Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: A. Magnanini, F. Bocci, Kilpatrick contro Montessori. Destini che si incrociano, Editoriale Anicia, Roma 2024, pp. 240, € 24,00.

Il primo viaggio di Maria Montessori negli Stati Uniti, alla fine del 1913, fu contornato da vasta curiosità e da alte aspettative riguardo alla sua persona e al suo metodo pedagogico. Nel contesto della Progressive Era americana, accompagnata e stimolata dai progetti e dalle pratiche della progressive education, infatti, aveva trovato ampia risonanza l’innovativo esperimento delle “Case dei Bambini”, che l’italiana aveva avviato, dal gennaio 1907, con i bambini dai tre ai sei anni delle famiglie alloggiate negli edifici dell’Istituto Romano di Beni Stabili del poverissimo quartiere romano di San Lorenzo.

Nel 1911, infatti, l’imprenditore Samuel Sidney McClure, che avrebbe organizzato il tour di conferenze montessoriane oltreoceano, aveva inviato a intervistare Montessori una redattrice del suo diffusissimo organo di muckracking. Ne era scaturito un articolo che ripercorreva la carriera della “Professoressa” dalla laurea in medicina fino ai prodigiosi risultati educativi ottenuti. L’anno seguente, Henry Wyman Holmes, docente a Harvard, aveva esaltato il «genio creativo di una singola donna» nell’introduzione alla prima edizione in inglese, di cui andarono esaurite sei tirature in pochi mesi, di Il metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle case dei bambini. A Boston e New York erano già state aperte le prime scuole ispirate dall’esempio montessoriano. E una classe per i figli della borghesia di Washington fu istituita per iniziativa dell’ingegnere Alexander Graham Bell, che con la moglie diede vita a un’associazione nazionale riconosciuta dalla stessa pedagogista. A certificare il riconoscimento da parte della cultura americana sembrò anche il fatto che a presiedere la lecture alla Carnegie Hall di quella che il «New York Tribune» aveva definito «the most interesting woman of Europe» fosse John Dewey, che della corrente di educazione progressista e progressiva era l’esponente maggiore.

La fortuna di Montessori in America, prima di trovare nuovo slancio, ebbe però una parabola iniziale più breve di quella che quelle attestazioni avevano lasciato prevedere. Ciò si dovette anche alla rottura dei rapporti con McClure, rivelatosi un inaffidabile affarista, e all’allentarsi della rete di relazioni tessuta oltreoceano. Ma contribuirono significativamente i giudizi che un allievo dello stesso Dewey, William Heard Kilpatrick, all’epoca assistant professor in filosofia dell’educazione alla Columbia University, espresse  nel 1914 in The Montessori System Examined. Il testo, finora inedito in italiano, è ora riproposto in originale e tradotto in Kilpatrick contro Montessori. Destini che si incrociano (Editoriale Anicia, Roma 2024, pp. 240) di Angela Magnanini e Fabio Bocci.

Kilpatrick, che già nel 1912 aveva osservato in prima persona le attività in una Casa dei Bambini e aveva avuto occasione di incontrare Montessori, si proponeva di analizzarne i fondamenti pedagogici e di soppesarne meriti e demeriti, così da valutarne l’applicabilità nel contesto del sistema educativo americano. Per Kilpatrick, «Madam Montessori» concepiva l’educazione come «development from within», sulla scia di Rousseau, Pestalozzi e Fröbel. Pertanto, il processo educativo avrebbe dovuto garantire lo “svolgimento” (unfolding) – per usare il termine con cui Dewey avrebbe definito la concezione fröbeliana (e hegeliana) – di un principio completo latente nell’individuo e in attesa di manifestarsi. Quella prospettiva, per Kilpatrick, trascurava però che ciascun soggetto fosse sempre calato nel «contesto culturale» di una civiltà, il cui «capitale consolidato» consisteva nei «dispositivi finora inventati […] per il nostro maggior sviluppo possibile». Pertanto, lo sviluppo individuale non poteva essere astratto da quello sociale; pena il ricadere nell’opposizione rousseauiana tra la vita dell’individuo e la «vita istituzionale» e nell’erronea applicazione del concetto di «adattamento predeterminato» all’essere umano, al quale era stata invece riconosciuta la specificità dell’«adattamento intelligente e auto-orientato a un nuovo ambiente».

Di qui scaturivano le riflessioni di Kilpatrick sulla «dottrina della libertà» adottata nelle Case dei Bambini. Essa, restringendo all’impedimento di «azioni inutili o pericolose» la «pressione» che l’insegnante poteva invece esercitare più ampiamente nei kindergarten, consentiva al singolo di sviluppare autonomia e di apprendere spontaneamente e lodevolmente – sia pure in modo sin troppo «individualistico» – il rispetto dei «diritti dei suoi compagni». L’americano aveva potuto appurare che l’ampia libertà concessa non conduceva, se non momentaneamente, al disordine; e anzi produceva l’operosità degli alunni con i materiali didattici da essi liberamente scelti di volta in volta.

Benché i materiali consentissero il «controllo dell’errore» da parte del bambino e, dunque, ne stimolassero la capacità di correggersi e tentare autonomamente le soluzioni, il giudizio di Kilpatrick era invece generalmente negativo. Gli oggetti tendevano a limitare le possibilità di sperimentazione del bambino; oppure si fondavano su una concezione atomistica dell’«educazione dei sensi», o, ancora, erano difficilmente adottabili all’infuori del contesto italiano. Era questo il caso delle lettere smerigliate per l’apprendimento dell’alfabeto, la cui validità egli riteneva confinata alla lingua italiana per la sostanziale corrispondenza tra fonema e grafema.

Se poi le attività con i materiali erano apparentemente slegate dalla «vita normale», l’americano sottolineava che vi si affiancassero dagli «esercizi di vita pratica» (dal «lavarsi le mani» all’apparecchiamento della tavola). Questi offrivano invece la «miglior forma di allenamento» per la soluzione di problemi ordinari e, con i dovuti adattamenti alle specifiche circostanze culturali e sociali, se ne auspicava la piena introduzione nel curriculum statunitense. Non soltanto avrebbero incentivato la conquista dell’indipendenza da parte dei bambini delle famiglie benestanti, i bisogni dei quali erano anticipatamente sodisfatti dalle bambinaie o dai genitori troppo indulgenti, ma, ampliando l’orario scolastico, avrebbero anche alleviato l’esistenza dei lavoratori impossibilitati a sorvegliare i propri figli per gran parte della giornata.

Non stupisce, certo, che l’apprezzamento di Kilpatrick si concentrasse sugli aspetti di learning by doing, che intercettavano il pragmatismo (o meglio lo “strumentalismo”) che egli aveva acquisito dal proprio maestro. Il «Professor Dewey», si legge però nel saggio, postulando l’identità tra educazione e vita, aveva formulato «già tutto quanto c’è di valido nelle dottrine di libertà di educazione ed educazione dei sensi della Signora Montessori». Quindi, nonostante ella aveva avuto il merito di proporre un’«idea scientifica dell’educazione» che rompeva con «l’oscurantismo mistico» e le tradizionali forme di istruzione, Kilpatrick concludeva che gli assunti e le pratiche montessoriane avrebbero potuto al massimo fornire stimoli alla riflessione. Difficilmente avrebbero potuto soppiantare i sistemi già in uso nelle scuole materne e nelle scuole primarie americane.

Come spiegano Magnanini e Bocci, le ragioni della requisitoria di Kilpatrick potevano essere molteplici. Certamente aveva colto la possibilità di far conoscere il proprio nome attraverso la difesa della corrente alla quale apparteneva dalle pretese di una proposta che doveva considerare concorrente; e una concorrente ancor più insidiosa perché ugualmente collocata nel campo riformatore. Ma, per far ottenere il risultato, aveva tentato di sminuire le competenze dell’ideatrice: obliquamente, sottolineando che l’approccio innovatore era più degno di nota poiché proveniva da una «donna»; più palesemente, negandole il titolo di “dottoressa” nel confronto con il «Professor Dewey». E va tenuto conto che, come ricorda Magnanini, il filosofo di Burlington, pur avanzando alcune critiche – come la valutazione negativa sull’uso dei materiali espressa in Democracy and Education (1916) –, aveva invece comunicato allo stesso allievo di ritenere quello montessoriano «un contributo autentico, che va oltre ciò che è mai stato elaborato a Chicago».

Si deve anche considerare che le nozioni che Kilpatrick aveva del lavoro di Montessori si erano dovute limitare all’osservazione delle dinamiche in una Casa dei Bambini e alla lettura della prima edizione americana del Metodo, testo ancora perlopiù incentrato sugli aspetti pratici ed applicativi dell’ancora giovane esperienza educativa. Non soltanto Montessori avrebbe successivamente corretto alcune delle pecche che l’americano – al quale non replicò – aveva individuato (ad esempio, furono approntati materiali adatti a lingue non fonetiche), ma avrebbe proceduto a un aggiornamento e a una più chiara esposizione degli assunti antropologici, filosofici e biologici sui quali la propria concezione poggiava. Tra di essi vi erano proprio la persuasione che lo sviluppo normale dell’essere umano avvenisse, anche sotto il profilo morale, quale membro di un gruppo e che la piena realizzazione dell’individualità implicasse la soddisfazione del “senso sociale”. Più volte ella avrebbe allora descritto la coesione, la cooperazione e la disciplina volontaria che si generavano tra i membri delle classi delle sue scuole come la prefigurazione in embrione delle relazioni che avrebbero potuto contrassegnare la futura società degli adulti. Di qui, dunque, la convinzione della centralità dell’educazione per il conseguimento di una sana integrazione sociale nella quale l’individuo non fosse sussunto dalla collettività, né fosse ridotto ad atomo isolato. Tali posizioni non erano, invero, lontane da quelle che lo stesso Dewey argomentava, sostenendo l’essenzialità dell’educazione per – si legge in Il mio credo pedagogico – «perseguire la riforma della società in senso progressivo». Né ciò sfuggiva a coloro che intendevano, viceversa, difendere la stabilità e l’universalità dei valori dal flusso relativistico che la progressive education sembrava avallare (si pensi alle contestazioni di Irving Babbitt alla riforma democratica dei corsi universitari introdotta da Charles William Eliot nella Harvard di fine Ottocento).

Una percezione, questa, che sarebbe poi venuta meno, nella misura in cui l’educazione sarebbe stata considerata solamente sotto l’aspetto della pratica didattica e – anche allorché si dibatte del nesso tra istruzione e cittadinanza – se ne sarebbe trascurato il ruolo nel cementare una comunità e nel confermarne, modificarne o rivoluzionarne le forme.

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