Recensione a: A. Tarso, A. Di Silvestro (a cura di), Dalla casa al chiostro: storie monastiche della famiglia Verga, Puntostampe, Caltagirone 2023.
In generale, leggere un epistolario, un carteggio o semplicemente avvicinarsi a una lettera manoscritta, in questi tempi segnati in modo irreversibile dal digitale, può apparire come un passo indietro, persino come un evento inatteso dinanzi al quale trovarsi impreparati. A parte qualche rara testimonianza di nostalgici della penna, l’oggetto lettera è ormai del tutto desueto, o, se non lo è, limitato a sterili incombenze burocratiche appartenenti già di per sé alla meccanizzazione della vita, come una bolletta da pagare o un avviso pubblicitario.
Per di più, l’abitudine alla scrittura, come tempo della vita che si dedica a se stesso in quanto comunicazione all’altro e traduzione del sé in parole, è quasi del tutto erosa, soprattutto se si considera l’immane potenza di fuoco della telefonia e della messaggistica. Ma per le esistenze votate alla pagina, quelle degli scrittori, la lettera da inviare e da ricevere rappresenta un evento colmo di senso, addirittura una parte integrante a tutti gli effetti della propria opera letteraria, da intendersi non come un mero strumento di riordino biografico, bensì una fonte a cui attingere, una rivelazione su cui sperare. Questo vale per molti autori, rispetto ai quali, avendone a disposizione l’epistolario, le lettere divengono punto di snodo imprescindibile per una fondata interpretazione della loro opera. Si pensi soltanto a Pavese o a Calvino, a Wilde o a Proust, a Freud o a Benjamin, per citare casi esemplari della letteratura e della filosofia. O al caso forse paradigmatico di Kafka, di cui le relazioni amorose specialmente con Felice e Milena sono costituite per lo più di lettere, una vita che si dice all’altra per mezzo della sola scrittura, la quale si declina come piena dimora del loro esistere.
Le lettere contenute, studiate, ponderate in questo volume non appartengono allo scrittore Giovanni Verga, ma sono comunque legate alla sua vita perché ne rappresentano il milieu, il luogo germinativo per l’ispirazione, quella materia amorfa da cui poi nasce la vera e propria opera letteraria. Queste lettere, scritte dalle zie dello scrittore, Suor Maria Carmela e Suor Filomena, entrambe monache a Vizzini e a Palermo, sono un chiaro e utile documento attestante la vita monastica della Sicilia ottocentesca, e tuttavia, non potendosi ignorare l’eccezionalità costituita dalla parentela delle scriventi con uno dei maggiori autori della nostra letteratura, richiamano allo stesso tempo lo studioso verghiano a ritrovarvi i prodromi per una possibile genealogia letteraria, laddove il riferimento obbligato è ovviamente il capolavoro giovanile della Capinera.
Si apprende di due esistenze minime, delle cure quotidiane di cui necessitano, dei desideri e delle ambasce, anche dell’accettazione della penitenza vissuta nell’anno del noviziato e della malattia quale castigo divino per una vocazione insincera e vacillante. Come infatti scrive Pietro La Rocca: «Le lettere dal monastero offrono uno spaccato suggestivo e ravvicinato del vissuto quotidiano, tra momenti di preghiera, orari conviviali, lavori sartoriali un po’ arrangiati ma approntati sempre con scrupolo e affettuosamente donati ai familiari» (p. 44). In tutto ciò, emerge anche la fatalità a cui ci si abbandona nella monacazione forzata, chiarissima nella lettera di Maria Carmela del 9 settembre 1860, nella quale si legge in conclusione: «Così vuol Dio, basta che ci salviamo l’anima, ciò che non è eterno è nienti» (p. 63), un’affermazione che certamente riempie di amarezza, per un destino doloroso da accogliere comunque sia e rispetto a cui la Capinera verghiana si colloca anche come testo-denuncia.
In questo senso, le lettere delle zie di Giovannino sono molto di più di un semplice invito o di una facile coincidenza, ma una prova testuale della possibile filiazione dell’opera verghiana dal vissuto biografico, a partire dal quale possono essere nate tanto la Capinera che le novelle di ambito monacale. Già Giuseppe Savoca, nel suo Verga cristiano dal privato al vero (Leo S. Olschki, Firenze 2021) ha insistito con ottime ragioni sull’influsso e sullo sviluppo delle vicende familiari di Verga, rintracciando nelle lettere l’humus per il suo romanzo più noto sulla famiglia Toscano.
La chiarificazione del contesto operata in questo volume dalle ricostruzioni biografiche delle due zie monache di La Rocca e Denise Bruno, e dal dotto quanto utile apparato di note a corredo della lettura delle missive, come argomentato da Antonio Di Silvestro in conclusione, costituisce un ponte, una costellazione aggettante sull’opera, che non ferma, com’è necessario che sia, l’interpretazione all’inconcludenza del factum biografico, ma si spinge a dipanare l’opera, a meglio spiegarla, a riconsegnare alla ricerca e alla comprensione dello scrittore i caratteri universali dell’umano e dell’esistere nel mondo che Verga ha tratteggiato in modo indelebile, anche nella tragedia a sfondo religioso-sociale qual è la clausura della vita a cui viene destinata Suor Maria.
Come nota Di Silvestro, includere queste lettere nell’officina critica verghiana significa caldeggiare anche l’idea per cui lo scrittore «si riaccosta ad un’adolescenza vissuta quasi fiabescamente nell’eden campestre e riletta, attraverso dei motivi apparentemente secondari (il colera, il rifugio, le gioie della natura), con gli occhi della memoria e il respiro del cuore» (p. 163), a cui non manca ovviamente, tra le memorie familiari e le sollecitazioni del proprio tempo, l’empito della trasfigurazione letteraria, esito della quale è una «variegata fenomenologia del convento-mondo» (p. 171), il luogo, se vogliamo, della repressione, che dà la misura, opponendovisi, alla reale forza delle passioni che agitano l’umano.
Si tratta, quindi, di un documento storico ma anche e soprattutto di uno strumento esegetico assai penetrante, per cogliere e rilanciare alcuni degli aspetti di una possibile ermeneutica verghiana condotta sulla base del côté biografico. Senza però ridurre l’interpretazione e il senso dell’opera – contre Saint-Beuve, avrebbe detto Proust – a una vivisezione dell’esistenza d’autore, con l’obiettivo di rinvenire quell’interesse, quel pungolo nella carne, che ha indotto Verga alla maturazione di un’opera come la Capinera, nelle cui lettere vibra appunto il dolore della vita e la tragedia di una falsa redenzione che conduce alla pazzia, e infine alla morte.