Antonio Messina (1989) è Ph.D. Student in Scienze Politiche all’Università di Catania e Visiting Ph.D. Fellow presso l'Università di Leiden (Paesi Bassi). È redattore del semestrale «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee», da lui fondato; è socio della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO) e dell’Istituto euro-arabo di Mazara del Vallo. È membro del comitato scientifico della rivista «La Razón histórica: revista hispanoamericana de historia de las ideas políticas y sociales». I suoi principali interessi concernono la filosofia politica, la geopolitica, e la storia delle dottrine politiche, con particolare riferimento alla storia intellettuale dei regimi autocratici. Tra le sue pubblicazioni: L'economia nello stato totalitario fascista (Ariccia 2017); Giovanni Gentile. Il pensiero politico. Scritti e discorsi 1899-1944 (Roma 2019); Comprendere il Novecento tra storia e scienze sociali. La ricerca di A. James Gregor (Soveria Mannelli 2021).

A cura di Antonio Messina

Antonio Alosco, già docente di storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, è autore di diversi libri. Tra i più recenti: Socialismo tricolore. Da Garibaldi a Bissolati, da Mussolini a Craxi (2018); Pietro Nenni. Un protagonista fuori dal mito (2019); I socialfascisti. Continuità tra socialismo e fascismo (2021); Riccardo Lombardi. Un personaggio amletico (2022); Francesco De Martino: un intellettuale politico (2022). Ha scritto molti saggi di storia contemporanea su numerose riviste di prestigio. Oltre a «Nord e Sud» di F. Compagna, «Nuova Antologia» di G. Spadolini, «Prospettive Settanta» e «L’Acropoli» di G. Galasso, si ricorda soprattutto «Storia contemporanea» (Il Mulino), diretta da Renzo De Felice, di cui è stato per molti anni collaboratore. Nel 2020, ha pubblicato sulla rivista «Forum Italicum. A Journal of Italian Studies» di New York il saggio Il percorso socialista di Gabriele d’Annunzio tra storia e letteratura. Ha inoltre curato la pubblicazione degli scritti politici di Francesco De Martino in quattro volumi e collabora agli Annali dell’Istituto Ugo La Malfa. È autore di diverse voci del Dizionario Bibliografico degli Italiani (Enciclopedia Treccani). Le sue opere sono reperibili in molte biblioteche italiane e straniere, soprattutto americane, in primo luogo nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

1. Nel suo volume (I socialfascisti. Continuità tra socialismo e fascismo, D’Amico Editore, Nocera Superiore 2021) lei traccia una continuità tra socialismo e fascismo, ricollegandosi in questo modo ad un filone di studi che ha avuto tra i suoi più illustri esponenti Domenico Settembrini, Augusto Del Noce, Zeev Sternhell, A. James Gregor e, forse in misura minore, Renzo De Felice. Perché questo tipo di interpretazione non trova un ampio consenso presso la più recente ed egemonica storiografia sul fascismo?

Ne I socialfascisti c’è molto di De Felice, del suo metodo di indagine storiografica e della sua visione complessiva del fascismo. Non poteva essere diversamente dal momento che sono stato suo allievo e collaboratore.

La “vulgata” interpretativa del fascismo, a senso unico, ideologizzata e con scarso rigore scientifico, trova giustificazione nell’egemonia culturale del Partito Comunista. I libri e i saggi scritti per decenni da pseudostorici andrebbero, tranne qualche rara eccezione, non solo corretti in larga misura, ma mandati al macero. Gli storici legati al PCI, che su questi scritti hanno costruito carriere universitarie di prestigio, sono invece ancora oggi considerati i ‘Soloni’ della ricerca storica senza alcun merito.

2. Ci potrebbe spiegare in che modo e con quale consistenza si può parlare di continuità ideologica tra socialismo e fascismo e perché quest’ultimo viene invece identificato con la destra?

Più che di continuità ideologica tra socialismo e fascismo, si può parlare di continuità storica, nel senso che sia nei programmi dei Fasci di Combattimento sia nell’opera del regime trovarono posto e soprattutto vennero realizzate riforme dell’assetto dello Stato (corporativismo) e sociali (Carta del Lavoro) da sempre propugnate dal socialismo italiano e mai realizzate. Il movimento e il regime mussoliniano, così come asserisce De Felice per quanto riguarda gli esordi, con vigore dei fatti, vanno considerati progressisti, tendenti cioè a sinistra. La vera destra conservatrice e stagnante è quella che si pone, oggi come ieri, a sinistra, senza esserlo.

3. La sua ricerca sembrerebbe aver trascurato l’apporto filosofico della scuola idealistica, Giovanni Gentile e Ugo Spirito in testa, che in tempi e modi differenti hanno stabilito delle connessioni teoriche tra fascismo e socialismo. Come spiegare questa, almeno apparente, lacuna?

La mia non è stata una lacuna, in quanto ho voluto dare un taglio diverso alla mia ricerca. Dimostrare cioè storicamente continuità nei fatti tra socialismo e fascismo, soprattutto attraverso l’adesione di personalità socialiste di primo piano al regime, oltre a quella convinta massa di socialisti che nel 1919 aveva votato per il PSI, e della quasi totalità del popolo italiano. Particolare rilevanza assumono poi le vicende della Confederazione Generale del Lavoro (CGL), alquanto inedite e oscurate in tale contesto. Che senso avrebbe avuto dimostrare le assonanze filosofiche e ideologiche tra socialismo e fascismo se, una volta giunto al potere, il fascismo non avesse realizzato quelle riforme a carattere sociale da sempre nei programmi socialisti? Solo una continuità nelle chiacchiere.

Le idee di Gentile e di Spirito nel mio libro vengono acquisite in modo aprioristico. Aggiungo, per quanto riguarda Spirito (di cui tra l’altro ho sempre avuto interesse fin dagli studi universitari), che ho voluto rinnovare la mia attenzione pubblicando nella Collana storica “Renzo De Felice” che dirigo per l’Editore D’Amico un libro di notevole spessore culturale, di prossima uscita, della professoressa Clementina Gily, già collaboratrice della Fondazione Ugo Spirito.

4. Lo studioso americano A. James Gregor aveva definito il fascismo una “eresia del marxismo”, espressione che è stata criticata da Emilio Gentile, il quale ha preferito parlare di “apostasia del marxismo”, nel senso che il fascismo avrebbe rinnegato tutti i postulati marxisti. Cosa ne pensa a riguardo?

Più che parlare di ‘eresia’ o ‘apostasia’ del marxismo, direi che il marxismo sia stato sempre sostanzialmente estraneo alle concezioni di Mussolini. Il socialismo italiano delle origini, al quale aveva aderito da giovane il futuro Duce, aveva una doppia matrice, quella di tipo anarchico (abbandonata all’atto della fondazione del Partito) e quella mazziniana (Arturo Labriola, Bissolati, Ruggiero Greco, Nenni). Marx nel socialismo delle origini era considerato una sorta di primus inter pares, nulla di più. Solo dopo la rivoluzione bolscevica, il pensatore tedesco assunse la supremazia anche nel socialismo italiano, che si convertì al bolscevismo, che al confronto è tutt’altra cosa.

5. A suo giudizio anche il nazionalsocialismo di Hitler era imparentato con il socialismo o si trattava di qualcosa di completamente differente?

Per quanto concerne il nazionalsocialismo tedesco, esso – come dimostra De Felice nella sua famosa Intervista sul fascismo – rappresenta qualcosa del tutto differente. Il nazismo era rivolto al passato, alla tradizione teutonica, il fascismo proteso verso l’avvenire. L’alleanza alquanto innaturale fu dovuta a contingenze storiche.

6. È possibile secondo lei tracciare delle similitudini tra l’Italia fascista e l’Unione Sovietica o a prevalere erano più le divergenze che le somiglianze?

Le divergenze tra il fascismo e il bolscevismo sono, a mio parere, inconciliabili. Innanzitutto, la base dell’economia dei due Paesi differisce del tutto. In Italia durante il fascismo sopravvisse l’economia di mercato, anche se vi fu un dirigismo da parte dello Stato (IRI, AGIP). In quella sovietica viene invece cancellata forzatamente ogni seppur minima imprenditoria privata, e ciò provoca carestie e morte.

Tranne qualche similitudine (dittatura, partito unico), i due regimi non hanno altri elementi comuni. Il bolscevismo stalinista (da cui neppure Lenin era esente) produsse una feroce dittatura poliziesca di tipo asiatico, senza un reale consenso, di cui invece godette il regime mussoliniano. Si veda a tale riguardo l’adesione degli ucraini all’invasore germanico accettato come liberatore. Solo successivamente vi fu la resistenza del popolo russo, che non aveva alternative in quanto Hitler non volle inquadrare i disertori sovietici tra i suoi combattenti. Il regime sovietico produsse inoltre i campi di concentramento in Siberia (copiati poi da Hitler) e persecuzioni di ogni genere.

Tutt’altro clima in Italia. Il consenso era reale e palpabile. Qualche raro oppositore veniva inviato al confino, che era più una villeggiatura che non un carcere, in luoghi che oggi sono di turismo pregiato. In confino era consentito avere permessi e visite dei familiari, altro che campo di concentramento!

La “bonomia” di Mussolini viene ormai riconosciuta. Il Duce non ha mai ucciso nessuno. Anzi, ha salvato dalla morte il suo ex-amico Nenni; Riccardo Lombardi (su richiesta della famiglia); Giuliano Vassalli (per intercessione del Vaticano) e molti altri. A Zaniboni (suo fallito attentatore) sovvenzionò gli studi della figlia.

7. Nel suo libro non ha citato la vicenda di Stanis Ruinas e della rivista Pensiero Nazionale, che dapprima rappresentò il progetto illusorio di creare una “Sinistra nazionale” e poi servì per traghettare i fascisti nelle fila del PCI. Secondo lei la vicenda di Ruinas conferma l’esistenza di una continuità tra socialismo e fascismo?

Per quanto riguarda la mancata citazione di Stanis Ruinas, essa è stata voluta, perché il libro si occupa della continuità tra socialismo e fascismo, non tra fascismo e comunismo. D’altronde, nel secondo dopoguerra Ruinas fondò la rivista Pensiero Nazionale (di cui il sottoscritto conserva ancora qualche copia) con i rubli, anzi i dollari sovietici di cui disponeva il PCI. Pertanto ogni suo pensiero, alquanto interessante nel periodo fascista, decade del tutto di ogni sia pur minima considerazione.

8. Mussolini concepiva il fascismo come un socialismo nazionale e totalitario, l’unica forma di socialismo attuabile nel ventesimo secolo, eppure il Novecento ha visto la fine di tutte le ideologie a vocazione totalitaria. Secondo lei, esistono ancora delle concrete possibilità che l’Europa riviva l’esperienza di un regime rivoluzionario a partito unico?

Mussolini effettivamente concepiva il fascismo come nazionale e totalitario. Nazionale lo fu nella realtà. Pur perseguendo invece la totalità, il regime non fu mai totalitario. Certo, c’era la dittatura, al cui vertice vi era però un dittatore illuminato. In Italia vi era – come si suol dire – una dittatura “all’italiana”. Esisteva la Corona con le sue attrattive: si veda il suo decisivo ruolo nella congiura del 25 luglio che portò alla caduta del regime. Vi era la Chiesa, che contendeva al regime l’educazione soprattutto dei giovani; esisteva ancora, nonostante le purghe, la Massoneria, che agiva sempre, seppure sotto traccia, alla quale del resto aderivano molti gerarchi e buona parte degli alti gradi delle Forze armate. Si può parlare quindi di uno Stato autoritario, dittatoriale, non totalitario, come in Germania e in Unione Sovietica.

Circa la possibilità che l’Europa riviva l’esperienza di un regime rivoluzionario a partito unico, la mia opinione è che essa si sia definitivamente conclusa nel 1945 e che non sia assolutamente ripetibile. Non nego che in alcune regioni o aree possano affermarsi gruppi o movimenti politici di carattere autoritario, ma essi non avrebbero alcun collegamento con la storia passata.

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