Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2034). Ha svolto attività di ricerca presso l’Università di Torino e l’Università della Tuscia, ateneo nel quale è stato docente a contratto di Storia del pensiero politico. Tra le sue pubblicazioni: Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) eLa dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022) e Liberali, realisti e pluralisti. L’eredità di Isaiah Berlin per il XXI secolo(IPS Edizioni, 2024). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin – Monografie.
Recensione a: H.J. Morgenthau, R. Niebuhr, Morte nell’era nucleare. Il realismo politico di fronte alla bomba atomica, a cura di L.G. Castellin, Morcelliana Scholé, Brescia 2025, pp. 128, € 16,00.
La coincidenza dell’ottantesimo anniversario dal bombardamento statunitense su Hiroshima e Nagasaki con una congiuntura particolarmente conflittuale nei rapporti tra mondo occidentale e Russia conferisce un rilievo di attualità agli interventi – già di per sé significativi – sull’introduzione degli armamenti atomici espresse da Reinhold Niebuhr e da Hans J. Morgenthau negli anni più tesi della Guerra fredda. Quegli scritti sono ora pubblicati nel volume Morte nell’era nucleare. Il realismo politico di fronte alla bomba atomica, tradotti e precisamente presentati da Luca G. Castellin, curatore con Giovanni Dessì anche della recentissima antologia di saggi niebuhriani, pure questi finora inediti in italiano, Realismo cristiano e potere politico (Morcelliana Scholé, Brescia 2025), ottima introduzione al percorso e ai capisaldi intellettuali del teologo protestante americano.
Padre del novecentesco realismo politico di matrice agostiniana, Niebuhr segnalava limpidamente negli ultimi mesi del 1945 che l’energia atomica e le sue applicazioni belliche rappresentavano «una nuova e terrificante dimensione» nell’esperienza umana. Avevano infatti accresciuto lo scarto tra il «potere tecnico» già posseduto e la capacità di padroneggiarlo e porlo «sotto il controllo di uno scopo morale e di una giustizia comune». E l’incontrollato dispiegamento della totalizzante «logica storica implicita nella civiltà tecnica», incrementando smisuratamente le capacità umane, quasi fisiologicamente si era manifestato sul piano militare quale «guerra “totale”». L’epoca che, si presumeva, «attraverso il dominio della scienza della natura, avrebbe portato la completa sicurezza all’essere umano» e conseguenze «automaticamente benefiche» si era perciò rivelata quella in cui «la scienza ha prodotto la bomba atomica e ha inghiottito le nazioni in un’isteria indotta dalla paura», per Niebuhr non immotivata, «di incappare in una guerra atomica e in una distruzione reciproca».
Una speranza che allora si affacciò fu che tale timore (diffuso ancor prima che gli Stati Uniti perdessero, nel 1949, il “vantaggio” del possesso esclusivo di un arsenale nucleare) inducesse anzi alla pace, conferendo il controllo esclusivo del potere militare a quello che il teologo definiva «un governo universale stabile». Al riguardo vanno tenuti in speciale considerazione i progetti elaborati da Bertrand Russell, recentemente analizzati da Alberto Castelli in Bertrand Russell’s Commitment against Atomic Warfare, saggio contenuto, assieme a quelli di Giunia Gatta, Micaela Latini e Francesco Raschi circa le riflessioni sulla questione atomica svolte rispettivamente da Karl Jaspers, Günther Anders e Raymond Aron, nell’interessantissimo volume Four Philosophers and the Bomb (Routledge, New York – London 2025). Per Niebuhr, però, quella prospettiva era contraddetta dalla non universalità della «mente politica», «organicamente legata alle speranze, alle paure e alle ambizioni delle nazioni», e certo non era agevolata dalla diffidenza tra Unione Sovietica e Occidente, che viceversa aveva spalancato un abisso nella comunità mondiale non colmato dall’istituzione dell’Onu. I «pericoli estremi», concernessero pure la scomparsa della civiltà, asseriva Niebuhr, continuavano ad avere «un’influenza meno vivace sull’immaginazione umana rispetto ai risentimenti e agli attriti immediati, per quanto piccoli al confronto».
Del resto, non gli appariva di facile realizzazione nemmeno l’accordo sulla «messa al bando della bomba», che avrebbe richiesto un sistema di ispezioni internazionali tale da acuire le frizioni internazionali e i rischi di conflitto. Né, posto nel 1950 di fronte allo sviluppo americano – non democraticamente discusso – della bomba H, Niebuhr condivideva la convinzione dei pacifisti sull’efficacia e sulla praticabilità del disarmo unilaterale da parte del blocco occidentale. Non soltanto, egli credeva, l’Urss, per nulla intenerita dal gesto della propria controparte, avrebbe approfittato dell’opportunità per «portare la sua peculiare redenzione al mondo intero». Ma, esplicitando anche in questa occasione il discrimine morale tra la condizione individuale e quella sociale (si pensi al suo Moral Man and Immoral Society del 1932), ribadiva che, mentre era perfettamente ipotizzabile l’abnegazione del singolo, «nessuno statista responsabile» si sarebbe assunto «il rischio di mettere la propria nazione in una posizione di totale impotenza», esponendone il modo di vita alla soppressione e l’esistenza stessa all’annientamento. Nondimeno, rivedendo effettivamente l’impostazione adottata qualche anno prima circa l’atomica, egli giudicava più saggio che gli Usa – oltre a contrastare l’avversario sul terreno etico, economico e politico, piuttosto che su quello meramente militare – accogliessero la proposta, giunta dal mondo scientifico, di impegnarsi a non servirsi per primi del nuovo, e ancor più letale, armamento: a non «far perire e l’anima e il corpo» altrui e propri. Qui Niebuhr individuava il «punto di trascendenza morale sul destino storico», negato invece, per opposte motivazioni, dai «perfettisti morali» e dai «cinici». Anche lo scienziato politico Morgenthau, giunto negli Stati Uniti dalla natia Germania per sfuggire alla persecuzione antisemita e sin dagli anni Quaranta attratto dalla prospettiva di Niebuhr, metteva alla berlina il «nuovo pacifismo» del disarmo e della moral suasion, ossia – scriveva – dell’«impotenza». Nondimeno, negli anni della dottrina eisenhoweriana della “rappresaglia massiccia”, l’autore di Politics Among Nations contestava la scarsa flessibilità alla quale l’Occidente si era costretto riducendo le strutture militari tradizionali e identificando «la forza con la forza atomica», difficilmente impiegabile senza condurre alla «distruzione universale».
All’indagine sulle implicazioni esistenziali di questa possibilità, ormai perennemente presente, Morgenthau dedicava nel 1961 le pagine di Death in the Nuclear Age, le più intense della raccolta che da esse trae il titolo. L’era nucleare, egli constatava, aveva palesemente mutato i rapporti interpersonali e tra il genere umano e la natura, e, con la concentrazione del «potere distruttivo», le relazioni intergovernative e tra i governi e i propri popoli. «Meno evidente e più importante» era però che essa aveva «cambiato il rapporto dell’uomo con se stesso», «dando alla morte un nuovo significato». La morte, spiegava Morgenthau, era «lo scandalo nell’esperienza umana», giacché negava i tratti peculiari della specie: «la coscienza di sé e del mondo, il ricordo delle cose passate e l’anticipazione di quelle a venire, una creatività nel pensiero e nell’azione che aspira e si avvicina all’eterno». Eppure gli esseri umani avevano escogitato molteplici espedienti per trascendere la propria scomparsa: «controllarne l’arrivo» attraverso il suicidio o il sacrificio, affermare la sopravvivenza dell’anima al termine dell’esistenza biologica, o perpetuare l’esistenza nei ricordi, nelle immagini e negli artefatti lasciati nel mondo. Nell’epoca della secolarizzazione, il primo e il terzo stratagemma avevano ancora mantenuto una certa validità. Ma la facoltà tecnica dello sterminio su scala industriale e della «distruzione nucleare» avevano estinto tanto l’eroismo del sacrificio di sé quanto la previsione oraziana dell’immortalità, l’Exegi monumentum aere perennius:
L’uomo dà un senso alla sua vita e alla sua morte grazie alla sua capacità di far ricordare se stesso e le sue opere dopo la morte. Patroclo muore per essere vendicato da Achille. Ettore muore per essere pianto da Priamo. Ma se Patroclo, Ettore e tutti coloro che potevano ricordarli venissero uccisi contemporaneamente che ne sarebbe del significato della morte di Patroclo e di Ettore? Le loro vite e le loro morti perderebbero il loro significato. Morirebbero, non come uomini ma come bestie, uccisi in massa, e ciò che verrebbe ricordato sarebbe la quantità degli uccisi – sei, venti, cinquanta milioni – non la qualità della morte rispetto a quella di un altro.
La comunione di idee tra Niebuhr e Morgenthau – a parte, disse il teologo, «alcune differenze periferiche» – si evince nel loro dialogo del 1967 su L’etica della guerra e della pace nell’era nucleare. Infatti, persuasi della prevalenza dell’«egoismo nazionale» su qualsiasi «principio di giustizia astratta», entrambi contestavano le inintenzionali conseguenze negative dell’ingenuo moralismo politico («È significativo che l’uomo moralista sia considerato il principale artefice del male perché è inconsapevole del male che si annida nel suo “bene”», sentenziava il teologo) e l’ipocrisia degli argomenti idealistici che, come quelli addotti per la prosecuzione del disastroso intervento americano in Vietnam, celavano le ragioni del «prestigio imperiale o nazionale» se non del «potere imperiale». Perciò ritenevano oltre l’orizzonte ipotizzabile l’istituzione di una «pace perfetta», magari garantita dalla costituzione di una democrazia mondiale: eventualità giudicata altrettanto “fantasiosa”, per la radice occidentale del regime democratico, quanto la globalizzazione del sistema comunista. E convenivano sulla maggiore urgenza di attenuare la competizione ideologica tra i due universalismi politici che si contendevano l’egemonia, «oliare la macchina» della diplomazia «che mantiene la pace e l’ordine tra le nazioni sovrane» e scongiurare il summum malum della «catastrofe militare».
Tali precetti, su cui il volume curato da Castellin ci consente ora di riflettere, meritano ancora oggi la massima considerazione. Ed è da supporre che la meriteranno finché, come Morgenthau lamentava nel 1961, prevarranno il rifiuto o l’indifferenza ad «adattare il pensiero e l’azione a condizioni radicalmente nuove», invece di giungere, oltre che alla riduzione reattiva delle aporie e alla prevenzione delle minacce sottese alle trasformazioni della tecnica, a orientarne responsabilmente, per quanto possibile, la direzione al fine di tesaurizzare favorevolmente le loro potenzialità.
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