Andrea Ragazzini (Firenze, 1949) si è laureato nel 1974 in Architettura presso l’Università di Firenze, con una tesi di progettazione sul Mercato centrale di Firenze dell’architetto Giuseppe Mengoni, relatore Leonardo Savioli. Una ricerca storica sul medesimo edificio è stata pubblicata sulla rivista «Quaderni di studi e ricerche di restauro», diretta da Francesco Gurrieri. Dal 1976 è iscritto all’Ordine degli Architetti di Firenze. Per alcuni anni si è dedicato alla professione di architetto a tempo pieno, part-time dal 1982 quando ha iniziato a insegnare Storia dell’arte nei licei classici e artistici di Firenze. Dal 1985, a seguito di concorso a cattedre, è divenuto docente di ruolo. Dal 1990 al 1993 è stato uno dei curatori e autori del volume Firenze e Provincia della Guida d’Italia del Touring Club. Dal 2010 al 2011 ha fatto parte della Cabina di regia per la riforma dei Licei e poi della Commissione per le Indicazioni nazionali dei Licei, presso il Ministero dell’ Istruzione, dove è stato incaricato di redigere le Indicazioni nazionali di Storia dell’arte. Fa parte del "Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità".
Il 20 dicembre scorso se ne è andato lo storico fiorentino Paolo Paoletti. Nel 1984 aveva lasciato l’insegnamento di Lingue e Letterature straniere moderne nelle scuole superiori per dedicarsi alla ricerca storica sulla seconda guerra mondiale, in particolare nell’ambito del triennio 1943-1945. La sua attività di studioso era rigorosamente fondata sulla ricerca archivistica, in Italia e soprattutto all’estero, in Inghilterra, Germania, Stati Uniti.
Buona parte delle sue opere, molte delle quali innovative sul piano storiografico, è dedicata alle stragi naziste e fasciste: stragi dimenticate o stragi la cui narrazione, sempre in base ai documenti, oltre che sulle testimonianze dei protagonisti superstiti, risultava almeno in parte diversa dalla verità storica fin lì tramandata.
Fondamentale da questo punto di vista fu la scoperta, nel febbraio del 1994, presso i National Archives di Washington, degli atti delle commissioni di inchiesta alleate sulle stragi nazi-fasciste. Paoletti contattò il Procuratore Militare di Roma, Antonino Intelisano, chiedendogli se presso il Tribunale fossero custoditi quei documenti. La ricerca di Intelisano portò alla scoperta, in un ripostiglio, di un armadio con le ante rivolte verso il muro, il cosiddetto “Armadio della vergogna”, dove fra l’altro si trovò il dossier di cui sopra che gli alleati, al termine della guerra, avevano consegnato alla magistratura italiana.
La rilettura delle stragi naziste e fasciste, come di altre vicende della seconda guerra mondiale, ha comportato spesso una ridefinizione delle responsabilità di tedeschi e fascisti e in alcuni casi anche di quelle dei partigiani e degli alleati. Su questo terreno non di rado Paoletti ha inevitabilmente incontrato critiche e polemiche, a volte una vera e propria censura oppure un silenzio imbarazzato da parte di chi, storico o politico, non poteva confutare le sue affermazioni, ma le riteneva politicamente dannose o inopportune.
Ha scritto Paolo Paoletti in una lettera aperta a proposito della liberazione di Firenze (11 agosto 1944) e della manipolazione del suo racconto:
Nel corso di una guerra è inevitabile e, entro certi limiti, comprensibile che la comunicazione dei fatti sia alterata in funzione degli interessi politico-militari delle parti in lotta. Cosa diversa è che quella versione dei fatti si consolidi in una verità storica indiscutibile e venga celebrata in perpetuo come tale. In questo caso a farne le spese è la Storia con la sua insostituibile funzione di ricostruzione dei fatti e di accertamento della verità, per quanto possibile[1].
E, d’altra parte, Paoletti non era certo, per la sua formazione familiare, ostile alla Resistenza (il padre era un carabiniere con in tasca la tessera di partigiano). Tra i temi a cui ha dedicato molte delle sue ricerche ci sono appunto alcune delle più sanguinose stragi nazifasciste: [2]
Vallucciole, frazione di Stia (AR), 13 aprile 1944, 107 vittime;
Sant’Anna, frazione di Stazzema (LU), 12 agosto 194, 392 vittime;
Fossoli, frazione di Carpi (MO), 12 luglio 1944, 67 vittime;
Pietransieri, frazione di Roccaraso (AQ), 12-21 novembre 1943, 125 vittime;
Pedescala Valdastico (VI), 30 aprile – 2 maggio 1945, 63 vittime.
Ha però scritto anche di stragi di cui furono responsabili gli alleati: San Miniato (PI), 22 luglio 194, 55 vittime; Impruneta (FI), 27-29 luglio 1944, 77 vittime. In questa sede ci limitiamo a trattare in estrema sintesi tre di queste ricerche (Vallucciole, Sant’Anna di Stazzema, Impruneta).
Vallucciole[3]. Una strage nazista che indubbiamente si poteva definire “dimenticata” o quantomeno assai poco ricordata a differenza di altre, la cui memoria è stata tenuta viva, è quella di Vallucciole, una piccola frazione del Comune di Stia nel Casentino, in provincia di Arezzo.
Nella sua ricerca, iniziata nel 1985 al Bundesarchive-Militärarchiv di Friburgo e proseguita nel 1992 nell’allora Public Record Office, oggi National Archives di Londra, Paolo Paoletti ha ricostruito i fatti, anche con il contributo delle testimonianze di alcuni superstiti. Il 13 aprile del 1944 su quel luogo “si abbatté la bestialità delle truppe tedesche di élite”, per usare le sue parole, che massacrarono 107 tra uomini, donne e bambini. L’eccidio avvenne nell’ambito di un rastrellamento tedesco in quella zona dell’Appennino, che fece delle vittime anche in altri piccoli centri, ma non nella misura della carneficina di Vallucciole. Secondo Paoletti non fu però una strage programmata dal Comando tedesco nell’ambito di una strategia di “guerra ai civili”, come spesso è stato detto a proposito di questa e di altre stragi nazi-fasciste. Si trattò piuttosto di una rappresaglia per l’uccisione, avvenuta l’11 aprile, di due ufficiali tedeschi in perlustrazione in vista di un vasto rastrellamento, in programma dal 13 al 17. Ne furono autori alcuni partigiani della Brigata Garibaldi a Molino di Bucchio, qualche centinaio di metri da Vallucciole.
Ci furono anche delle responsabilità da parte dei garibaldini: abbandonarono sul posto i cadaveri dei due tedeschi e soprattutto, pur essendo entrati in possesso dei piani operativi del rastrellamento del 13, non avvertirono del pericolo né i partigiani badogliani né le comunità interessate, tra cui Vallucciole, i cui abitanti avrebbero potuto mettersi in salvo sulla riva destra dell’Arno. Avevano il tempo e il modo di farlo, ma la loro unica preoccupazione fu quella di avvertire il proprio Comando e probabilmente non vollero condividere con i badogliani le informazioni in loro possesso.
La ricerca storiografica di quella che fu la prima strage indiscriminata nazista in Toscana fu assai tardiva e carente, così come l’interesse dell’amministrazione comunale di Stia a coltivare la memoria della strage. Nei primi anni Novanta la Provincia di Arezzo acquistò la documentazione inglese sulla strage di Vallucciole che fu poi consegnata al Comune di Stia, a cui Paoletti propose di curarne la pubblicazione, ma il Sindaco Roberto Frulloni rispose che al momento non c’erano le condizioni.
Solo nel 2007 fu pubblicata, in una versione incompleta, la documentazione inglese. Un primo libro di ricordi e testimonianze era uscito l’anno prima a cura di Giancarlo Vessichelli, edito non dal Comune, ma dalla Regione Toscana. In entrambe le pubblicazioni manca una rigorosa analisi storica.
Secondo Paoletti fu soprattutto la volontà di nascondere le responsabilità dei partigiani in questa tragica vicenda e accreditare la versione che la strage era stata pianificata dai tedeschi e che sarebbe stata comunque messa in atto. Non si voleva usare la parola “rappresaglia”, mettendo quindi in connessione la strage del 13 aprile con l’uccisione degli ufficiali tedeschi da parte dei garibaldini il giorno 11.
Sant’Anna di Stazzema. È una delle più note e più terribili tra le stragi nazifasciste. Paolo Paoletti è tornato più volte a studiarla e a contestare da diversi punti di vista la ricostruzione storica affermatasi come verità ufficiale, fra cui la già citata teoria della “guerra ai civili” da parte dell’esercito tedesco, uno sterminio sistematico delle popolazioni per fare terra bruciata intorno ai partigiani. Per lo storico fiorentino invece a Sant’Anna, a Vallucciole e in altri casi la strage dei civili non era programmata, ma si trattò di rappresaglie, certo abnormi e spietate, in risposta ad attacchi partigiani.
Nel suo primo saggio del 1998, Sant’Anna di Stazzema 1944, la strage impunita, Paoletti ha indagato e in parte riscritto diverse questioni relative all’eccidio, anche qui tramite un approfondito studio delle fonti archivistiche, i documenti di Washington e gli atti di vari processi, oltre alle numerose testimonianze di superstiti. Le ricostruzioni di quello che accadde non sono univoche. Secondo un rapporto britannico datato 28 settembre 1944, il 7 agosto una pattuglia tedesca entrò a Sant’Anna e affisse un manifesto in cui si ordinava l’evacuazione di tutti i civili entro cinque giorni. I partigiani strapparono l’avviso e lo sostituirono con uno dove si diceva agli abitanti di non abbandonare il villaggio perché loro li avrebbero protetti dai tedeschi. Ma il 12 agosto si tennero lontani dall’abitato e lasciarono i civili in balia dei massacratori.
Non ci fu quindi alcuna evacuazione e il 12 agosto gli abitanti erano nelle loro case. Quando un reparto di Waffen SS arriva a Sant’Anna l’impressione è che abbiano solo il compito di allontanare gli abitanti dalle case e poi di incendiarle, come avevano fatto in altre frazioni vicine. Quando però un colpo di fucile ferisce un soldato tedesco la situazione precipita e, a seguito di un ordine trasmesso via radio, inizia il massacro.
Uno dei risultati importanti delle ricerche di Paoletti fu l’individuazione di due ufficiali che erano da considerare corresponsabili della strage insieme al Comandante della 16a Divisione delle Waffen SS, Max Simon. La loro identificazione fu possibile grazie ai dati contenuti in un fascicolo dedicato all’eccidio di Sant’Anna scoperto da Paoletti nel 1994 nei già citati National Archives di Washington, confermati dalla testimonianza di un disertore tedesco, Willi Haase. Analizzando la documentazione relativa ai reparti tedeschi, riuscì a decifrare la sigla che identificava il battaglione responsabile della strage e il suo comandante, Wolfgang Göllnitz e il reggimento di appartenenza, al comando di Karl Gesele, da cui venne l’ordine della strage.
La responsabilità dell’eccidio fu a lungo attribuita al Maggiore Walter Reder, il quale certamente meritava la sua sinistra fama di spietato massacratore di civili, ma non era implicato nella strage di Sant’Anna. La convinzione della sua responsabilità sopravvisse anche a una assoluzione per insufficienza di prove (accanto a una condanna all’ergastolo per altri eccidi) e per molti anni fu al centro delle celebrazioni ufficiali della strage. Nel suo saggio Paoletti dimostrò l’estraneità di Reder, in quanto si trovava altrove.
Nel 2015, con un voluminoso saggio, e poi nel 2024, con un polemico pamphlet, Paolo Paoletti tornò sulla strage di Sant’Anna, approfondendo soprattutto due questioni che nel saggio del 1998 erano comunque già presenti. La prima era la presenza di fascisti in divisa tedesca tra i massacratori. Nel 1946 fu aperta un’istruttoria sulla strage presso la Corte di Assise di Lucca, poi archiviata o interrotta nel 1951. Rispondendo a una lettera del Pubblico Ministero Mario Lombardo (dicembre 1946) che chiedeva di quali informazioni disponesse la Commissione per i crimini di guerra presso il Quartier Generale alleato, il Colonnello Tom H. Barrat scriveva fra l’altro: «Secondo le mie informazioni le truppe fasciste che collaborarono con i tedeschi eseguirono la maggior parte dei crimini. Si trattava dei “Mai Morti” dell’Esercito fascista repubblichino»[4]. Nel libro del 2005 le responsabilità dei fascisti, con le divise tedesche e col volto coperto per non farsi riconoscere e gettare ogni colpa sui nazisti, vengono raccontate attraverso numerose testimonianze dei superstiti, da cui apprendiamo anche che erano forse un centinaio, quasi la metà dei tedeschi[5].
L’altra questione riguarda i “partigiani sciacalli”. I partigiani, in particolare la Brigata Bandelloni, permisero a ergastolani e altri detenuti fuggiti dalle carceri di Massa di unirsi alla banda, senza valutare le conseguenze. Secondo il racconto di un abitante sopravvissuto, tale Timoscenko, un delinquente, e un altro partigiano, si erano impossessati di un gran numero di portafogli, oggetti d’oro e d’argento presi ai cadaveri, sostenendo di avere il compito di prenderli in consegna. In un manifesto scritto dai santannini nel primo anniversario della strage i testimoni oculari scrissero: «Quando i barbari furono andati via dal paese, entrarono i partigiani e spogliarono i morti dalle loro ricchezze»[6].
Ai partigiani sciacalli è in larga parte dedicato lo scritto del 2024. Nel 1952 quattro partigiani andarono a processo di fronte alla Corte di assise di Lucca, al termine del quale due furono condannati a cinque e a cinque anni e mezzo di carcere, gli altri due furono assolti. I condannati, rei confessi, furono poi salvati dall’amnistia Togliatti. In questo suo ultimo libro, come ho detto assai polemico, Paoletti esprime tutta la sua indignazione per la somma di mistificazioni e censure volte a minimizzare e se possibile a cancellare le responsabilità di questi misfatti.
Impruneta Si tratta in questo caso di una strage provocata da bombardamenti alleati sul paese di Impruneta, pochi chilometri a sud di Firenze, il 27 e il 28 luglio 1944. Come ha scritto Paolo Paoletti nel suo primo libro sul tema, del 1985, una motivazione importante da cui nacque la ricerca fu che in quell’occasione erano morti ben sei familiari della moglie, Maria Bianchi, nata subito dopo la fine del conflitto. Ma dal punto di vista dello studioso si trattava anzitutto di capire perché Impruneta fu bombardata nonostante che i tedeschi si fossero già ritirati, causando 77 vittime tra i civili.
In quei mesi l’esercito tedesco andava ripiegando verso nord, attestandosi via via su nuove linee difensive e cercando in ogni modo di ritardare l’avanzata degli alleati. Il territorio collinoso del Chianti era d’altronde particolarmente adatto a questo scopo. I bombardamenti aerei sulle postazioni nemiche erano quindi di fondamentale importanza. Nel pomeriggio del 26 luglio i caccia alleati distrussero una batteria di tre cannoni a pochi chilometri dal paese e, scrive Paoletti, dopo quell’incursione «non esistevano più obiettivi militari veri e propri, come il concentramento di truppe ausiliarie [..] o altre installazioni militari fisse»[7]. E il fronte era ancora distante molti chilometri.
Come mai dunque il 27 luglio e poi il 28 il paese fu duramente bombardato dall’aviazione sudafricana? Molte importanti informazioni vennero dallo studio dei diari di guerra reperiti sia al Public Record Office di Londra che al Military Bureau del Ministero della difesa sudafricano. Nel “Bilancio dell’attività aerea” dell’8a Armata britannica si legge che il 27 luglio le ricognizioni avevano rilevato un “concentramento di truppe e attività di artiglieria all’Impruneta” e il 28 luglio un “concentramento nemico”. Ma tutte le testimonianze, quelle di allora e quelle raccolte quando fu scritto il libro, confermavano che il 27 luglio all’Impruneta non c’erano truppe tedesche né postazioni di artiglieria.
In estrema sintesi lo scenario che Paoletti ritiene probabile nasce dalle ripetute richieste di appoggio aereo delle truppe alleate, la cui avanzata viene prima frenata e poi bloccata, nel pomeriggio del 27. Dalle posizioni occupate era molto difficile se non impossibile verificare se l’Impruneta era ancora occupata o meno dalle truppe nemiche e solo la ricognizione aerea avrebbe potuto avrebbe potuto verificarlo. Da una meticolosa analisi dei dati Paoletti ritiene probabile che ci sia stato un equivoco nella localizzazione delle truppe tedesche, che in realtà si trovavano a distanza dal paese. Intorno alle 18 una squadriglia di cacciabombardieri attaccò il centro abitato. Dopo due terribili bombardamenti del 27, il giorno dopo un’altra squadriglia della Desert Air Force si concentrò sulla piazza principale del paese e sulla Basilica, che fu quasi completamente distrutta. I civili uccisi, come si è detto furono in totale 77.
Nel 2020 Paolo Paoletti dedicò alla strage di Impruneta un nuovo saggio, Una Guernica italiana, anche sulla base di nuovi documenti tedeschi e britannici, assumendo una posizione più polemica nei confronti degli alleati, che non avrebbero bombardato per errore il centro abitato, ma per una scelta che metteva consapevolmente nel conto molte vittime civili.
Ma soprattutto la polemica dello storico è rivolta alla sconcertante rimozione di quel terribile evento da parte delle autorità, in particolare di tutte le amministrazioni comunali imprunetine che si sono succedute nel tempo. La sua opinione è che si tratti di una rimozione “ideologicamente orientata”, essendo politicamente imbarazzante ricordare la responsabilità degli alleati nella strage. Di conseguenza la memoria di quell’evento, mai adeguatamente coltivata, si è andata via via perdendo, al punto che oggi la gran parte della cittadinanza pensa che l’eccidio fu responsabilità dei nazisti.
Il ricordo della strage è del tutto assente nella toponomastica del paese, a partire dalla piazza su cui affaccia la Basilica, prima intitolata a Vittorio Emanuele e poi rinominata “Piazza Buondelmonti”. Non c’è un monumento o una stele che la ricordi e fra le targhe commemorative del Parco della Rimembranza nessuna è dedicata alle vittime della strage.
Sotto il Portico del Municipio una prima lapide commemorativa in terracotta fu posta nel 1994, 50 anni dopo, un’altra nel 2006, con i nomi delle vittime. Entrambe non sono firmate dal Comune, che pure le ospita, e in entrambe si ricordano le vittime innocenti dei bombardamenti del 27 e 28 luglio 1944. Evitando però di scrivere chi ne furono gli autori.
Firenze, l’insurrezione che non ci fu. Sono naturalmente numerosi i saggi di Paolo Paoletti dedicati alla Firenze del biennio 1943-1945. Fra questi sono di particolare interesse gli studi dedicati al giorno della liberazione di Firenze, l’11 agosto 1944. Siamo in questo caso di fronte a una verità ufficiale indubbiamente frutto di una manipolazione della verità storica, che ancora oggi, a 80 anni di distanza, appare inscalfibile e che si riassume nella formula coniata dal giornalista Sergio Lepri sulla Nazione del Popolo: «Firenze insorse e si liberò da sola».
Le cose in realtà andarono diversamente. Gli alleati erano arrivati a Porta Romana la mattina del 4 agosto e nella notte i tedeschi, come avevano programmato, si erano ritirati dall’Oltrarno facendo saltare i ponti e distruggendo le zone di testa al Ponte Vecchio. Una settimana più tardi, nella notte tra il 10 e l’11, l’esercito tedesco ritirò le sue truppe anche dalla parte nord della città, arretrando al di là Mugnone e della linea ferroviaria e facendo saltare i ponti sul torrente. Infine, il 18 agosto i tedeschi completarono il loro ripiegamento ritirandosi sulle colline a nord di Firenze.
Ma già nella giornata dell’11 agosto “La Nazione del Popolo”, organo del CTLN (Comitato Toscano di Liberazione Nazionale), scriveva in un articolo titolato Firenze in mano ai Patrioti: »Non erano ancora scoppiate le mine tedesche sui ponti del Mugnone, che dalle case, fino ad allora silenziose, si son visti uscire i Patrioti armati attaccare e incalzare fino ai margini della città la soldataglia tedesca…». E nella seconda pagina: «Nelle prime ore di questa mattina formazioni della divisione garibaldina Arno, dopo aver messo in fuga oltre quattrocento tedeschi, occupavano Palazzo Vecchio […]».
Nella realtà non ci fu alcuna battaglia tra partigiani e tedeschi, tanto meno un’insurrezione di popolo, anche se in città rimasero i franchi tiratori, una frangia di fanatici fascisti “pavoliniani”, che operavano nel territorio occupato dagli “invasori”, cioè gli alleati, e che inflissero ai partigiani gravi perdite. Ma per il CTLN era politicamente molto importante accreditare una diversa versione dei fatti.
Paradossalmente il documento più importante che la smentisce è il “Verbale della seduta dell’11 Agosto 1944” dello stesso CTLN, dove si legge:
Alle ore 8 il Comitato si insedia in Palazzo Medici Riccardi unitamente al Comando Militare essendo stata la città evacuata dalle truppe tedesche. Si delibera di fare invito alla popolazione di ritirarsi entro le case per ragioni di ovvia prudenza e di dislocare le forze volontarie alla periferia. Il Comandante notando come i tedeschi abbiano costituito una linea di resistenza lungo il Mugnone e alla fascia ferroviaria Cure- Campo di Marte propone di aumentare le forze della 2a e 4a zona […]. Il Commissario Politico nota che se i tedeschi volessero fare una spedizione in città, tanto di notte che di giorno, potrebbero farla.
Tra le testimonianze è particolarmente significativa quella di Maria Luigia Guaita, allora partigiana del gruppo di Giustizia e Libertà e nel dopoguerra fondatrice della Stamperia il Bisonte. Nel suo libro del 1957, Storie di un anno grande, Settembre 1943-Agosto 1944, ricorda l’incredulità e la gioia di quando fu svegliata intorno alle 4 di notte dell’11 agosto con la notizia che i tedeschi se ne erano andati e con gli amici e compagni Lea Valobra e Alfio Campolmi corsero per le strade del centro, trovandole deserte: «… una donna da una finestra bassa mi chiese urlando: “Se ne sono andati?”. “Siamo liberi, liberi”, risposi singhiozzando e allargando le braccia»[viii].
Nell’immediato dopoguerra fu apposta su una facciata di Palazzo Vecchio una lapide scritta da Piero Calamandrei che confermava la “verità ufficiale”:
Dall’XI agosto MCMXLIV / non donata ma riconquistata / a prezzo di rovine di torture di sangue / la libertà / sola ministra di giustizia sociale / per insurrezione di popolo / per vittoria degli eserciti alleati / in questo palazzo dei padri / più alto sulle macerie dei ponti / ha ripreso stanza nei secoli.
Una verità su cui pose il definitivo sigillo il conferimento alla città di Firenze della Medaglia d’oro al Valor Militare.
La già citata lettera aperta di Paoletti alla Sindaca di Firenze Sara Funaro dell’11 agosto 2024, in occasione dell’ottantesimo anniversario della liberazione di Firenze, che riproponeva l’inconfutabile versione dei fatti di cui sopra, non ha avuto sorte migliore dei saggi dello storico sulla questione. Oltre che alla Sindaca, la lettera fu inviata al Presidente del Consiglio Comunale, ai capigruppo e ad alcuni assessori, e fu pubblicata sul quotidiano online “Il Sussidiario”, ma non ha avuto alcuna risposta. Nel precedente mese di giugno un libro dal titolo 1944 Firenze insorge, a cura di due autorevoli firme, aveva provveduto a consolidare la narrazione ufficiale di quei giorni. Nel libro di Paoletti (Quale liberazione? Firenze 1944: il falso storico dell’insurrezione e della liberazione partigiana) si legge in esergo una frase di Albert Schweitzer: «Se non direte mai cose che facciano dispiacere a qualcuno, non potete affermare di aver sempre detto la verità».
[1] https://www.ilsussidiario.net/news/storia-firenze-11-agosto-1944-linsurrezione-popolare-che-
non-ce-mai-stata/2740157/
[2] Atlante delle stragi Naziste e Fasciste in Italia, https://www.straginazifasciste.it
[3] P. Paoletti, Vallucciole, una strage dimenticata, Editrice Le Lettere, Firenze 2009.
[4] Id., Sant’Anna di Stazzema 1944: la strage impunita, Mursia 1998, p. 60.
[5] Id., Sant’Anna di Stazzema, una strage “aggiustata”, Ed. Agemina, Firenze 2015, p. 589.
[6] Id., Senza scuse, Pezzini Editore, Viareggio, 2024, p. 14.
[7] Id., Il passaggio del fronte all’Impruneta, Firenze, 1985.
[8] M.L. Guaita, Storie di un anno grande, Settembre 1943-Agosto 1944, La Nuova Italia 1957, cap. 14, pp. 79-85.