Luca Pesenti è professore associato di Sociologia generale nella Facoltà di Scienze Politiche e sociali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Sempre presso il medesimo Ateneo è direttore della Divisione "Nonprofit e impresa sociale" di ALTIS (Alta Scuola Impresa e Società), direttore scientifico dell'Executive Master "Terzo settore e Impresa Sociale", nonché membro del collegio docenti della Scuola di Dottorato in "Social Work and Personal Social Services". È altresì componente del Comitato Tecnico dell'Osservatorio sul lavoro agile nella PA, Ministero della Funzione Pubblica. Tra le sue numerose pubblicazioni, si ricordano: Protagonisti della rappresentanza. Viaggio esplorativo tra i delegati della Cisl lombarda (con I. Pais e G. Rovati; il Mulino, 2018); Food Poverty, food bank. Aiuti alimentari e inclusione sociale (Vita e Pensiero, 2015); Il welfare in azienda. Imprese «smart» e benessere dei lavoratori (Vita e Pensiero, 2019); Smart working reloaded. Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie (con G. Scansani;; Vita e Pensiero, 2022).

Lo slogan “più società, meno Stato” fu coniato alla fine degli anni Ottanta in ambito cattolico, a segnalare la necessità di una difesa dell’autonomia delle “comunità intermedie” come luogo di espressione massima della libertà umana, rinnovando una categoria classica della Dottrina sociale della Chiesa cattolica che guarda proprio alle comunità intermedie come ai luoghi il cui scopo principale è quello di “proteggere e integrare” la persona nei suoi rapporti con lo Stato. Da questa impostazione proviene la riscoperta, nel corso degli anni Novanta, del principio di sussidiarietà, divenuto una vera impalcatura ideologica della Presidenza di Roberto Formigoni alla Regione Lombardia, in seguito accolta anche in Costituzione nell’ambito della revisione del Titolo V avvenuta nel 2001.

Lo slogan “più società, meno Stato” è stato dunque un sintetico richiamo alla priorità da attribuire alle forze sociali e ai corpi intermedi, utile secondo i suoi promotori per rimettere in moto quel “capitale sociale” presente nella società italiana che era stato monopolizzato dai partiti della Prima Repubblica. Si tratta ancora oggi di una soluzione adeguata di fronte alla grande trasformazione che stiamo vivendo?

Il “passaggio d’epoca” in cui siamo immersi ha modificando profondamente le condizioni sociali, economiche e politiche in cui quello slogan fu coniato. Benché i segnali di pericolo si fossero già manifestati, con la tendenza all’aumento della ricorrenza di cicliche fasi recessive, ma anche all’indebolimento della coesione sociale e della partecipazione sociale, le “policrisi” (come le definisce Edgard Morin) iniziate con il 2008 rendono evidente che la globalizzazione non ha distribuito in modo equo le opportunità promesse, ma ha al contrario prodotto “perdenti” e “vincitori”. E proprio dalla gran parte di questi “perdenti” comincia ad avanzare una pressante richiesta di politiche protettive dai processi globalizzanti.

La promessa pacificatrice delle fratture novecentesche è stata dapprima sfidata dalla rivolta “populista”, ma anche questa formula sembra ormai essere in via di esaurimento, soppiantata da una prospettiva politica che si propone di intercettare una richiesta più profonda proveniente dalla società: una richiesta di protezione e controllo, che sta delineando un ritorno alla centralità dello Stato che non ha ancora acquisito una forma ideologica specifica, ma intercetta domande sociali precise che richiedono risposte politiche non garantite dai partiti tradizionali.

La dinamica sociale ed economica e quella politico-elettorale puntano dunque nella direzione di un passaggio tra due epoche (anche ideologiche): dall’epoca della libertà a quella della protezione, con una crescente richiesta di intervento statale (e la possibilità/rischio dell’imporsi di un neostatalismo). Al momento, la sensazione è che al di là dell’enfasi sul recupero del principio di sovranità come argine alla supremazia dell’economico sul politico, espresso in particolare dai partiti collocati alla destra dello schieramento politico, manchi una chiara idea rispetto a cosa debba effettivamente fare lo Stato. Si apre qui un nuovo fronte di riflessione sul come riaffermare un ruolo attivo dello Stato, senza rimettere in discussione gli indubbi guadagni determinati dall’attivazione della società civile e al tempo stesso aprendo la strada ad una ri-funzionalizzazione dei corpi intermedi (partiti e sindacati in primis) messi in discussione dalle spinte alla disintermediazione.

Siamo insomma alla ricerca di una nuova sintesi che vada pienamente nella direzione di una sussidiarietà orizzontale interpretata non solo nel senso della limitazione delle competenze, ma in senso attivo/promozionale, permettendo così di riaccoppiare Società e Stato dopo la lunga fase di disaccoppiamento generatasi dalla priorità assunta dall’asse Stato (regolatore)/Mercato.

Definiamo questa sintesi “più Società con lo Stato”. Con questo slogan possiamo re-interpretare le relazioni tra Società e Stato, in parte già alla luce di fenomeni emergenti empiricamente individuabili, nell’ambito di tre livelli di intervento: il livello micro (sfera della pubblica amministrazione locale), il livello intermedio (sfera delle politiche di protezione interna, tra cui spiccano le politiche di welfare) e il livello macro (sfera delle politiche di protezione esterna).

Il livello micro è l’ambito privilegiato in cui sviluppare nuove alleanze di tipo cooperativo tra pubblico e privato. Alcuni recenti sviluppi normativi e una decisa presa di posizione della Corte Costituzionale presentano i tratti di una sorta di “radicalizzazione della sussidiarietà”, segnalando la necessità di imboccare una logica di co-progettazione e co-programmazione che porti a reale compimento la logica dell’amministrazione condivisa attraverso logiche tanto di coinvolgimento quanto di “capacitazione” dei corpi intermedi.

A livello intermedio, “più Società con lo Stato” dovrebbe poter significare la riqualificazione del sistema di welfare nel suo complesso, attraverso un impianto di politiche pubbliche capaci di integrare la dimensione della protezione con quella della capacitazione e dell’attivazione dei soggetti della società civile. I primi segnali di un forte ritorno dello Stato impegnato a proteggere la Società appaiono tuttavia per lo meno contraddittori, se non apertamente debitori di un impianto welfarista più prossimo all’assistenzialismo che a quella “autodifesa della società” richiamata da Karl Polanyi nella seconda parte de La Grande Trasformazione. Il caso esemplare è quello del Reddito di Cittadinanza, la cui concezione originaria ha avuto come scontato esito quello dell’edificazione di una misura individualizzante e assistenzialista, senza peraltro riuscire a scalfire in modo significativo l’intensità e l’estensività del problema della povertà in Italia.

A livello macro, infine, si dovrebbero collocare al massimo grado le politiche protezioniste, capaci di definire un limite alla penetrazione di flussi globali fin qui non intaccati dalle politiche pubbliche e in grado di “spiazzare” la capacità di resilienza della Società (e, in aggiunta, del sistema economico dominato dalle Pmi). L’approccio protezionista è stato applicato prevalentemente in tema di difesa dei confini nell’ambito delle politiche di controllo dell’immigrazione, con non pochi elementi di problematicità ed elevata conflittualità politica e sociale. Le più recenti crisi (pandemia da covid-19 e crisi energetica) hanno allargato lo spettro, segnalando l’indispensabilità di un ruolo nuovo da parte degli Stati: sono infatti risultati certamente decisivi nel contenimento della pandemia (o, al contrario, parte del problema nel caso di misure inefficaci), seppur al costo di rilevanti (e talvolta contestate) limitazioni delle libertà fondamentali, mentre stanno provando a modificare i meccanismi di approvvigionamento delle fonti energetiche per limitare i danni determinati dalla crisi innescata dalla guerra in Ucraina e dal progressivo venir meno delle storiche forniture di gas di provenienza russa.

Di certo, è proprio su questo terzo e più strategico versante che il nuovo ruolo dello Stato fatica nel nostro Paese ad assumere una chiara fisionomia al di là del richiamo retorico alla “difesa dell’interesse nazionale”, stretto da un lato dalla crescente richiesta di protezione da parte della Società, dall’altro dai vincoli internazionali provenienti dal precedente assetto. I prossimi anni ci diranno se e come sarà possibile ripensare anche a questo livello un’idea di Stato capace al tempo stesso di proteggere la Società e agevolarne lo sviluppo, ultimo tassello di un cambio di paradigma che appare ormai inevitabile alla luce dei limiti di un modello globale che lascia sul campo numerosi problemi irrisolti.

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