Federico Nicolosi (2004) studia Filosofia presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università degli Studi di Catania. Si interessa di questioni concernenti la filosofia teoretica, con particolare riguardo all'ontologia e alla metafisica; attuali temi favoriti della sua ricerca sono il desiderio e il fenomeno amoroso all'interno di una prospettiva fenomenologica. È autore di articoli e saggi pubblicati e in fase di approvazione su diverse riviste scientifiche di area teoretica, tra cui "Il Pequod", "Dialoghi Mediterranei", "Vita Pensata", "In Circolo".
Recensione a: M. Mazzone, Razionali fino in fondo. Dal pensiero ideologico al pensiero critico, Quodlibet Studio, Macerata 2023, pp. 304 € .
Natura o cultura? Ragioni o passioni? Unità o molteplicità? È da queste diadi metafisiche, prima che epistemologiche, psicologiche, pedagogiche, che Razionali fino in fondo trae linfa teoretica e vigore argomentativo. Se la psicologia cognitiva ci dimostra che «i processi coscienti si limitano perlopiù ad accogliere i risultati degli automatismi, salvo che questi divergano dalle aspettative in modo così eclatante da imporre una significativa revisione» e se quindi «il pensiero critico comporta una sorta di innaturale (ossia, non spontanea) sospensione di questa tendenza al risparmio delle energie, così da attivare processi più robusti di controllo dei propri meccanismi automatici» (p.13), come esercitare tale ‘epochè’ (di cui tutti, almeno in potenza, siamo capaci) all’interno di quelle dinamiche di posizionamento sociale, politico e morale che pure definiscono così irriducibilmente l’identità umana? E che ruolo assegnare, in un processo di questo tipo, alla razionalità?
È anche e non solo a queste domande che il pensare rigoroso di Marco Mazzone si rivolge, in un libro che è capace di squadernare sine ira et studio l’umano fin nei gangli più profondi del suo essere, senza temere il confronto con la profonda illogicità che lo abita e che di fatto ne anima l’agire. E quindi è eminentemente teoretico, prima che pratico, il fine dell’autore di Razionali fino in fondo: si tratta, in sostanza, di indagare prima la natura umana e solo in un secondo (ma altrettanto imprescindibile) momento di tracciarne un’etica, una pedagogia o una prassi politica.
Cogliere questa sfumatura nella riflessione di Mazzone dovrebbe aiutare, in primo luogo, a comprendere come la distinzione tracciata all’inizio dell’opera tra ‘pensiero ideologico’ e ‘pensiero critico’ abbia valore perlopiù metodologico. Non soltanto, infatti, il pensiero ideologico non è da intendersi quale mero contraltare negativo del cosiddetto pensiero critico; bensì esso è – lungi da qualunque connotazione patologica – «semmai un tratto della nostra natura. Anche se, come ogni altro tratto della persona, può tracimare e produrre patologie» (p. 16).
Fisiologia e patologia scivolano, nel quotidiano vivere dell’umano, l’una dentro l’altra senza soluzione di continuità. Il punto non è, dunque, individuare il confine dove finisce la prima e inizia la seconda: è comprendere che, sì, esistono gli stati consci, ma che in prima istanza noi agiamo senza consapevolezza dei nostri scopi, mossi da euristiche frugali e pragmatiche, da bias ideologici e di conferma (cfr. pp. 71-73, 187-189); quindi decidere se limitarci a prenderne atto alla maniera di un ‘quietismo’ panglossiano oppure se sforzarci di trovare un modo per lavorarvi sopra (senza, beninteso, la pretesa di eliminare tout court la dimensione corporeo-emotiva che inevitabilmente denota il nostro essere in nome di un’astratta “Ragione”).
Come specie sociale, noi attribuiamo grande importanza al fatto che le nostre azioni sono soggette a giudizi di valore, e siamo spesso impegnati in pratiche discorsive nelle quali ci diciamo reciprocamente cosa è giusto o sbagliato, fornendo ragioni per questo. Tutto questo è oggetto di investimento emotivo: in altri termini, non avviene in modo neutro e indifferente per noi. Le assegnazioni di valore morale alle scelte e il fornire ragioni per queste assegnazioni sono accompagnati da un significativo coinvolgimento personale, sul piano emotivo. Noi in quanto persone ci identifichiamo con le nostre posizioni morali, e con le ragioni con cui le difendiamo. E siamo identificati socialmente con esse. È soprattutto così che costruiamo, e percepiamo, la nostra identità sociale (p. 80).
Ogni cosa “là fuori” innesca stimolazioni emotive in noi, positive o negative che siano. L’ego cogito extramondano che tutto conosce non è solamente un mito teoretico invalidante, ma è un grave fraintendimento del senso stesso dello stare al mondo: come tutti gli organismi viventi e non viventi, Homo sapiens è infatti in primo luogo un grumo di materia, un aggregato di atomi che occupa un certo spazio e che di tale condizione, diversamente da altri organismi, è consapevole. Ogni conoscenza passa dal suo corpo senziente (Leib) nella misura in cui emana da esso, e non semplicemente lo “attraversa”. È dunque «una partita che si gioca, in buona sostanza, interamente sul terreno delle emozioni» (p. 173).
Anche questo fa sì che il nostro agire sia sempre in certo modo morale (poiché, appunto, emotivamente situato) e che, di conseguenza, nessun culturalismo e nessun innatismo potranno mai rendere efficacemente conto di quell’essere che è ontologicamente culturale; vale a dire, culturale per natura. Non v’è ricorso al mero βίος che siamo, il quale possa adeguatamente motivare la nostra spiccata e ineludibile tendenza a tessere relazioni intersoggettive e a produrre continuamente simboli; non ricorso a spiegazioni sociologiche, il quale possa motivare che a districarsi in questo mondo morale, semantico, simbolico è sempre e di volta in volta un corpo. L’umano è In-der-Welt-Sein ed è Mitsein, è materia organica propriocettiva, corpomente consapevole di esserci in questo preciso luogo, in questo preciso momento e in questo preciso nesso di relazioni col mondo-altri. Il vacuo dualismo antropologico natura-cultura è, in parte, un riverbero delle dicotomie metafisiche soggetto-mondo e io-altri. È un tentativo, chiaramente insufficiente, di separare con la forza ciò che è uno pur non essendo il medesimo.
Proprio in ragione di ciò, proprio perché prima di “pensare” noi siamo, «il ragionamento è sensibile al contenuto. Anzi, si può forse essere più radicali: il ragionamento è strettamente dipendente dai contenuti. Esso non è governato da regole di inferenza astratte, bensì da conoscenze circa il modo in cui funzionano le cose in specifici domini di esperienza» (p. 109). Ignorare questo vuol dire perdere di vista il Wesen, ciò che realmente conta. Un travisamento radicale e pericoloso della natura umana che il Politically correct e l’ideologia Woke, cui il libro dedica quasi un intero capitolo, attuano con preoccupante sistematicità, sicché «in nome della libertà operano con sconsiderata energia contro le condizioni stesse della libertà» (K. Jaspers, Piccola scuola del pensiero filosofico, trad. di C. Mainoldi, SE, Milano 1998, p. 79).
A monte della pretesa di stabilire chi ha ragione nei conflitti ideologici, e non piuttosto quali siano le ragioni di ciascuno, a monte della più o meno deliberata «soppressione della complessità e contraddittorietà del reale, in favore di un’assunzione di profonda unità e coerenza» (p. 267) che si celano dietro le perentorie imposizioni linguistiche di queste ideologie, vi è difatti anzitutto un profondo misconoscimento dell’ontologia stessa dell’umano. Svuotare l’Identità della plurale e fisiologica Differenza che la intride, ipostatizzare il linguaggio spogliandolo del proprio contesto, trasformare semanticamente (e poi giuridicamente) legittime volizioni individuali in diritti naturali, vuol dire rinunciare all’umano simpliciter; vuol dire – il che è assai peggio – adombrare il senso più originario dell’essere.
Al di là del sensibile disagio pragmatico dovuto all’imposizione di improbabili formule che «pongono talvolta problemi non banali a chi scrive, e soprattutto complicano il lavoro di recupero semantico per chi legge, spezzando e allungando le frasi» (p. 270), ciò che sembra tenere insieme la molteplicità di pratiche sociali del Politically correct è in effetti una singolare insistenza sul linguaggio. La parola è, nella stragrande maggioranza dei casi, programmaticamente astratta dal proprio specifico ambiente sociale e dialogico affinché diventi offensiva (per un potenziale gruppo di individui) in sé, indipendentemente da chi, come, perché e quando la proferisca; indipendentemente dalla mia postura nel pronunciarla/rivolgerla, dal contesto in cui la pronuncio, dalla disposizione emotiva dell’ascoltatore, dalle finalità dietro il mio atto di proferirla. Ma «ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? – Nell’uso, esso vive. Ha in sé l’alito vitale? – O l’uso è il suo respiro?» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 2021, p. 149).
Gli oggetti sociali si moltiplicano a dismisura e, nell’apparente rivendicazione delle diversità – etniche, politiche, economiche, di genere –, un tacito trionfo dell’identità astratta prende forma. Il trionfo dell’omologazione e dell’in-differenza (ogni differenza deve essere identica alle altre, cioè non deve di fatto essere differenza). Una hegeliana ‘notte in cui tutte le vacche sono nere’. «Ben lungi dall’essere fluida, la modernità è l’epoca in cui le parole sono pietre, e in cui si attua l’incubo del verba manent» (M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari-Roma 2022, p. 78).
Lontana dal perseguire il suo proposito – quello di evitare “micro-aggressioni” –, la cancel culture elimina così ogni potenziale disagio o conflitto, non rendendo, come acutamente osserva l’autore, un buon servizio né alla cultura né alle persone. Il rischio, consustanziale al parlare (in quanto attività in cui ognuno di noi formula costantemente giudizi sul mondo) e dunque del tutto naturale, di offendere un punto di vista altrui è per così dire “curato” mediante l’escogitazione di un dominio lessicale ad hoc sul quale tutti concordino e al di fuori del quale si è considerati “dissidenti”. La complessità e metonimicità del linguaggio ordinario è ridotta a un desolante appiattimento semantico, la ricca stratificazione sociale a una sconfortante (nonché del tutto fittizia) uniformità. Insomma, «per quanto vi siano certamente differenze, c’è un elemento comune: l’interferenza impropria con la sfera della libertà individuale. Il PC [politically correct] pretende di prescrivere come dobbiamo parlare, e perseguita chiunque venga sospettato di non conformarsi» (p. 274).
Si lotta disperatamente, per dirla ancora con Jaspers, contro le condizioni della democrazia in nome della democrazia medesima. Si opera con animosa energia sulle parole, lasciando invariata la realtà. Si manipola ontologicamente l’umano a partire dal suo tratto più caratteristico, che è appunto il linguaggio. La risposta a un tale oblio dell’essere si chiama, ancora una volta, γνῶσις; è la conoscenza della meravigliosa complessità di Homo sapiens, che nessuna (pur comprensibile) esigenza di univocità e di coerenza potrà mai cancellare. È la γνῶσις con cui Marco Mazzone, in questo libro, guarda all’uomo e al suo essere sociale, politico ed etico, partendo sì da rilievi perlopiù psico-cognitivi, ma muovendosi di fatto in una comprensione sempre squisitamente teoretica del vivere umano.
Che ne è della ‘ragione’, rimane a questo punto da chiedersi? Essa non può qualificarsi, al netto di tali riflessioni, che come qualcosa di molto distante da un cieco Λόγος che sovrintenderebbe a ogni nostro dire e a ogni nostro pensare. Lungi dal costituire una qualità intrinseca al ragionamento, questa potrebbe meglio – benché meno “solennemente” – essere ridefinita come «un’istituzione che ha il compito di ospitare le istanze in conflitto e presiederne l’autonoma conciliazione, assicurando semplicemente che il confronto sia corretto» (p. 22). Dal momento in cui il nostro stare al mondo è essenzialmente presieduto dall’immediatezza della corporeità e dalla Befindlichkeit, cioè da una onnipresente situatività emotiva verso noi stessi e verso ciò che ci circonda, la razionalità andrebbe pertanto discussa più nei termini di un opportuno equilibrio tra istanze istintuali-emotive che nei termini di una facoltà connaturata al ragionamento umano. Nuovamente, si tratta di una partita che si disputa perlopiù sul campo delle emozioni.
Un punto di arrivo, insomma, più che un dato. Una attività, più che una disposizione. Un percorso faticoso e per certi aspetti “contronatura”, vista l’«inclinazione automatica a far prevalere il nostro punto di vista, nonché ad argomentare unilateralmente in funzione di questo obiettivo» (p. 34) che ci denota come animali parlanti. Eppure un’attività, un percorso che oggi più che mai è urgente ridestare e coltivare con coraggio. Un bisogno eminentemente pratico che Marco Mazzone rilancia con forza in ogni pagina di questo libro e che tuttavia non può essere in alcun modo soddisfatto senza una adeguata ricomprensione olistica, teoretica dell’umano e del senso della sua esistenza.
Razionali fino in fondo scandaglia ognuno di questi aspetti col rigore scientifico del filosofo che è in grado di guardare alla profonda irrazionalità dell’animale umano e non inorridire, di guardare alla molteplicità del reale e non fuggirla. In questo modo, Mazzone offre un significativo contributo teorico e insieme prassico al dibattito contemporaneo sulla democrazia, sulle sue fondamenta, sul suo significato, sulle sue proiezioni. Un contributo non soltanto (e, suggerirei, non primariamente) accademico, ma anche e soprattutto di interesse comune, oltre che eccezionalmente concreto nell’accezione più terre-à-terre del termine.