Valerio Vagnoli (1952) si è laureato in letteratura italiana moderna e contemporanea con Luigi Baldacci. Dal 1973 al 2007 ha insegnato in tutti gli ordini di scuola, inclusi gli istituti penitenziari di Firenze. Rimane fondamentale la sua esperienza di maestro nel carcere minorile e nella sezione femminile del carcere di Sollicciano (sembra sia stato il primo docente maschio a ricoprire questo ruolo in Italia) ove peraltro incontrò e lavorò con Antonio Gelardi, già allora un illuminato giovane vicedirettore e in seguito uno dei direttori carcerari più innovatori del nostro Paese. Dal 2007 ha diretto scuole di ogni ordine e indirizzo chiudendo dopo 44 anni la propria attività all'Istituto professionale Saffi di Firenze. E, non a caso, sull'importanza di ricostruire una autentica formazione professionale nel nostro Paese continua a mantenere un costante e motivato impegno. Ha fatto parte del “Gruppo di Firenze” e collabora da tempo con quotidiani e riviste.
Come da calendario, sono stati resi noti i risultati delle prove Invalsi svolte su un vasto campione di studenti dei tre ordini di scuola. E, come immaginavamo, fotografano una situazione ancora più drammatica rispetto a quelle del passato. A renderla tale, soprattutto per la scuola media e superiore, l’aver adottato in questi due anni di Covid la didattica a distanza anziché cercare di tenere il più a lungo possibile i ragazzi a scuola. Didattica a distanza ostinatamente imposta, anche a livello locale, senza neanche provare a proporre alternative che, a mio parere, potevano pur essere adottate. In primo luogo, attraverso i doppi turni o almeno con il prolungamento degli ultimi due anni e conseguente anticipo di entrambi.
Vale comunque la pena di ricordare che nell’analisi di questi spaventosi risultati dovremmo tener conto anche degli anni precedenti al Covid, che i nostri studenti hanno passato tra i banchi di scuola: anni che evidentemente non sono riusciti a dare a moltissimi di loro quelle basi necessarie per acquisire almeno un minimo di competenze di base. Per il resto, senza entrare nello specifico dei risultati facilmente reperibili direttamente sul sito Invalsi o sui resoconti dei giornali, è sufficiente citare il titolo apparso sul “Corriere della sera on line” lo stesso giorno della diffusione dei dati: «Alla maturità metà degli studenti ne sa come in terza media». Insomma, il disastro ha purtroppo radici antiche.
Da decenni, infatti, come abbiamo nel tempo stigmatizzato, sia i rilevamenti statistici sia la realtà vissuta a lungo e direttamente all’interno delle scuole, confermano la totale inadeguatezza del nostro sistema scolastico a cui nessuno, nel tempo, ha pensato di porre rimedio. Anzi, quando si è voluta prendere qualche misura “innovativa” si è sempre fatto ricorso a iniziative demagogiche e populiste, irresponsabili e degne solo di una classe dirigente incapace e per niente preoccupata di quella che è la reale condizione del nostro sistema formativo. Basti pensare alla banalizzazione degli esami, anche quest’anno consapevolmente adottata dall’attuale ministro che ha negato il ricorso ai compiti scritti e che confermando l’ormai consolidata burla delle “tesine” si è accontentato, beato lui, “di sentire tanti ragazzi e i temi che propongono” per essere trattati nei loro lavori, svolti, naturalmente, a casa propria e “argomentati” in un’ora scarsa di colloquio. E sconcertante è stato il comportamento di quelle commissioni che, a dispetto evidentemente della realtà fotografata dall’Invalsi, hanno elargito, come hanno riportato i giornali «raffiche mai viste di cento e di cento e lode».
Chi scrive è convinto che le bocciature non siano spesso lo strumento più opportuno per poter permettere ai ragazzi di recuperare le loro carenze e per motivarli allo studio e in generale alla scuola. Resta tuttavia il fatto che rispetto alla costante crescita degli “insuccessi” scolastici, si è intervenuti con misure che hanno finito per banalizzare la scuola e il ruolo dei docenti, facilitando in ogni modo le promozioni anche per non sfigurare rispetto alle percentuali, ben più alte, di promossi degli altri paesi europei. Così i ragazzi svantaggiati, di fatto, restano tali, quando riescono a sopravvivere, perché si ritrovano con un titolo di studio spesso del tutto regalato e, di fatto, privo di qualsiasi valore se non quello “legale”. E, nello stesso tempo, penalizzati risultano anche gli studenti più preparati e più motivati perché spesso costretti ad annoiarsi a causa della banalizzazione dei programmi di studio e del loro lento e ripetitivo svolgimento adottato dai docenti in modo da poter rendere, al ribasso naturalmente, quanto più omogenea possibile la preparazione (?) dell’intero gruppo classe. Senza contare che in molte scuole i docenti sono costretti a dedicare gran parte del loro tempo e della loro fatica per cercare di gestire la disciplina che in molte realtà delle nostre scuole impedisce loro di fare lezione: qualunque sia, beninteso, la strategia pensata e preparata per poterla svolgere. Così, nel tempo, anziché cercare di risolvere in profondità questi drammatici problemi, si è finito per incentivare una scuola che fosse sempre più assistenziale e intrattenitrice. Una sorta di inganna-tempo prima di abbandonare gli studenti alle incertezze della vita, resa ancora più precaria da una scuola che in realtà non risponde ai suoi fini istituzionali e costituzionali.
Così diventa sempre più impellente intervenire per invertire la linea sciagurata che ha portato a questo disastro, puntualmente certificato da tutti i dati Ocse e da tutte le prove Invalsi. A mio parere, sarebbe necessario intervenire soprattutto sulla nostra scuola superiore di primo e secondo grado che, a partire dalla gestione degli orari, sembra non tener conto di quelli che sono i tempi adatti all’apprendimento scolastico. La compressione, da parte di quasi tutte le scuole, dell’orario in cinque giorni mi sembra profondamente errata, soprattutto quando l’orario è di 30 e più ore alla settimana. I tempi per un equilibrato apprendimento, come affermava un mio vecchio maestro, non sono quelli del calcio bensì quelli del ciclismo. Tempi lunghi, meditati e organizzati che diano ai ragazzi l’opportunità di riflettere e di avere in qualsiasi momento le opportune energie per poter essere realmente presenti e attivi rispetto a ciò che stiamo loro proponendo.
Duole dirlo, ma spesso, troppo spesso, la nostra scuola è organizzata innanzitutto per accontentare il personale scolastico piuttosto che pensare all’interesse dei propri allievi. Avere tutti il sabato libero accontenta la quasi totalità dei docenti e dei dirigenti i quali, peraltro, non devono così affrontare l’annoso e cavilloso problema dell’orario dei loro insegnanti. Ancora più grave e pedagogicamente crudele è costringere gli allievi di scuole professionali con 34-35 ore settimanali a comprimerle in cinque giorni, obbligandoli così a rientri pomeridiani che per molti di loro comportano una lontananza da casa anche per dodici ore al giorno mangiando, quando va bene, di fretta un panino.
Tornando ai problemi della scuola media, mi sembrerebbe necessario responsabilizzarla finalmente per quanto concerne l’orientamento: sia attraverso una didattica specifica che porti i ragazzi di quell’età anche a visitare i diversi luoghi di lavoro o esercitando al suo interno attività laboratoriali, sia dandole un ruolo diretto, specifico e di responsabilità per individuare il futuro scolastico dei suoi allievi. Perché questo abbia un senso è anche opportuno che negli indirizzi superiori vi sia un ventaglio molto più preciso e coerente con le diverse abilità e inclinazioni dei nostri ragazzi. Malgrado nei paesi europei e in alcune regioni italiane la formazione professionale funzioni benissimo, la grandissima parte delle nostre regioni preferisce tuttavia obbligare i ragazzi a frequentare istituti professionali mascherati da licei di quart’ordine e utili soprattutto a dare occupazione a molti, troppi, docenti altrimenti perdenti il posto.
Per le scuole superiori occorrerebbe molto altro, ma soprattutto una strada che impedisca le attuali, malgrado il proliferare della pedagogia buonista, inaccettabili percentuali di bocciati e di Neet, e che soprattutto garantisca una scuola di altra qualità e di altro spessore rispetto a quella attuale. La cosa più sensata per poter andare in questa direzione mi sembra quella indicata a suo tempo dal Gruppo di Firenze e dall’Associazione Condorcet che propone di abolire, nel triennio delle superiori, le classi, a favore di una organizzazione centrata sui corsi disciplinari. Senza entrare nello specifico della proposta, il modello a cui si fa riferimento è quello finlandese, da decenni il più avanzato a livello mondiale e che permetterebbe di non ripetere un intero anno per insufficienze in una o più di materie. Attraverso una struttura scolastica per corsi disciplinari, alla fine di ogni corso l’allievo sosterrà una prova d’esame perché si verifichi che siano garantiti almeno i livelli essenziali di sufficienza. Corsi che, se non superati, potranno essere ripetuti nello stesso anno scolastico. Ciascun allievo, inoltre, dovrebbe scegliere di approfondire una o più materie per le quali nutre maggior interesse e dovrebbe inoltre essere garantito, ai più bravi, di poter frequentare anche i corsi di livello superiore rispetto alla loro età in modo da poter realmente permettere loro di uscire da scuola con un anno di anticipo. Come ogni vera riforma, per poterla attuare si richiederanno anni di preparazione e di opportune sperimentazioni, come si conviene quando si tratta di organizzare un nuovo modello scolastico. Perché è dalla scuola, da una scuola davvero nuova e innovativa e fatta da docenti preparati e motivate, che si prepara il futuro di una società e non attraverso i decreti, le continue circolari, le futili promesse, i parossistici mutamenti delle sigle, gli esami ridotti a farsa, le sponsorizzazioni di presunte didattiche innovative o la burocratizzazione sempre più intollerabile del lavoro degli insegnanti. Ma i nostri governanti, tutti, hanno un’idea di come dovrà essere il futuro?
Temo purtroppo di no, visto come da tempo stanno trattando la nostra scuola che, del futuro, è il vero motore. Così, l’accontentarsi di farla sopravvivere nella confusione e nell’approssimazione, non può che precipitarci in una società altrettanto confusa e approssimativa.