Enrico Moncado (1995) è dottorando in Scienze dell’Interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, con un progetto di ricerca dal titolo Genesi e struttura escatologica del seynsgeschichtliches Denken di Martin Heidegger. Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, la filosofia della storia e la filosofia della religione, con particolare riguardo ad autori come Heidegger, Löwith, Taubes, Schmitt, Jünger. Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni per diverse riviste, come «Vita pensata», «Segni e comprensione», «Mondi e movimenti simbolici e sociali dell’uomo», «Gente di fotografia», «Il manifesto». Dal 2022 è cultore della materia in filosofia teoretica (Disum, Università di Catania; titolare della cattedra: Prof. Alberto Giovanni Biuso). Fa parte della Società italiana di Filosofia Teoretica (SiFIT) e ha contribuito alla fondazione dell’Associazione degli studenti di filosofia Unict (Asfu), della quale è stato presidente dal 2019 al 2021.

Recensione a: D. Miccione, Guida filosofica alla sopravvivenza, pref. di A.G. Biuso, Algra Editore, Viagrande 2022, pp. 128, € 12,00

In un passo abbastanza noto dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, la filosofia viene definita come il proprio tempo appreso con il pensiero. Il risvolto interessante di questa affermazione si esprime nel fatto che compito del filosofo, e quindi di chi tende al sapere, è innanzitutto di imparare a stare nel proprio tempo. Questo lo si può fare soltanto attraverso l’esercizio del pensiero come prassi incarnata, vale a dire attraverso un pensare che sappia misurarsi di volta in volta con la potenza del tempo, che consiste di eventi e processi in continuo mutamento, grandi o piccoli che siano nella loro portata. Il pensiero, in tal senso, non è soltanto mero apprendimento ma è una radicale messa in discussione della configurazione attuale del tempo. Come si impara, difatti, a stare e a sopravvivere filosoficamente nel tempo se non mediante un pensamento costante e insieme radicale del proprio tempo? E, tuttavia, che ne è oggi del pensiero?

Queste due domande riescono, forse, a restituire la tonalità fondamentale della Guida filosofica alla sopravvivenza di Davide Miccione, che a distanza di quasi dodici anni dalla sua prima pubblicazione torna a parlarci – arricchita da una serie di Supplementi e di una Prefazione a cura di Alberto Giovanni Biuso – della necessità del pensiero e del suo (quasi) tramonto.

 Di necessità e di tramonto parla la Guida filosofica alla sopravvivenza giacché è proprio la necessità del pensiero che sembra oggi attraversare una fase di declino che, per molti versi, poco suscita l’interesse o l’indignazione di chi – almeno per professione – pratica il pensiero, vale a dire il filosofo o ciò che ne rimane nelle vesti dell’«impiegato filosofico» (p. 121). Ed è proprio a questa prima figura dello spirito contemporaneo che Miccione rivolge una critica serrata, giacché chi altri se non il filosofo di oggi incarna più di tutti la profonda scissione che vige fra la necessità ideale (quando viene percepita) di una vita realmente pensata e l’obbligo di condurre una vita sempre meno pensata, poiché vieppiù dedita a una completa burocratizzazione e specializzazione del sapere?

Tale scissione, tuttavia, non concerne solo e soltanto il filosofo ma ogni singolo individuo. Come gli abitati di Dromania – città ‘immaginaria’ preconizzata da Miccione – le nostre vite sono infatti quasi irreversibilmente segnate dalla velocità, dalla ripetibilità e dalla inconsistenza delle decisioni, e quindi da una profonda incapacità di pensare e comprendere la nostra posizione nello spazio e nel tempo. In questo flusso di tempo sempre più accelerato e sempre più concentrato restano solo pochi e sparuti momenti nei quali si possa davvero entrare in quella condizione di perplessità e di distacco che pone le reali condizioni per pensare. Rispetto a questa forma di eterno presente, il pensare stesso in quanto espressione di un contro-tempo rappresenta un pericolo che solo pochi intendono correre, anche a costo di subire le più nefaste conseguenze, come quella di essere presi, in un contesto sociale sempre più uniforme e oppressivo, per pazzi, dissidenti o semplicemente malati. A tal proposito sostiene l’autore che «chi nutre un interesse a pensare la propria esistenza fino in fondo è consigliabile che viva nascostamente» (p. 19). Vivere nascostamente non significa di certo assumere come condizione e stile di vita l’isolamento, ma vuol dire invece saper mantenere, come il Waldganger jüngeriano, la giusta misura e la giusta distanza rispetto a ciò che di volta in volta si impone. Saper stare su questa soglia è anche un modo per riuscire a sopravvivere al proprio tempo, e così comprenderlo, superarlo, abitarlo.

Con questa distanza Miccione tratta di una delle figure più pervasive del nostro tempo, vale a dire la tecnica – che mai dall’autore viene respinta o banalmente disprezzata. La trasformazione infatti della vita in un flusso dove decisioni, pensieri, azioni e comportamenti sembrano assumere il carattere dell’unità e dell’indistinguibilità è anche frutto del modo in cui l’umano ha compreso e trasformato, lungo la storia, la dimensione tecnica della sua esistenza. Che l’umano sia già da sempre un animale (antropo)tecnico è qualcosa di scontato, come ci ha mostrato Sloterdijk. Tuttavia che la completa spiritualizzazione della tecnicità umana – spiritualizzazione intesa come volontà di superamento dei propri limiti attraverso l’affidamento e la remissione della propria tecnicità alla presunta perfezione del totalmente altro da sé (la macchina)  – diventi oramai un nuovo bisogno dello spirito contemporaneo, testimonia quanto perversa, folle e insensata sia, per dirla con Severino, la tendenza fondamentale del nostro tempo.

Misura della propria esistenza e dunque del proprio essere al mondo non è più di fatto una certa idea pensata, vissuta e sentita di ‘umano’ bensì è lo standard tecnologico, con i suoi tempi di rinnovamento che eludono ogni possibile maturazione interiore o che, di converso, trasformano ogni singolo individuo in un ‘eiaculatore precoce’ di parole, immagini, pensieri: «Senza tempi morti, senza privacy, trasformando ogni minima riflessione in azione (post, tweet, foto), dove mai dovrebbe collocarsi il pensiero?» (p. 121).  Il tempo della tecnica, in questo senso, è un tempo senza tempo, un tempo che proprio perché è accelerato a dismisura è un non-tempo. Nella pura accelerazione non si dà nessuna consapevolezza. Nella pura accelerazione non resta infatti che correre, senza sapere perché e in quale direzione si corre.

Della non neutralità della tecnica e dell’oggetto tecnico, come già da tempo Heidegger e Anders hanno intuito, Miccione tratta mostrando come il nostro rapporto con le cose, con gli oggetti, con gli strumenti non è del tutto rimesso all’uso che noi ne facciamo bensì a come l’oggetto è pensato per essere usato. È infatti davvero puerile e illusorio ritenere che l’oggetto tecnico può essere limitato, contenuto e dunque controllato in base all’uso che il singolo decide di farne. Invero, ogni oggetto è in sé foriero di un suo ‘uso’ che crea e produce forme di vita. La non neutralità della tecnica implica giocoforza la non neutralità di ogni oggetto tecnico, in quanto «gli oggetti hanno un loro uso preferenziale, tendenziale, vogliono essere usati in un certo modo» (pp. 40-41). E invece ci riteniamo padroni assoluti di ciò che usiamo, senza comprendere quanto in realtà le cose incidano sulla nostra esperienza del mondo, e senza capire, in fin dei conti, come il mondo in sé si costituisca in base al nostro abitare insieme alle cose. Abitare che, grazie all’uso dei medium tecnologici, risulta sempre più povero di mondo.

L’illusione, inoltre, che la tecnica, o più correttamente la tecnologia, possa rappresentare tout court un miglioramento o un progresso nell’esistenza umana è il risvolto ovvio dell’oramai pervasivo desiderio di trasumanare e di rimuovere dalle nostre vite non solo ogni limite (il corpo, la morte, la finitudine) ma anche ogni possibile esperienza della fatica e del dolore. È questo un tema al quale Miccione dedica delle acutissime analisi. Secondo l’autore la ‘innocua’ e ‘utile’ strumentazione di cui ci avvaliamo quotidianamente non fa altro che ridurre quell’esperienza dell’attrito, della resistenza, della difficoltà che segna ogni attività umana e che sola consente un miglioramento creativo di se stessi:

L’idea dominante è che la tecnica possa supplire ai nostri difetti meglio del lungo, fastidioso, estenuante esercizio. Il faticoso esercizio si fa stupido sotto i nostri occhi, non è più un percorso di miglioramento né qualcosa che abbia una sua utilità ma soltanto uno strano hobby (p. 33).

Perché, infatti, immergersi in compiti ardui, complessi e stancanti quando c’è uno strumento che può fare tutto ciò senza il minimo sforzo? Va da sé che questo modo di (de)pensare del ‘tecnopellegrino’ – oggi divenuto un «tecnostanziale» (p. 124) – è ciò che legittima l’ingiustificabile e inutile quantità di migliorie tecniche che il mercato ci offre, sotto la veste del nuovo, per rendere le nostre vite meno faticose e più smart, e dunque per renderci meno pensanti e più ebeti.

Alla rimozione della fatica si deve accostare l’aspirazione a cancellare il dolore – quel dolore che è la vita ab origine. Come sostiene Miccione e come anche confermano alcune recenti considerazioni di Byung-chul Han, «il mondo occidentale vuole eliminare il dolore» (p. 53), vuole eliminare la finitudine, la caducità dell’esistere, e su tutto aspira a cancellare la morte in quanto massima espressione della natura imperfetta dell’umano. Tutto ciò non può che condurre a una completa ascesi tecnica in quanto rimozione del Sé dall’esperienza, allo stesso modo di un avatar che vive, progetta e agisce senza tuttavia sentire e percepire lo sforzo e il dolore che il vivere, il progettare e l’agire nel mondo comportano. Ed è soprattutto per tali motivi che, secondo Miccione, è necessario difendere un’‘etica agonistica’ basata sulla «pratica della fatica, dell’agone con le cose» (p. 45).

Questo tramonto dell’Occidente, che è più un misero declino sociale e culturale, si invera in un’altra figura dello spirito contemporaneo: la salute. La salute, in realtà, è una figura sommersa, nascosta e quasi perduta rispetto alla concezione molteplice e unitaria che già i Greci possedevano di essa. Salute significa oggi terapia, guarigione bio-chimica della vita da se stessa, dalla vita dunque che è malattia. La volontà di superare il dolore non può che essere l’altra faccia dell’incapacità generale di pensare il negativo della vita. È più facile infatti scaricare la negatività che intride l’umano su una qualche malattia (la nota depressione), che tentare di avvicinarsi a una qualche idea di salute che contempli l’unità e insieme la conflittualità di tutti gli stati che il corpo vive, sente, percepisce. È più facile – anche in termini di pratica medica – limitarsi a ritenere che la condizione di base dell’umano sia la malattia e non la salute. La salute, di fatto, «costringerebbe a partire mentalmente da una configurazione in positivo dell’uomo. La malattia invece permette di concentrarsi sulle sue evidenze sintomatologiche senza troppo costruire» (p. 71).

Nonostante l’autore non ne parli nel testo – per ovvie ragioni cronologiche –, lo scenario iperpanottico che si è aperto negli ultimi due anni non solo trova le sue ragioni in ciò che Miccione chiama ‘mondoterapizzazione’, ma anche nella illusoria e davvero malata idea di salute che ha guidato, e in parte tuttora guida, le autorità governative. Se la salute coincide con la perfetta guarigione o con un perfetto stato di asetticità corporale, è chiaro che è d’obbligo sopprimere scientificamente ogni diversa prassi non solo di vita ma anche di pensiero che non sottostia all’assunto per il quale esistere significa essere anzitutto clinicamente sani. Tuttavia, affinché questo paradigma viga è necessario ritenere che ogni singola persona, se non l’intera collettività, sia a priori malata. Su questa concezione si fonda il doppio vincolo fra autoritarismo e paternalismo. L’autorità, convinta della condizione di minorità dell’umano, si erge a padre, guaritore, medico igienista capace di istituire sicurezza e pace laddove vige il male/malattia nel corpo sociale. La scienza (parola-totem) concorre radicalmente a dare credito a questa prassi autoritaria, ai suoi strumenti, alle sue paranoie, al fine di porre quella patina di incontrovertibilità su ogni decisione politica – così venendo meno non solo il senso stesso dell’agire scientifico ma anche di quello politico.

A corollario di queste ipotesi sull’attuale barbarie dell’Occidente, sulla tecnica e sulla salute vi sono due parole: sicurezza e corporeità. È ormai chiaro che il bisogno primario che sempre più va innestandosi al cuore dell’Occidente è una spietata volontà di sicurezza, per la quale si è disposti a pagare anche il costo più alto, come quello della libertà. Questa volontà si esprime infatti come sicurezza dalla vita, sicurezza dal dolore e dalla fatica, sicurezza dalla salute/malattia, sicurezza, in una parola, dal corpo e dalle sue libertà fondamentali.

Si tratta davvero di una battaglia contro la corporeità che ormai da anni va rafforzandosi e che trova sostegno teorico nel transumanismo per il quale il corpo è segno di una profonda degradazione che va superata mediante l’ibridazione, mediante dunque la sostituzione del corpo con delle protesi macchiniche atte a potenziare la componente ‘spirituale’ dell’umano. Ritenere infatti che il corpo sia semplicemente una base hardware infinitamente potenziabile e sostituibile in funzione di una maggiore adattabilità a software sempre più aggiornati, significa perdere il senso stesso della corporeità che siamo, la quale è fatta innanzitutto di limite, finitudine, presenza. Alla base di tutto ciò non può che esservi l’istanza del tutto chiara di divenire meno umani e più subumani, giacché «bisogna dunque perdere il corpo, i suoi limiti e l’emotività che ad esso si accompagna» (p. 128).

Sono questi alcuni degli argomenti di cui la Guida filosofica alla sopravvivenza di Miccione tratta in modo sapiente e lungimirante. Tuttavia, ritornando all’incipit hegeliano di queste considerazioni, credo che l’autore voglia suggerire che sopravvivere filosoficamente significhi sopra-vivere, cioè vivere al di sopra di ciò che il proprio tempo presenta come verità inconcusse, e per fare ciò è necessario imparare a pensare, ad apprendere il proprio tempo per riuscire a ottenere quella veduta che dall’alto permette di cogliere le cose nella loro interezza. Pensare il proprio tempo significa anche essere disposti alla fatica, al dolore, al conflitto. Come giustamente nota Biuso nella prefazione al testo, «la Guida di Miccione è un’apologia del conflitto» (p. 11).

Del resto che senso avrebbe la sopravvivenza filosofica senza la sua intrinseca prassi del conflitto? In questi termini, a conclusione della lettura della Guida non si tratta di condividere le tesi del suo autore, ma attraverso la Guida ci si deve incamminare lungo i sentieri dell’agone, del trauma, del negativo del pensiero, della sua prassi e della sua fatica di stare nelle cose, di capirle, di apprenderle allo scopo di metterle in discussione. Ritengo, infine, che siano questi alcuni motivi che fanno della Guida un esempio lucido e fecondo di come si possa sopravvivere al proprio tempo, nonostante tutto.

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