Recensione a: L. Licitra, A. Sichera, Ritornare ai corpi. La politica tra paura e affidamento, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 100, € 9,00.
Il dibattito sull’Occidente è vecchio forse quanto l’Occidente stesso, la cui storia irta di conflitti, contraddizioni e vivacità ha comunque condotto l’uomo maturato all’interno del suo alveo a sentirsi erede di una tradizione in cui, pur abbracciando culture diverse tra di loro in una soluzione di convivenza che è molto più di questo, vi può ancora riconoscere la propria origine, un diretto rapporto di filiazione e una possibilità di vivere il mondo. E tuttavia, come ricordano Luca Licitra e Antonio Sichera, l’Occidente, tra le spinte ipertecnologiche della modernità e la dimenticanza del dialogo e del confronto con l’altro da sé che è stato da sempre costitutivo della sua identità e del suo progetto, sta rischiando di incrinarsi, o peggio di compromettersi del tutto, cedendo ad esempio a paradigmi extra-europei (se vogliamo anche degeneri) che ne hanno travisato il significato originario (penso, in primis, agli Stati Uniti d’America).
Il libro rappresenta quindi un sensato e importante richiamo all’identità occidentale, e fondamentalmente europea, attraverso alcuni dei suoi elementi fondativi, a cominciare dalla questione del corpo e della sua storia. L’indirizzo è chiarissimo sin dall’incipit: «Il nesso tra corpo e politica è antico e per certi versi indissolubile» (p. 9), come mostra una rapida ma non per questo non esaustiva ricostruzione storiografico-concettuale dell’organicismo dalla Grecia antica fino agli albori della modernità. L’Europa viene discussa come un corpo vivente, forgiato dall’energia intramontabile del mito tragico (l’Antigone e l’Orestea sono i principali punti di riferimento), dalla concezione romana dell’armonia politica (l’apologo di Menenio Agrippa) e dall’universalismo cristiano di Paolo, il quale vede nel corpo di Cristo l’intera umanità adamitica. Tutto questo, tradotto dagli autori in termini heideggeriani, significa porre convintamente l’accento sul Mit-sein, sul con-essere, sulla struttura dell’orizzonte delle relazioni umane più intima e fondamentale, quella su cui l’idea di Europa come corpo, potremmo dire, di cui tutti fanno parte e in cui tutti si riconoscono, è sorta e deve continuare a reggersi:
Si è chiamati perciò a vario titolo a una fiduciosa cooperazione in vista del bene comune. Il conflitto, la divisione (con i sentimenti negativi correlati) sono da considerare come forme di rottura che minano la positività dell’equilibrio fondativo. Non appartengono al Grund ma alla sua eventuale crisi. Possibilità accidentali e non sostanza (p. 16).
Sempre nella storia europea, au contraire, esiste in verità un’altra spinta, in qualche modo opposta a quella che ripercorrendo gli antichi si era visto essere fondata sul con e sulla fiducia in vista di un per. La paura insita innegabilmente nell’umano, che rimanda alla sua matrice biologica, direi anzi più precisamente animale, e che fu indagata in modo paradigmatico e difficilmente confutabile da Hobbes: essa avrà un impatto decisivo sulla speculazione successiva, per cui il conflitto, oltre ogni categorizzazione etica e valoriale, sarà ritenuto scintilla delle relazioni umane, dal Freud di Warum Krieg? al Canetti di Masse und Macht, passando da Schmitt, che assurge giustamente secondo gli autori a imprescindibile polo dialettico di discussione. È quindi
con l’avvento del moderno che l’organicismo muta di segno. Il presupposto di questo mutamento di segno è sempre piantato nel corpo, concepito ora come isolato e potenzialmente aggressivo. La relazione tra i corpi, se abbandonata a sé stessa, produce la guerra e la morte. Il politico rimedia alla paura, all’angoscia della relazione intercorporea creando un nesso simbiotico tra gli umani […] ovvero riducendo il soggetto individuo astratto, libero, economicamente isolato, privo di carne e di sentimenti positivi verso l’altro, e assumendo la politica come spazio di un corpus fittizio. Si tratta di due movimenti paralleli eppure convergenti. È Hobbes a stabilirne i presupposti (p. 20).
Nella nebulosa a tratti oscurante e vorticosa della modernità, segnata da periodi di aspre lotte e di sanguinosi conflitti, come viene ricordato dagli autori la storia mostra il con-essere degli umani in tutta la sua radicalità, in tutta la reciproca pericolosità che lo contraddistingue, sicché nel corpo collettivo subentra alla fiducia della ragione il primo dei concetti del libro in tensione tra di loro, appunto la paura: «Paura di perdere anzitutto la stessa vita (cioè il proprio corpo vivente) e poi di perdere le proprietà e le libertà» (p. 23), da cui discende la sovranità come istituzione a cui rimettere se stessi per garantirsi, nei termini degli autori a cui affidarsi, in un affidamento che però declina un tipo di reciprocità che soggioga il corpo collettivo sotto il segno della paura, del risentimento e del sospetto, «in cui l’affidamento è cieco e deresponsabilizzante» (p. 29).
Il corpo collettivo, in quanto corpo che pone se stesso nel sovrano, come viene spiegato ripercorrendo a grandi linee la Rivoluzione francese, diviene un corpo-macchina. Lo Stato diventa burocrazia, amministrazione, gestione fredda e calcolante a spese del corpo. Dalla desacralizzazione del corpo del sovrano, che incarna il corpo-macchina dello Stato, si acquisisce comunque con la Rivoluzione il dato del corpo sociale come possessore di diritti, di una comune aspirazione alla felicità. Ma anche qui gli autori evidenziano un grosso limite, derivato dal fatto che «la relazione che i giacobini immaginano tra i cittadini-sovrani, insomma, è immediata e simbiotica non meno di quella ipotizzata da Hobbes tra sudditi e sovrano» (p. 36).
Il laboratorio giuridico-costituzionale della Rivoluzione, che ha nei giacobini il punto più estremo, scava il solco nel quale si muoverà anche la dottrina statale del Novecento, segnatamente nei due maggiori giuristi e filosofi del diritto del secolo, Kelsen e Schmitt. Licitra e Sichera sottolineano come il purismo di Kelsen conduca ad una inevitabile astrazione dalla carne verso un’entità somma e ultra-potente, lo Stato come ordinamento giuridico perfettamente dispiegato in tutti i suoi ambiti, in cui però a mancare è l’ascolto del corpo, dei suoi bisogni: «La concretezza del corpo è esclusa da un’istituzione che per fondarsi è costretta a svuotarlo. Si tratta di una strategia narcisistica tendente al funzionamento “perfetto” e dunque alla considerazione del corpo di carne come un impaccio e un limite insostenibili» (p. 40). Più in generale, come sarà nel maggiore critico di Kelsen, Schmitt, e come si era già intravisto in Hobbes e nel padre della teoria economica moderna, Smith, la tendenza comune è quella all’astratto, al voler fare a meno del Leibkörper, in una ricorsività per cui l’ideale cerca se stesso nel raggiungimento di una sorta di gnosticismo normativo, di paradiso ordinamentale a cui sfugge, per citarne uno, l’imperativo nietzscheano per cui l’umano è e in tutto e per tutto corpo.
Molto interessante risulta allora la lettura condotta sulla spersonalizzazione e sulla scorporazione della politica e dell’economia contemporanee (impossibili da concepire distintamente, sussunte ad esempio sotto il concetto di finanza) se applicata al mondo di adesso, fondato sempre di più sull’astrattezza della tecnica e del digitale di cui anche le istituzioni più alte sono un segno evidentissimo (condivisibile il riferimento alla tecnocrazia dell’Unione Europea, certamente più amministrazione dell’astratto che dei corpi). Da qui si può sostenere: «Non è sorprendente il ritorno prepotente alla paura come molla delle decisioni sociali» (p. 48), giacché, vittime del pregiudizio, si respinge il migrante che minaccia la collettività e ruba il lavoro, e si diffida delle diversità di genere e di provenienza culturale.
Nel sorgere della paura e nel fraintendimento dell’affidamento, non inteso più come nell’ottica cristiana antica quale fiducia relazionale bensì come protezione sorta appunto dalla paura e dall’insecuritas, gli autori individuano nella Costituzione italiana una possibile bussola. Nelle circostanze storiche della genesi costituzionale «c’è paura. E c’era stata la grande paura dell’abisso. Ma, nell’assemblea costituente, si crea anche affidamento» (p. 52). Tra la paura e l’affidamento, i partiti politici, in una parità di forze data dall’incertezza di un esito elettorale ancora da definirsi, non indietreggiano rispetto al corpo murandosi dietro una facile astrazione, ma lo fronteggiano apertamente, prima di tutto nella sua identità di animal laborans, come lo chiama Hannah Arendt. Un richiamo ai diritti che emergono naturaliter dalla carne, dal corpo, dall’integralità della persona, dal suo essere-con e nel mondo, dal riconoscimento di una relazione persona-stato da facilitare anche attraverso corpi di mediazione.
Nella Costituzione si compie l’affidamento come riconoscimento da parte di un popolo della possibilità del suo stesso auto-affidamento, che vede in sé il corpo a cui affidare lo Stato e la volontà, alias sovranità, sapendosi infatti come corpo collettivo:
Dal nostro punto di vista, se il sovrano è colui sul quale si fa affidamento, consegnandogli la propria libertà, allora secondo la Costituzione il popolo ha affidato la propria libertà a null’altro che a sé stesso: non a un re, né a un ordinamento astratto, ma a sé medesimo. Si realizza così la più genuina dimensione dell’affidamento, perché al movimento della mia persona verso l’altra corrisponde il movimento dell’altra verso di me (p. 58).
L’esperienza costituzionale si pone quindi come medium di contatto tra l’altro e il diverso, di cui si dovrebbe ancora oggi fare memoria nell’identità politica europea gravemente angosciata, i cui tratti distintivi possiamo schematizzare in realtà e concretezza della persona, convivenza di corpi intermedi a diversi livelli della gerarchia ma senza il parossismo del purismo giuridico, consapevolezza del limite, contenimento della paura nel fiducioso affidamento all’altro, «affidamento che nasce dalla relazione reale tra gli uomini, vissuta fino in fondo, nel suo rischio e nelle sue enormi possibilità» (p. 71).
Il testo, infine, com’era iniziato, ritorna all’oggi chiamando in causa nuovamente Paolo e la Seconda Lettera ai Corinti, con un acuto e penetrante ascolto ermeneutico del testo sul concetto di persona, che è tale solo a condizione che ci siano il sentimento, il pathos, la presenza dell’altro (cfr. pp. 77-78), talché «con-essere e con-esserci, sentimento dell’altro, dignità cristiana dell’orante che partecipa dell’eukaristein sono dunque i tratti essenziali della persona nel suo momento sorgivo» (p. 79). E ritorna anche a Schmitt, al giurista che da vincitore diventa vinto, e che nel racconto di sé afferma l’Altro, la sua necessità, non in quanto nemico bensì fratello. L’Occidente contemporaneo, teatro di svolte epocali come la pandemia, l’emigrazione, i morti in mare, la guerra a ogni latitudine, e il suo sapersi prima di tutto Europa, «può continuare la guerra fino alla fine o può guardare in faccia e chinarsi, prima che sia troppo tardi. Fare del morto un nemico, mantenerlo nemico, o viverlo e sentirlo diversamente, nella sua umanità radicale, è il discrimine dell’etica e della politica mondiale contemporanee» (pp. 86-87).
Il volume si conclude con un alto lirismo letterario, grazie a cui il corpo dell’altro, del nemico, dell’essere che è quanto di più mio e sostanziale alla mia individualità e al con-essere della relazione, si declina come una chiamata a cui si deve rispondere: il corpo che lega fraternamente all’altro (Pavese), al sé (Rilke), alla terra (San Francesco), in un concetto di ecologia corporea universale in cui credo consista, contro ogni sterile astrazione, l’esito metafisico e politico di questo libro.