Francesco Malaguti si è laureato con lode in "Filosofia e linguaggi della modernità" presso l'Università di Trento nel 2018, discutendo una tesi comparativa sulle dottrine metafisiche di Ibn al-'Arabi e il pensiero di Giordano Bruno. Attualmente svolge il dottorato in "Scienze della cultura" presso la Fondazione San Carlo di Modena, portando avanti gli studi su Bruno e sul suo rapporto con la tradizione filosofica e scientifica del mondo islamico.
Recensione a
E. Baldini, Quel che vedevano in cielo. Comete, «prodigi», oggetti volanti nelle cronache e testimonianze dall’antichità alla fine del XVII secolo (con particolare riguardo all’area romagnola ed emiliana)
Il Ponte Vecchio, Cesena 2020, pp. 192, €15,00.
Il saggio di Eraldo Baldini di cui proponiamo la recensione ha per oggetto il complesso tema degli avvistamenti di comete e in generale di rari fenomeni celesti nel corso dell’età antica, medievale e moderna. L’autore del ravennate, che si è occupato a lungo di storia locale, pone anche questa volta l’accento sull’area emiliano-romagnola, esplorando sia cronache di personalità vissute nel suo territorio, sia credenze popolari ad esso collegate. Stiamo parlando, dunque, di un saggio a carattere multidisciplinare, che coinvolge principalmente aspetti legati alla storia della scienza e all’etnologia. Sulla base di un ampio panorama di fonti, Baldini cerca di leggere criticamente testimonianze storiche dal contenuto enigmatico e difficile da decifrare. A tal proposito egli sostiene che «pare esistere una barriera apparentemente invalicabile fra chi legge sempre i resoconti degli antichi fenomeni e “prodigi” celesti in chiave religiosa, “miracolistica”, propagandistica e strumentale, o li interpreta in chiave esclusivamente razionalistica e “negativista” […] e fra chi invece, spinto da un atteggiamento acritico e quasi neo-fideistico, tende a ricondurre sempre tali elementi e accadimenti alla manifestazione concreta di presenze “aliene”, extraterrestri, portentose e simili» (p. 11). L’autore cerca una terza via, sforzandosi di cogliere un fondamento di verità scientifica in testi che discutono di fenomeni celesti in termini che oggi potremmo definire ascientifici. Questo atteggiamento porta Baldini anche a discostarsi dalle interpretazioni in chiave simbolica di miti e racconti aventi per oggetto prodigi celesti e a ritenere che essi siano basati su veri e propri fenomeni naturali, ai quali l’uomo ha talvolta attribuito determinati significati simbolici, in senso positivo o negativo a seconda dei singoli casi.
Riassumiamo brevemente il contenuto dei singoli capitoli, soffermandoci su alcuni dettagli e approfittandone per apporre qualche nostro commento. Il libro si apre con un capitolo posto a mo’ di introduzione, in cui Baldini espone in generale il tema portante delle pagine successive e chiarisce il proprio intento di rileggere «i resoconti degli antichi “prodigi”, soprattutto quelli celesti, con mente critica ma aperta, senza avere sposato idee e maturato chiusure preconcette, ma con la sempre preziosa capacità di porsi domande» (p. 12). Ci teniamo a sottolineare che, tuttavia, non sono poi molte le domande che si pone l’autore in questo libro: egli sembra piuttosto limitarsi a elencare avvistamenti astronomici e notizie di strani avvenimenti, senza discutere a sufficienza il contenuto delle fonti prese in esame. Il secondo capitolo esamina il tema delle apparizioni celesti documentate nell’età antica e, nello specifico, fa riferimento al mondo greco-romano. Un paragrafo è dedicato al personaggio di Fetonte, il figlio di Helios che, secondo una celebre narrazione presente in diverse fonti, non fu in grado di condurre il carro del sole e, folgorato da Zeus, precipitò nel fiume Eridano (identificabile con il nostrano Po). Secondo la lettura di Baldini, tale mito «contiene riferimenti ad accadimenti catastrofici avvenuti sulla superficie del nostro pianeta, molto più riconducibili al ricordo della caduta di un asteroide, cometa o grande meteorite» (p. 19), ma ciò non può che rimanere sul vago piano delle ipotesi. L’autore passa quindi all’analisi di passi tratti dal Liber prodigiorum di Giulio Ossequente (IV sec.) nella versione di Licostene (1552), che integrò il testo originale attingendo da Tito Livio, Seneca, Plinio il Vecchio, Cicerone, Diodoro Siculo, Paolo Orosio e altri romani che hanno scritto di strani fuochi, oggetti sferici e discoidali, lance e scudi nel cielo. Segue un’appendice in cui vengono proposte le antiche testimonianze di comete e fenomeni del cielo raccolte a posteriori (1735) dal bolognese Antonio Ghislieri, richiamato dall’autore anche nei capitoli successivi. Seguendo l’ordine cronologico, il terzo capitolo verte sui prodigi celesti documentati tra l’Alto Medioevo e l’Anno Mille. Qui il focus viene posto sulla città di Ravenna, capitale del regno di Teodorico e centro culturale in cui si diffondevano saperi da ogni dove. Si fa riferimento al Liber pontificalis del ravennate Andrea Agnello, il quale parla di trombe che suonavano nel cielo e di sinistri spiriti combattenti a cavallo nell’aria in segno di cattivi presagi. Tali dettagli rimandano al classico tema della caccia selvaggia, assai diffuso nell’immaginario medievale. Riguardo ciò, Baldini afferma che «si può ragionevolmente pensare ad una interpretazione (debitrice anche delle mitologie pagane) di figure che in qualche modo si formavano e si muovevano in particolari situazioni atmosferiche e formazioni di nubi o, soprattutto, a fenomeni come le aurore boreali, con i loro straordinari giochi di luci e ombre» (p. 50).
Segue poi l’elenco delle comete e dei globi luminosi avvistati nel periodo altomedievale segnalati in biografie e cronache e nella Predizione della cometa dell’anno 1736 (Bologna 1735) del già menzionato Ghislieri. Fra i vari passi che Baldini cita di tale opera, di seguito ne riportiamo uno che troviamo significativo (p. 186 del trattato): «844: Fu osservata una cometa sopra Venere dal famoso Albumazare, per quanto riferiscono Cardano, Ticone, ed il Padre Cisato». Aggiungiamo che, nel periodo rinascimentale, il filosofo Giordano Bruno nel De immenso (IV, IX) fece uso dello stesso argomento per criticare la distinzione aristotelica tra cielo e sfera sublunare. Secondo Aristotele, auctoritas del mondo latino medievale (e a lungo anche nell’età moderna, come giustamente ribadisce Baldini più avanti), il mutamento e il moto rettilineo non possono avere luogo nella regione celeste. Dunque, la posizione di Albumasar sulle comete non poteva trovare un grande seguito nel Medioevo.
Nel capitolo quarto l’attenzione è spostata sui secoli XI, XII e XIII, in cui si passano in rassegna ulteriori avvistamenti di corpi celesti e fenomeni ignei, come le supernove del 1006 e del 1054. Vi è anche un interessante cenno al De essentia, motu et significatione cometarum di Giles di Lessines (m. 1304 ca.), che volle chiarire la natura non divina, bensì naturale delle comete. Fedele ad Aristotele, questo domenicano tomista considerava tali corpi come fenomeni sublunari e non celesti. Si passa quindi al capitolo quinto, dedicato ai secoli XIV e XV, periodo in cui fu visibile in più momenti la cometa di Halley, vista da molti come segno di sventura. Allo stesso modo, altre comete furono considerate segni della peste, come riportano varie testimonianze raccolte dall’autore in questa sezione.
Il capitolo sesto, incentrato sull’età moderna, è senza dubbio il più interessante del volume. In apertura troviamo una riflessione sul legame che all’epoca (e di fatto anche in precedenza) avevano l’astronomia, l’astrologia e la medicina: gli influssi astrali erano visti come la causa di squilibri umorali, che portavano a mutamenti dell’indole e dello stato di salute dell’uomo. Appoggiandosi alle riflessioni di Cesare Vasoli, Baldini parla dell’ingresso a corte degli astrologi e dell’importanza che i segni celesti hanno assunto nel contesto moderno, condizionando decisioni politiche e militari. Egli ricorda che accanto agli astrologi hanno cominciato ad emergere menti scientifiche che aspiravano a leggere i fenomeni celesti in chiave razionale e, in alcuni casi, a mettere in dubbio la visione aristotelica. La concezione delle comete come corpi sublunari, tuttavia, era ancora difesa da molti: l’autore ricorda le teorizzazioni presenti nel Dialogo meteorologico del ravennate Tommaso Tomai (1572) e nel Dialogo in materia delle comete del bagnacavallese Girolamo Sorboli (1578), i quali non si astenevano dall’interpretare le comete come segni di sventura, nonostante il loro approccio scientifico. L’avvistamento di una supernova nel 1572 portò l’astronomo danese Tycho Brahe a mettere in dubbio lo schema delle gerarchie celesti di Aristotele, ma la sua critica non fu accolta immediatamente dagli astronomi d’Europa e fra coloro che attaccarono Brahe vi fu anche il cesenate Scipione Chiaramonti, doverosamente ricordato dall’autore. Baldini mostra che, anche quando le concezioni aristoteliche iniziarono a cadere, gli scienziati faticarono a disancorarsi da esse: esemplare è il riportato caso di Geminiano Montanari, che nel 1664 o 1665 osservò una cometa e si accorse che questa era più distante della Luna rispetto alla Terra. Ciononostante, egli considerò tale oggetto come una condensazione dell’etere, cercando di spiegare la propria osservazione in termini aristotelici.
Oltre ai suddetti contenuti, in questo capitolo troviamo elencate le osservazioni di altri astronomi, tra cui Galileo e Giovanni Domenico Cassini. Eppure, ancora nel XVIII secolo, «le vecchie concezioni e la tendenza alle interpretazioni avventate e al “maraviglioso” erano […] dure a morire sia in certi ambienti “dotti” sia, a maggior ragione, fra gli strati popolari» (p. 161). In chiusura del libro viene posto un piccolo contributo di Andrea Casadio a proposito di due curiosi avvistamenti: si parla di globi luminosi a mezz’aria, uno avvistato a Forlì l’8 gennaio 1815 e l’altro ad Alfonsine il 7 luglio 1816. «In base ai dati in nostro possesso, è ovviamente velleitario dare una interpretazione certa a tali eventi» (p. 167), conclude Casadio, senza privare così queste testimonianze della loro carica di mistero.
In definitiva, ci sembra che le quasi duecento pagine che compongono Quel che vedevano in cielo non siano sufficienti a trattare il tema degli avvistamenti celesti. Le fonti sulle quali l’autore costruisce il proprio discorso sono troppe per essere presentate ed illustrate a dovere in uno spazio così ristretto. Mancano molti dettagli di contorno che avrebbero facilitato la comprensione di tali aspetti. Ad esempio, da un lato si parla dell’emergere di una nuova astronomia nell’età moderna, ma dall’altro non si fa menzione dell’evoluzione delle tecniche e degli strumenti scientifici nel corso dei secoli (anche se, d’altra parte, molti degli avvistamenti di comete riportati si basano su osservazioni ad occhio nudo).
A Baldini va riconosciuto il merito di aver raccolto numerosi riferimenti a comete ed altri prodigi celesti consultando fonti di diverse epoche, offrendo al lettore una panoramica generale su questo complesso argomento, eppure non viene presentata al lettore un’argomentazione ben strutturata: leggendo il testo, l’impressione è quella di trovarci di fronte ad un’antologia e non ad un vero e proprio saggio. Prevalgono le citazioni, e non ci riferiamo soltanto alla ripresa di fonti primarie, bensì anche ad ampi passi estrapolati dalle pubblicazioni di altri studiosi, con i quali l’autore frammenta le proprie riflessioni. La mancanza di sintesi e di rielaborazione delle informazioni incide sulla scorrevolezza della lettura e dà l’idea che il contributo dell’autore sia minimo in termini di novità. Baldini passa da una fonte all’altra, senza argomentare debitamente ogni singolo passo citato e senza contestualizzare a sufficienza i lavori citati. Troviamo utili raffronti, ad esempio nei casi in cui diverse fonti si riferiscono ad uno stesso fenomeno naturale, indicando però datazioni discordanti. Una riflessione sul significato che le comete assumono nel discorso cosmologico non figura prima del capitolo sesto, ma sarebbe stato doveroso riassumere almeno la concezione peripatetica nei capitoli precedenti. Del ruolo assunto dalle comete e dalle congiunzioni planetarie nell’astrologia divinatoria si parla solo in termini generali. Molti passi citati da Baldini sono ricchi di spunti di riflessione, come si è visto, eppure l’autore non sembra dilungarsi su questi aspetti.
Si segnala, inoltre, l’assenza di immagini (salvo quella in copertina): una mancanza non da poco, dato che fonti come il già menzionato trattato del Ghislieri sono ricche di illustrazioni astronomiche, che avrebbero potuto arricchire considerevolmente un testo come questo. Il libro di Baldini probabilmente non potrà soddisfare gli storici della scienza in cerca di nuovi indizi e informazioni dettagliate su opere a carattere astronomico e non sembrerà abbastanza accessibile al neofita che aspira a farsi una cultura di base sull’argomento trattato nel libro.