Carmelo Caruso (1979) si è laureato in Scienze politiche presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” con una tesi dal titolo La Democrazia cristiana e gli Stati Uniti nella prima legislatura dell’Italia repubblicana. Nel 2016 ha conseguito un master in “management delle Amministrazioni pubbliche” presso l’Università della Calabria e oggi studia Giurisprudenza nello stesso ateneo; attualmente lavora come funzionario in un Ente Locale. Ha collaborato con riviste online pubblicando contributi e recensioni ad argomento storico-sociale, filosofico e giuridico. I temi fondamentali, affrontati da diverse angolature, ruotano soprattutto attorno alle questioni della storia contemporanea dell’Europa e del suo ruolo nel sistema internazionale, nonché della crisi politica e spirituale dell’Occidente.
Recensione a: A. Spannaus, L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro, Mimesis Edizioni, Sesto S. Giovanni 2020, pp. 187, € 15,00.
Negli ultimi trent’anni globalizzazione e neoliberismo hanno costituito le matrici ideologiche del sistema economico e politico internazionale. Dopo la caduta del regime sovietico e la conseguente dissoluzione del blocco comunista in Europa orientale, la stessa visione neoliberista si è capillarmente diffusa in tutto il mondo come paradigma ideale. Gli Stati Uniti hanno rappresentato il centro propulsore di questa prospettiva facendone il vettore dei propri obiettivi strategici, sebbene l’affermazione dell’ordine neoliberale sia anche stato visto con diffidenza.
Tuttavia, il sistema avrebbe cominciato da qualche tempo a mostrare ben più di alcune fratture. Il binomio neoliberismo-globalizzazione sarebbe stato messo in discussione dagli accadimenti degli ultimi anni, proprio a partire dalla presidenza di Donald Trump: in estrema sintesi, questa è la tesi di fondo espressa da Andrew Spannaus nel suo certamente non banale libro sulla politica statunitense dal 2016 fino all’emergenza pandemica.
Una lettura superficiale del testo potrebbe indurre a considerarlo come una sorta di celebrazione ex-post delle politiche di Trump, ma il lettore che si accosti con tale spirito dovrà necessariamente ricredersi. Il saggio mantiene un approccio latamente polemico di fronte alle questioni, ma costruttivo e assolutamente non ideologico. Al di là di tutto ciò, e nonostante le controversie che hanno preceduto e seguito l’elezione di Donald Trump, il passaggio dal modello culturale e politico del «secolo americano» verso la post-globalizzazione sarebbe un’evidenza indiscutibile.
Il libro è stato pubblicato nel 2020 nel pieno della crisi pandemica, verso la conclusione del mandato di Trump. Spannaus parte dalla ricostruzione delle polemiche giudiziarie sorte sull’ipotesi delle collusioni con la Russia e ne fa emergere l’eco mediatica che ha definito l’immagine del tycoon come quella di un personaggio sicuramente fuori dagli schemi del politically correct; un soggetto descritto dagli avversari quasi con tratti caricaturali, a volte accusato di essere un pericoloso demagogo. Trump è comunque riuscito ad apparire come un outsider della politica statunitense, presentandosi come il restauratore di quella grandezza nazionale che, a suo dire, sarebbe stata insidiata dalle degenerazioni della globalizzazione. La campagna elettorale del 2016 ha mostrato le preferenze dell’elettorato americano, che si è identificato nel suo programma. Il punto della questione, però, non risiede nel qualificare o meno l’operato di Trump come demagogico o populista; esso sta, piuttosto, nel cercare le ragioni che lo hanno condotto alla guida del paese. Un esito che sembrava non del tutto scontato, soprattutto tenendo conto degli aspri attacchi polemici reciproci tra i due candidati.
Gli esiti delle elezioni del 2016 hanno sottolineato che negli Stati Uniti – come in molti paesi occidentali – gli interessi delle élite e dei cittadini negli ultimi anni si sono contrapposti: un’ampia parte dell’elettorato non si è sentito adeguatamente rappresentato, in quanto l’agenda politica globalista non sembra aver fornito risposte adeguate ai problemi dei ceti medi e popolari. Reinterpretando la legge di Say, si potrebbe dire che vi è stata un’offerta politica incapace di creare la propria domanda.
Donald Trump ha saputo abilmente cogliere l’insofferenza dell’elettorato statunitense su temi fondamentali come politica estera ed economia: se ciò non giustifica eventi come quelli accaduti a Capitol Hill nel febbraio 2021 – che nel momento in cui scrive Spannaus non si erano ancora verificati – sarebbe completamente miope ignorare che il suo populismo abbia denotato il profondo malessere degli americani davanti a una strategia egemonica globale, rispetto alla quale la politica di Bush padre mirante al consolidamento di un New World Order pare definitivamente fallita. Pertanto, la chiave di lettura della vittoria elettorale di Trump sarebbe quella di vedervi il segno evidente di come gli apparati burocratici e partitici siano stati negativamente percepiti dall’americano medio, che ha talvolta visto in essi una minaccia ai meccanismi di legittimità democratica. Questa argomentazione caratterizza oggi tutti i movimenti populisti, che hanno riscosso consensi rispetto ai partiti progressisti a causa dell’incapacità di questi ultimi nel fornire risposte “popolari” ai dilemmi suscitati da chi ha subito le conseguenze negative della globalizzazione.
La politica di Trump si è basata infatti su alcune semplici promesse, che forse non ha potuto del tutto attendere. Applicando alla politica estera e interna alcuni tatticismi tipici del mondo degli affari, ha comunque espresso una visione di fondo, efficacemente sintetizzata dagli slogan America First e Make America Great Again: proclami che contengono una netta presa di posizione, sia in campo internazionale che interno. Si trattava di ricostruire il primato americano su basi non più militari ma economiche, e riaccendere l’orgoglio nazionale riscoprendo un ruolo che rischiava di esaurirsi progressivamente a causa delle scelte tese ad affermare un predominio militare ormai non più sostenibile. Ogni ulteriore azione dell’America come «poliziotto globale» avrebbe quindi significato compromettere gli interessi vitali della nazione. Il mondo nel 2016 era ormai molto differente da quello della Guerra Fredda; secondo il magnate sarebbe stato necessario trovare margini per trattare, soprattutto con quei paesi emergenti che convergevano già da anni con la con la Russia di Putin. Tutto ciò si sarebbe potuto realizzare solo rinunciando al protagonismo militare americano, espressione dell’eccezionalismo nazionale, e concentrare gli sforzi finanziari sul versante interno: il che, come si può facilmente intuire, incontrò il favore di un’ampia parte dell’opinione pubblica sfavorevole alla presenza nei vari scenari bellici regionali.
Tuttavia, l’Autore avverte che sarebbe semplicistico definire questa linea di politica estera come un puro e semplice approccio neoisolazionista: essa ha mirato piuttosto al ridimensionamento della potenza militare del paese, rilanciando al contempo il primato degli Usa come potenza economica. Tale processo si sarebbe dovuto realizzare anche a discapito della delocalizzazione industriale: per l’ex-presidente era necessario frenare la dislocazione della produzione manifatturiera nei paesi a basso costo salariale, riportandola il più possibile nella madrepatria. Anche per questo motivo Trump incontrò il favore delle classi medie e di quelle operaie, colpite dalla diminuzione del potere d’acquisto a causa del decentramento produttivo, in modo ancor più grave dopo la crisi del 2008. D’altra parte, ciò consente di intuire il motivo per cui buona parte dell’establishment finanziario abbia generalmente guardato con simpatia alla globalizzazione.
Al relativo isolazionismo si connette un altro aspetto fondamentale, ovvero quello dei rapporti sino-americani. Quale Stato avrebbe potuto ostacolare in modo decisivo la ricostituzione dell’egemonia commerciale degli Usa se non la Cina? Infatti, come si può constatare anche oggi con la crisi Ucraina, la Russia cercava di affermare nella regione euroasiatica un primato di tipo prevalentemente geopolitico in chiave difensiva; ma la Cina, secondo Trump, costituiva il vero pericolo per gli interessi strategicamente rilevanti dell’America. Una potenza in continua crescita, che acquisendo una notevole expertise tecnologica, sarebbe potuta presto diventare il vero rivale commerciale degli Usa. Secondo un’analisi costi-benefici, si sarebbe potuto quindi affermare che Trump ritenesse più conveniente spostare l’asse della competizione in favore dell’economia rispetto alla ricerca di un’egemonia militare globale. Di conseguenza, si cercò di stabilire delle relazioni di maggiore prossimità con Mosca. Ciò avvenne inizialmente in Siria contro l’Isis, anche allo scopo di creare una virtuale area di contenimento attorno alla Cina in termini diplomatici ed economici.
Secondo Spannaus la crisi pandemica avrebbe però dato vita a un nuovo corso degli eventi. L’ordine globalista neoliberale sarebbe stato messo in fibrillazione, e cominciava ad incrinarsi lo stesso rigido dogmatismo contrario alle politiche interne di deficit spending, rese ormai necessarie dalla difficile congiuntura. Così si sperimentava il fallimento della diffidenza verso ogni intervento perequativo dello Stato in economia. Questo andamento sembra tuttavia aver evidenziato anche l’autoreferenzialità di larga parte del ceto politico mondiale, incapace di riequilibrare le inaccettabili diseguaglianze generate dalla globalizzazione: occorrerà consolidare la coscienza di tale situazione per fornire risposte efficaci ai nuovi scenari delineati nel mondo dal Coronavirus.