista, né populista, e neppure rivoluzionario». Gli appartenenti ai Fasci si dichiaravano rivoluzionari soltanto per presentarsi agli occhi dei reduci e degli ex combattenti come gli autentici rappresentanti dei destini della nazione, ma in realtà erano diffidenti verso una presa del potere di tipo insurrezionale. Inoltre, pur concordando con alcune rivendicazioni del Partito socialista e della Confederazione generale del lavoro, non erano contrari allo sviluppo capitalistico, ma anzi difendevano gli interessi della borghesia produttiva e industriale. Erano, sì, antiparlamentari ma non antidemocratici, nel senso che auspicavano un rinnovamento energico della democrazia, che prevedeva l’abolizione del Senato, la ridefinizione delle funzioni e della composizione della Camera e l’introduzione del suffragio universale maschile e femminile. Si proclamavano repubblicani, ma non erano ostili alla monarchia, qualora questa avesse consentito l’attuazione del loro programma. Erano antipartitici, ma contrari all’instaurazione di una dittatura e favorevoli a una partecipazione per così dire «libertaria» alla politica. Nei Fasci di combattimento non sarebbe rinvenibile per Gentile l’«embrione del fascismo di massa», ma piuttosto la ripresa del radicalismo interventista del 1915, riadattato a un contesto profondamente mutato dopo il trauma del primo conflitto mondiale.

Gentile giunge così al terzo livello della sua ricerca, avventurandosi su un terreno particolarmente impervio, ovvero si interroga se sia possibile parlare di fascismo oggi in Italia. Anzitutto, egli rifiuta la tesi del «fascismo eterno» presentata da Umberto Eco durante una conferenza tenuta alla Columbia University il 25 aprile 1995, pochi giorni dopo l’attentato di Oklahoma City. Il libro di Gentile si apre proprio con una citazione estrapolata dall’intervento di Eco («si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia»), in cui si sosteneva l’esistenza di un Ur-Fascismo, caratterizzato da una serie di tratti archetipici (per la precisione, dodici, tra cui il culto della tradizione e dell’azione per l’azione, il rifiuto del modernismo, la paura della differenza, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto), che potevano ripresentarsi in qualunque momento «sotto mentite spoglie». Tale ipotesi, per Gentile, non solo sarebbe scorretta da un punto di vista storiografico, ma anche pericolosa per l’efficacia dello stesso antifascismo sul piano sociale, culturale e politico, perché potrebbe distogliere l’attenzione dalle derive antidemocratiche delle democrazie odierne e «favorire la fascinazione del fascismo sui giovani che poco o nulla sanno del fascismo storico, ma si lasciano suggestionare da una sua visione mitica, che verrebbe ulteriormente ingigantita dalla presunta eternità del fascismo».

In un certo senso, nel contributo di Eco si potrebbe ritrovare, secondo Gentile, l’uso invalso nelle scienze sociali di fare riferimento a un «fascismo generico» e un’inclinazione all’«astorologia», ovvero a «un nuovo genere di narrazione storica, fortemente mescolata con l’immaginazione, che sarebbe ben compendiata dalla formula della «storia-che-mai-si-ripete-ma-sempre-ritorna-in-altre-forme». Per avvalorare questa posizione Gentile chiama in causa Giorgio Amendola, che rifiutava l’«astrazione» secondo la quale il fascismo è «un fenomeno che si ripete, come se ci fosse una categoria universale del fascismo», e invitava a distinguere tra «conservatore, reazionario, autoritario, fascista», dal momento che si trattava di «termini che corrispondono a diverse formazioni politiche, a diverse realtà». «Non approvo» proseguiva Amendola «certe equiparazioni generiche e superficiali. […] Bisogna abituare le giovani generazioni all’arte della distinzione. Fu uno dei grandi insegnamenti di Togliatti». E in effetti lo stesso Togliatti, a cui pure Gentile non risparmia critiche, soprattutto per l’atteggiamento tenuto verso la formazione di Giustizia e Libertà, nell’articolo À propos du fascisme, pubblicato il primo agosto 1928 su «L’Internationale Communiste», aveva consigliato di analizzare «attentamente il fascismo quale si manifesta concretamente in Italia e negli altri paesi», rilevando con inquietudine la diffusa tendenza a «generalizzare», che s’univa a «errori veramente grossolani di giudizio e d’interpretazione politica e storica», primo fra tutti l’«abitudine di designare così [cioè col termine fascismo] ogni forma di reazione».

In un passaggio Togliatti notava: «Un compagno è arrestato, una manifestazione operaia è brutalmente dispersa dalla polizia, un tribunale condanna ferocemente dei militanti del movimento operaio, una frazione parlamentare comunista vede i suoi diritti lesi o abrogati, insomma in occasione di ogni attacco o violazione delle cosiddette libertà democratiche consacrate dalle costituzioni borghesi, si sente gridare “Ecco il fascismo! Siamo al fascismo!”». Una tale condotta non solo impediva di operare «una distinzione obiettiva e scientifica» del fenomeno, ma non permetteva nemmeno di raggiungere obiettivi politici significativi: «se prenderemo come punto di partenza il famoso detto secondo il quale “di notte tutti i gatti sono grigi” e ne dedurremo che tutti i fenomeni di reazione sono fascisti, non arriveremo mai a occupare solide posizioni politiche e tattiche». Dopo aver esaminato alcuni aspetti dell’esperienza italiana (le condizioni dell’economia capitalistica in Italia, la base sociale del fascismo, la sua ideologia), Togliatti ribadiva la necessità di «mettere in guardia dal contentarsi dei luoghi comuni» ed esortava allo «studio del fascismo sulla base della realtà stessa, secondo il corso e le forme concrete della sua evoluzione», applicandovi il «metodo dell’analisi differenziata che è alla base di ogni politica marxista». Insomma, da autori diversissimi tra loro, come Croce e Togliatti, verrebbe l’invito a un uso meditato e prudente della categoria di “fascismo”.

In conclusione, Gentile non nega che sostenitori e fautori del fascismo esistano anche nelle società contemporanee, ma che possano definirsi tali solo coloro che «si considera[no] ered[i] del fascismo storico, pensa[no] e agisc[ono] secondo le idee e i metodi del fascismo storico, milita[no] in organizzazioni che si richiamano al fascismo storico, aspira[no] a realizzare una concezione fascista della nazione e dello Stato, non necessariamente identico allo Stato mussoliniano. Inoltre è fascista chiunque ostenta idee, linguaggi, simboli, gesti che erano tipici del fascismo italiano». L’unica risposta, quindi, attendibile e seriamente argomentata, a che cosa è stato il fascismo e a chi è fascista oggi può provenire, secondo Gentile, dallo studio della storia.

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