Recensione a: A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 414, € 32,00.
In questo volume Alberto Giovanni Biuso fa molto di più che raccogliere testi pubblicati nel corso degli ultimi vent’anni: suggerisce un’idea di scrittura, di pensiero, e quindi di filosofia. Dopo aver pubblicato un libro dedicato all’intreccio tra temporalità e metafisica intitolato Aión. Teoria generale del tempo (Villaggio Maori, Catania 2016), prospettiva immanente, flussica e materialistica che ha avuto come prosecuzione e rielaborazione un esito per ora definitivo in Tempo e materia. Una metafisica (Leo S. Olschki, Firenze 2020), Biuso propone un’ultima fatica editoriale dedicata ancora una volta al tempo. A Chronos, che è da sempre uno dei nomi per dire la storia.
Questo libro non vuole essere una mera ricostruzione storico-manualistica, una prova didattica e divulgativa di storiografia filosofica, bensì un volume pensato, voluto e organizzato come una riflessione essenzialmente teoretica. Dico questo perché, pur nell’estrema varietà di temi e argomenti che il volume affronta, è riconoscibile una linea filosofica basale che affonda le sue radici in una prospettiva teoretica altrettanto riconoscibile, certamente da ricondurre a punti fermi della speculazione dell’Autore. Ecco il motivo per cui Chronos è più una questione di riflessi di storia della filosofia su una matrice teoretica fondamentale che di mappatura del pensiero in senso storicamente organizzato. Molti dei maggiori autori della storia del pensiero occidentale sono discussi e considerati nella loro complessità, talché il dialogo ermeneutico che intesse il testo costituisce uno dei suoi caratteri più esemplari: dai grandi tragici greci, Platone, Plotino, alla modernità di Machiavelli, Rousseau, Spinoza, Leopardi, fino a Nietzsche, Heidegger (a cui sono dedicati due intere sezioni), al Novecento di Arendt, Canetti, Ricœur e ad alcune filosofie e filosofi contemporanei come Eugenio Mazzarella. Autori la cui lettura è imprescindibile per la genesi di qualunque pensiero originale e che in questo caso non ne riceve il peso in maniera passiva ma lo rivitalizza, lo ringiovanisce, lo ripiega senza curvarlo arbitrariamente su alcuni concetti chiave.
Benché, come detto, l’arco temporale di redazione di questo volume sia molto ampio, lo stile di scrittura (tema affrontato e discusso in un capitolo), il rigore, l’interesse, la curiosità, il metodo sono rimasti intatti, inducendo il lettore alla considerazione che proprio queste sono le parole di un pensiero che non sia chiacchiera inconcludente, linguaggio privo di concetto e di significazione, quanto piuttosto di un logos che possa dire di se stesso di essere filosofico nel senso più pieno della parola, anche nella particolare accezione storico-teoretica.
Libri di questo genere manifestano anche la passione, la dedizione, la tenacia del filosofo immerso nella tradizione da cui, per poter essere pienamente rispettata, si deve emergere in modo diverso: un rimbalzo, se vogliamo anche ermeneutico, tra il lettore e la tradizione, tra il presente e la storia, che consente di generare un pensiero nuovo, dotato di dignità e di esistenza autonoma, che non si appiattisce sul passato ma lo rilancia nel cammino del pensiero che andando indietro ritrova sempre nuova freschezza dall’energia dello studio e della riflessione attuali. Avvicinarsi a un libro con questa impostazione vuol dire quindi toccare con mano un laboratorio di pensiero, in cui sono entrati a far parte, con la funzione del reagente che trasforma la materia con cui si viene in contatto, i capisaldi di quella riflessione, di quel modo di esistere e di sollevarsi dal mondo (nel duplice senso di sollievo e di elevazione), di quella gnosi profonda che chiamiamo filosofia. Questo rappresenta la fucina dell’idea in cui il filosofo batte la materia del pensiero al fuoco del concetto, della tradizione, degli autori con cui ci si sente in sintonia o distanti, ma sempre consapevoli della centralità del dialogo che per statuto deve oltrepassare la sterilità della lontananza e valorizzare la contraddizione.
Nell’attraversamento delle grandi tappe del pensiero filosofico occidentale, si può tentare allora, in questa storia della filosofia orientata, di individuare appunto le stelle ideali che ne hanno guidato il percorso, allo stesso modo in cui, con il Machiavelli a cui è dedicato un interessante capitolo sulla questione dell’animalità, è possibile nella storia tout court ricavare leggi, curve e andamenti regolari, che in questo caso specifico vogliono significare le linee concettuali di rifrazione a partire dalle quali questa storia filosofica, ermeneutica, laboratoriale e genesica ha potuto costituirsi.
Mi riferisco a poche ma centrali idee, che nella teoresi di Biuso sono quelle fondamentali di questo libro come della sua prospettiva. Dalla grecità, alla quale per l’autore è d’obbligo ritornare da un punto di vista sia metafisico che fenomenologico, ci separa un vero e proprio abisso, che solo un pensiero libero dai pregiudizi della modernità (soprattutto romantica) può nuovamente ottenere in tutta la sua purezza. Parlando di Euripide, Biuso afferma:
Un abisso c’è tra tale modo di intendere l’esistere e la sensibilità dell’Europa moderna. Un abisso tra questa potenza selvaggia dell’inevitabile e la compassione universale verso gli umani; tra la consapevolezza di quanto gratuito, insensato e terribile sia lo stare al mondo e il luna park moralistico e sentimentale che sostiene il valore sacro di ogni umano (p. 60).
La sapienza antica che sa molto più dell’umano rispetto all’oggi così stupidamente presuntuoso, e che sa soprattutto nel senso della saggezza, data da una parte dall’identità politeistica di cui «il paganesimo offre la serenità dell’inevitabile e relativizza le pretese di assoluto» (p. 28) e dall’altra dall’essere consapevoli «di costituire un trascurabile errore della materia» (p. 20). Sapienza che, socraticamente, è tale per il riconoscimento della propria ignoranza, di essere più precisamente ignoranza incarnata, «una goccia del Sacro annegata nel mare dell’ignoranza» (p. 29).
Questo, in estrema sintesi, è lo spazio che separa la concezione della grecità da quella dei contemporanei, un saggio disincanto che prende la vita per quella è, accidentale, effimera, ma comunque rispettabile per la possibilità che ha di potersi avvedere di tutto questo, e che riconosce qualcosa che, pur essendo immanente, la trascende in quanto tutto perfetto di cui è parte, come Biuso fa ben intendere commentando la filosofia lucreziana: «Alle paure trascendenti e immanenti, alle sconvolgenti passioni, all’inevitabilità della fine di ogni cosa, l’epicureo Lucrezio oppone la serenità della materia, la dolcezza del nulla» (p. 92), che tradotto in termini esistenziali, stavolta con Plotino, vuol dire «l’autarchia dell’uomo divenuto finalmente saggio, di colui che nel geroglifico degli innumerevoli segni sa intravedere un percorso di salvezza per sé» (p. 100).
Questi aspetti della grecità filosofica (e per alcuni aspetti anche romana con Lucrezio, essendo il poeta latino imbevuto di epicureismo e quindi di ellenismo) si ritrovano, secondo Biuso, anche nella metafisica di Spinoza, il cui progetto teoretico è esistenziale, inserito nel solco degli antichi stoici come padronanza delle passioni unicamente derivante dalla loro conoscenza, ma soprattutto ontologico e in vista dell’intero, a proposito di cui il filosofo olandese invita sempre a guardare l’umano come un ente inserito nel suo ordinamento. Spinoza, pur nel suo ferreo determinismo e nella ferma negazione del libero arbitrio, resta, come sottolinea l’autore, il pensatore della libertà e dell’emancipazione, del dominio della ragione sulla superstizione, dell’immanenza, del kairós:
Chi vuole infatti essere libero deve vivere nell’immanenza, nella pienezza del qui e ora. Se non si confondono tra loro durata e eternità si intuisce che l’esistenza di ogni ente, noi compresi, è eterna, poiché se le modalità singole si generano e si dissolvono esse accadono comunque all’interno di una struttura che in quanto tale e nella sua interezza è eterna (p. 129).
Da qui discende una delle definizioni più belle di filosofia che vengono formulate in questo libro: «La filosofia è come un imparare a nuotare diventando una cosa sola con l’acqua in cui si è immersi» (p. 130). Significa accettare la finitudine e la parzialità dell’ente che l’umano è, affrancarsi dalle passioni tentando di conoscerle quanto più possibile, sentirsi come parte del tutto avveduta di sé ma non per questo privilegiata o emergente, perché comprendere questo, che la «materia inorganica è massa ed è energia, è sempre in divenire ed è sempre potenza», è «qualcosa che può dare solo pace, finalmente» (p. 137).
Quest’ultima può dirsi una delle maggiori acquisizioni delle prospettive tentate in questo libro, ma più in generale della filosofia: ottenere lo stesso attributo che specifica e sostanzia il tutto, quella pace, calma e serenità che rappresentano un dono che solo la teoresi, quand’è realmente tale, può elargire. Ed è quello che bisogna adoperare, per continuare con Leopardi e Camus e le radici gnostiche del loro pensiero, «affinché il demone della nascita non prevalga ancora una volta, affinché sulla sua sconfitta si possa stendere la potenza del pensare, lo splendore della materia, della sua entropia, dell’“infinita vanità del tutto”» (p. 156). Perché, parafrasando Sofocle con un lessico heideggeriano: «La filosofia è un tentativo di tornare allo splendore da cui proveniamo e dal quale siamo stati gettati in questo mondo amaro, dando un senso prima di tutto alla morte e al tempo, che della morte è l’altro nome» (p. 213).
Molti altri sarebbero i motivi di discussione all’interno di questo libro, di cui finora ho tentato di prendere tra le dita uno dei suoi possibili fili conduttori. Voglio isolarne un altro, credo il più importante, che ha la sua ragion d’essere nel divenire come storia e nella storia come divenire che ci suggerisce il titolo, ma in misura più importante nel sottotitolo, nell’essenza stessa della filosofia come temporalità compresa e come scrittura. Molte sono, infatti, le definizioni della scrittura che Biuso dà nel corso di queste pagine, direi anzi dell’ansia temporale dell’umano di cui la filosofia è una risposta e la scrittura è una forma, forse la più compiuta.
Biuso lo dice con Vidal, autore di un bellissimo romanzo su Giuliano, l’imperatore apostata, «nella convinzione che i libri sconfiggano la morte pur non potendo sconfiggere il tempo» (p. 19); lo ripete con Leopardi, per cui la filosofia e la poesia salvano dal male intrinseco dell’esistere, talché «in particolare è la scrittura che salva, la scrittura limpida e densa che emerge dal manoscritto dello Zibaldone» (p. 145); lo ribadisce con Borges: «Scrivere di filosofia significa mappare l’intera realtà, l’essere e il divenire poggiandosi sulla materia del mondo e rimanendone però separati da uno strato di teoresi» (p. 272); lo riformula con e a partire da Nietzsche, affermando che «non si dà distanza tra il pensare e lo scrivere, che la filosofia è pensiero che accade nel suo farsi scrittura. La ragione principale risiede nel fatto che in generale la scrittura umana è il più potente tentativo di decifrare l’enigma del divenire. La scrittura filosofica è questo tentativo al massimo della sua tensione e dei suoi risultati» (p. 279); lo sigla con Canetti: «È la scrittura il nemico della morte» (p. 328). A cui bisogna aggiungere l’imprimatur definitivo di Proust, una vita diventata opera letteraria e filosofica, un mezzo per la conoscenza, secondo il quale la scrittura-filosofia «sta sotto il segno di una gnosi radicale, quella che sa riconoscere nel geroglifico frammentato e disperso della materia e dei corpi l’unità molteplice del Tempo signore» (p. 249).