Alberto Giovanni Biuso è Professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna anche Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. Ha anche insegnato Epistemologia, Sociologia della cultura e Storia dell’estetica. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). Il suo sito web è www.biuso.eu

Recensione a: D. Miccione, Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, pref. di F. Coniglione, LetteredaQALAT, Caltagirone 2022, pp. 204, € 17,00.

Scritto tra il 2012 e il 2013, ma pensato negli anni precedenti, Lumpen Italia appare in una nuova edizione che ha avuto bisogno solo di qualche minimo aggiornamento statistico – il libro fornisce molti dati, molti numeri – e di una collocazione del web e dei social all’interno delle categorie con le quali aveva analizzato e interpretato l’avvento di una figura che va diventando sempre più consistente e pervasiva.

L’ignorante ipermoderno è il soggetto collettivo (composto come sempre da individui in carne e ossa, ma con tendenze fortemente simili) che fa della propria ignoranza non una vergogna, una sofferenza, un ostacolo ma l’espressione più ricca e costante della propria identità, del proprio essere e dell’essere percepito. Il sottoproletariato cognitivo è la classe sociale – trasversale a condizioni economiche, luoghi geografici e ideologie politiche – che implementa i modi di esistere e pensare dell’ignorante ipermoderno.

L’elemento ipermoderno e quello Lumpen (straccione/pezzente), si coagulano in numerosi elementi e manifestazioni, tra le quali sono centrali: 1) l’identificazione tra il vivere e l’acquistare/possedere/consumare oggetti ritenuti necessari al riconoscimento sociale; 2) l’aver sostituito in modo pressoché integrale il tempo alfabetico della lettura – lento, sequenziale, immaginativo di mondi – con il tempo iconico della televisione e di Internet.

L’ignorante ipermoderno è un iperconsumatore di oggetti e simboli (senza peraltro conoscere il significato di quest’ultimo concetto) anche e soprattutto perché consumatore di immagini televisive e digitali. In Italia, in particolare, è consumatore di un tipo di televisione la quale «fa leva sulle parti peggiori di ogni essere umano, sulla morbosità, sulla curiosità, sul volgare emotivismo, in breve su tutte le caratteristiche del sottoproletario cognitivo. La televisione se ne nutre e le nutre a sua volta» (p. 164). L’esistenza e l’imporsi del sottoproletariato cognitivo è indice del fallimento di un progetto di emancipazione dall’antico e ben noto plebeismo italico, che è fallimento di una politica – quella berlusconiana che si incarna nelle attuali sedicenti e vuote ‘destra’ e ‘sinistra’, del tutto congiunte nel sostegno a governi mediocri – la quale intuisce e sa che il finanziamento e la promozione della scuola, della lettura, di tutto ciò che si può riassumere nel termine cultura rappresenterebbe un rischio per la propria mano libera nel plasmare al ribasso la società italiana e il suo pensiero collettivo. Il risultato è la progressiva emarginazione, insignificanza, dissipatio di scuole e università, poiché «nessuna prolusione di preside o lezione di appassionato docente senza un cambiamento di investimenti può, sui grandi numeri, cambiare le cose» (p. 186).

I decisori politici, i loro consulenti ai ministeri dell’istruzione e dell’università, favoriscono invece sistematicamente nelle scuole il familismo cognitivo e nelle università la notte in cui tutti gli studenti sono uguali. Il familismo cognitivo reclama con aggressioni, intimidazioni e ricorsi, che i propri figli siano sempre premiati, promossi, sostenuti, anche e soprattutto quando non studiano, non capiscono, non si impegnano, disprezzano gli insegnanti e i libri. E dunque «fuori dai luoghi comuni e dal politicamente corretto, è necessario dire come il vero grande nemico della formazione degli studenti siano oggi le famiglie: famiglie disastrate di genitori disinteressati al profitto scolastico, maggiormente pronti a comprare cellulari che libri di testo, pronti a rivendicare diritti per i loro rampolli e mai a insegnare i doveri. I genitori, consapevoli o meno, costruiscono il fallimento umano dei loro figli perpetuando quest’Italia perennemente stracciona anche qualora sia benestante» (p. 83).

Tra le cinque proposte di Davide Miccione per contrastare il trionfo del sottoproletariato cognitivo: «I) Aumentare i finanziamenti per tutto il comparto cultura italiano. II) Il ritorno dei concorsi. III) Fuori la famiglia dalle scuole! IV) Denaro? Prima i figli a scuola. V) Lettere (alfabetiche) dal carcere?» (p. 183), uno dei più urgenti e concreti sembra proprio il terzo, poiché esso ha un significato che va molto al di là dell’insegnamento o dell’istituzione scolastica, in quanto «è indubbiamente questo scriteriato appoggio genitoriale di fronte a poteri neutri e terzi il momento germinale di costruzione dell’homo berlusconensis, quasi che l’amore si dovesse esprimere con l’omertosa complicità negli errori di chi ami» (p. 191).

L’ignoranza, come il sapere, si diffondono sempre ‘per li rami’. E quindi una scuola ricondotta e ridotta a luogo di intrattenimento e adulazione degli adolescenti non può che costituire una delle principali condizioni e cause di dissoluzione delle università come luoghi di alta cultura, di formazione dello spirito scientifico, di un abito critico, della consapevolezza del mondo.

La principale modalità di costruzione di una società di eguali che non siano equivalenti nel sonno della ragione e nella pratica dell’ignorare è un’università che riconosca e favorisca «la vera, unica e non immorale diseguaglianza, quella dei cervelli e delle volontà» (p. 61). Una simile pratica costituirebbe, certo, un ostacolo notevole al perpetuarsi delle diseguaglianze e dei privilegi di classe, di potere familiare, del tessuto di raccomandazioni piccole e grandi che impedisce alle persone di talento e di volontà di poter competere con quanti hanno semplicemente avuto la fortuna di nascere nella famiglia e nel contesto giusti per ottenere risultati anche senza intelligenza e senza sacrifici.

Come ricorda anche Francesco Coniglione nella prefazione alla nuova edizione, la funzione di riscatto sociale rappresentata da scuola e università «è stata progressivamente smantellata da quelle classi sociali privilegiate che non volevano che i propri rampolli subissero la concorrenza di coetanei di classi inferiori più bravi di loro» (p. 14). Dieci anni fa Miccione osservava icasticamente ed esattamente che la prassi delle università consisteva nel regalare «a tutti o quasi tutti una laurea, poi, per pochi, una cooptazione basata sul legame con chi è già dentro, per gli altri il nulla» (p. 56). E nella postfazione del 2022 riconosce che la situazione si è ulteriormente aggravata, tanto che «due laureati nella stessa disciplina con voti simili oggi possono presentare una tale differenza di struttura culturale e conoscenze di base da rendere il titolo di studio un elemento di riconoscibilità molto debole» (p. 202).

Da parte mia, aggiungo che in ogni caso i corpi collettivi seguono delle leggi non molto dissimili da quelle dei corpi fisici, essendo entrambi strutture materiche per quanto su livelli diversi di composizione molecolare. Tutte le società hanno infatti il bisogno di porre un filtro che riconosca la diversità dei loro membri, hanno bisogno di strutture di iniziazione, hanno bisogno di pratiche di esclusione per garantire l’articolazione del corpo sociale e il suo funzionamento. Il lento e inesorabile piano inclinato che almeno dalla riforma Berlinguer dell’anno 2000 alle successive (e soprattutto alle continue, piccole e meno piccole ‘riforme’ che incessantemente si susseguono, attuate dall’amministrazione e dai ministeri) ha visto estendersi e imporsi l’obbligo di promuovere tutti promuovere sempre sia nelle scuole sia negli esami universitari, oggi ha come risultato che chiunque si iscriva a un corso universitario prenderà una laurea, anche dopo vari anni ma la prenderà e in molti casi lo farà con un voto che da eccezione è diventato lo standard (110 e 110/lode). Parlo naturalmente per esperienza diretta nel mio Dipartimento (Disum), nella mia Università (Catania) e per testimonianze di colleghi e studenti di altri dipartimenti e atenei in tutta Italia. A questo proposito, segnalo un episodio accaduto a Catania ma emblematico dell’intera situazione nazionale: Tesi e mondi [https://www.aldousblog.it/single.php?id=135] (Aldous, 15.12.2022).

Si conferma quanto scrivevo in un saggio appunto pubblicato nel 2001: «Negli scorsi decenni ciò che chiamiamo cultura è stato visto da molti quasi soltanto come uno strumento di potere e di discriminazione. Nella impossibilità di elevare tutti al sapere, quanti hanno aderito a quella concezione hanno poi operato – consapevolmente o meno non ha importanza – allo scopo di distruggere la cultura come valore e di dequalificare scuole e università ponendole al servizio del ‘mondo del lavoro’, vale a dire del capitalismo globalizzatore dominato dagli Stati Uniti d’America. Questo è il vero significato delle riforme scolastiche in corso in Europa da alcuni anni, comprese quelle imposte in Italia dal ministro Berlinguer e dai suoi consiglieri-successori» (Sulla ‘Grande Riforma’ della scuola italiana, «Punti Critici», nn. 5/6, 2001, p. 163).

È adesso assai visibile un fenomeno che nel 2001 non era ancora apparso, un fenomeno che è tra gli effetti più devastanti della demagogia cognitivista. Esso consiste nel fatto che l’eliminazione di ogni filtro a scuola e nelle università ha prodotto un filtro feroce e implacabile nei dottorati di ricerca. Si offrono a chiunque, in cambio delle tasse di iscrizione, lauree svalutate e voti inflazionati – il 110 per tutti, Todos caballeros – ma poi ad accedere a quello che è ormai il vero titolo di studio superiore sono pochissimi, dato il numero sempre assai ridotto di posti di dottorato di ricerca messi a disposizione, e ancora meno quelli che prevedono una borsa di studio. È facile dedurne che a entrare nei dottorati sono anche delle persone tenaci, intelligenti e competenti, ma anche altre che vi accedono per meriti di diversa natura: familiari, di protezione politica, di raccomandazione di casta. Perché un filtro, prima o poi, si crea. E questo diventa un filtro particolarmente iniquo poiché senza un titolo di dottore di ricerca non è più possibile aspirare a entrare nei ruoli dell’insegnamento universitario.

Dove l’analisi, profonda per competenza e vibrante per passione, di Davide Miccione non mi convince è nella sua difesa della legge e delle norme come garanzia per tutti di equità e di giustizia. Una difesa che si è mostrata anch’essa una evanescente illusione. Abbiamo infatti visto negli ultimi anni che cosa possano diventare le norme e le leggi, e l’Autore lo sa sin troppo bene. Si conferma un elemento della saggezza greca, da Solone allo stesso Platone, nonostante il legalismo dell’ultimo suo dialogo. Un elemento che molte analisi politiche e sociologiche contemporanee confermano. Vale a dire che le leggi sono quasi sempre la sanzione di rapporti di forza e che da sole non garantiscono né sicurezza né giustizia. Se non “da sole”, accompagnate quindi da che cosa? Dall’elemento che per comodità e sintesi esplicativa posso chiamare ‘metapolitica’, vale a dire la formazione di cittadini e intellettuali capaci di decifrare il mondo e difendere la propria ed altrui libertà. Il libro di Miccione mostra con grande efficacia che la prima condizione per raggiungere tali difficili obiettivi è, semplicemente, la lettura, il silenzio, l’immaginare dentro di sé mondi e situazioni mentre si scorrono simboli alfabetici.

Leggere, persino una boiata, significa essere raggiungibili dalle idee, coltivare, per quanto male, i concetti, significa poter essere raggiunto dalla bellezza, poter raggiungere la comprensione dei nessi causali tra le cose, pensare il lontano nello spazio e nel tempo. […] Pensare che un uomo che legga, scriva, studi, possa pensare allo stesso modo di chi non ha mai letto nulla è una sorta di razzismo al contrario e sputa in faccia alla fatica che la cultura e la conoscenza hanno rappresentato nella vita di ognuno. In tempi di naturalismo, emotivismo, primitivismo, ‘mariadefilippismo’, ciò andrebbe sempre ricordato. […] I non lettori e i lettori non pensano nello stesso modo (pp. 166-168).

Leggere è la condizione per scrivere, per cercare di decifrare il mondo con il piccolo insieme di segni di una lingua, e per restituire ai lettori ciò che si pensa di aver compreso. Vale a dire, leggere è la condizione per essere degli intellettuali. Perché la scrittura è l’essenza del pensare, il geroglifico del mondo, la pienezza della mente, il lampeggiare dell’intelligenza, il senso di una vita umana capace di lasciare traccia di sé nel tempo al di là del tempo che si è.

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