Micael Antonio Maria (Michele) Salvati (1937) è professore emerito di Economia politica nell’Università statale di Milano. Alunno del Collegio Borromeo, si è laureato in Giurisprudenza nell’Università di Pavia (1960) e in Economia a Cambridge (1965). Ha insegnato in diverse università italiane ed estere. È autore di numerosi libri e saggi in vari campi di ricerca economica e politologica. Deputato nella XIII legislatura, socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, collabora al "Corriere della Sera", al "Foglio" ed è stato direttore della rivista «Il Mulino» (2012-2017), per la quale ha scritto molti saggi di economia e politica. Tra le sue pubblicazioni più recenti: A proposito di libertà e uguaglianza(2018); Un liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo(con N. Dilmore, 2021).

Lectio magistralis tenuta il 5 maggio 2024 in  occasione del conferimento del Premio Alumni Borromeo 2024

Caro Rettore, cari membri dell’Associazione Alunni, ho provato una grande gioia nel ricevere il premio che mi avete conferito: è per me un ritorno dopo un’assenza durata troppo a lungo. Un’assenza durante la quale sono avvenute trasformazioni profonde nel Collegio, e mi riferisco soprattutto alla composizione degli alunni e alle attività culturali. Quando fui alunno del Collegio, tra il 1956 e il 1960, il Borromeo era solo maschile e le attività culturali interne assai meno curate di oggi. Sono convinto che i collegi residenziali siano un antico ma straordinario strumento di formazione per chi li frequenta: sono stato alunno del Pembroke College di Cambridge e ho seguito da vicino la creazione del Collegio delle Università milanesi, collegi organizzati in modo diverso e diverso dal Borromeo. Ma già la semplice convivenza di ragazze e ragazzi che provengono da diverse esperienze familiari e sociali e il distacco dalla famiglia sono ciò che fa la differenza e costituisce il vero valore aggiunto di un collegio,  creando una favorevole cesura con la scuola o con la stessa università, se vissuta rimanendo in famiglia.

Nella scaletta della cerimonia di oggi il mio intervento viene definito come Lectio Magistralis. In senso proprio, una Lectio Magistralis è una lezione nella quale un esponente di una disciplina accademica – nel mio caso l’economia – esprime e giustifica il suo giudizio su qualche importante problema che la sua disciplina affronta o dovrebbe affrontare. Più in generale, sullo stato di salute della disciplina stessa. Questo cercherò di fare in due modi, entrambi molto brevi. Il primo, brevissimo, è quello di lasciare un testo scritto a chi fosse interessato di economia – chiedetelo al vostro presidente, al quale l’ho inviato – una vera Lectio Magistralis frutto di una iniziativa dei Lincei presso il Collegio Lucchini di Brescia. In questa ho cercato di spiegare che cosa sia oggi l’economia insegnata nelle Università, e che cosa potrebbe essere se volesse rispondere ai principali problemi economici e sociali che dovrebbe affrontare. Il secondo modo – un poco più lungo – cercando di dare una prima idea dei principali problemi economici e politici del nostro paese e di perché le classi dirigenti italiane fanno tanta fatica ad affrontarli.

La ragione di tanta brevità sta soprattutto nel fatto che intendo raccontarvi il tortuoso percorso intellettuale che mi ha condotto alle conclusioni cui sono arrivato, conclusioni che si possono capire sia leggendo il breve testo del convegno linceo che ho appena ricordato, sia e soprattutto un mio ultimo libro che menzionerò alla fine. Quello che farò è dunque un’autobiografia in pillole, un tentativo di rappresentare una vicenda storico-sociale attraverso una vicenda individuale. Il vostro presidente mi ha suggerito che sarebbe stato un buon modo di vivacizzare il racconto e io ho seguito il suo consiglio.

Arrivai in collegio nell’ottobre del 1956 come tipico prodotto di un buon liceo classico di provincia, vagamente liberale per l’influenza di un ottimo professore di filosofia e storia crociano, e con ambizioni che allora non eccedevano un decoroso e possibilmente remunerativo percorso professionale nella mia città d’origine, Cremona: un percorso in una delle professioni alle quali la Facoltà scelta, Giurisprudenza, dava accesso. Il Collegio, due studenti più anziani che incontrai e dei quali divenni amico, il rettore Cesare Angelini e il clima di libertà che aveva creato, alcuni straordinari docenti nell’Università e soprattutto Vittorio Bachelet con il quale mi laureai nel luglio del 1960, tutte queste influenze cambiarono profondamente le mie aspirazioni. L’enzima che maggiormente operò nella conversione fu però una ragazza pavese conosciuta all’Università, con la quale ci sposammo nel 1963, e ora è qui con noi. Bianca mi mise in contatto con un gruppo di giovani intellettuali, sociologi e filosofi soprattutto, che si stava formando a Torino sotto la guida di Raniero Panzieri: il gruppo dei «Quaderni Rossi», dal nome della rivista che stava per essere pubblicata dopo le sconfitte politiche e sindacali della sinistra degli anni 50.

Per tornare a vincere – questa era la convinzione di Raniero – bisognava tornare a Marx, ad una lettura più approfondita, e a questa mi dedicai intensamente, accanto agli studi più accademici che l’Università e il collegio imponevano. Così intensamente che un caro amico di allora, Vittorio Rieser, aveva coniato su di me un calambour quasi evangelico: “Credete in Marx e sarete…Salvati”. Questo nuovo orientamento politico e culturale non poteva non avere ripercussioni sul percorso di studi che stavo seguendo, ormai indirizzato ad una carriera accademica in diritto amministrativo sotto la guida di Vittorio Bachelet. Quando incontrai Paolo Sylos Labini, un paio d’anni dopo la laurea, ed egli mi offrì la possibilità di concorrere ad una borsa di studio per la Facoltà di Economia di Cambridge, decisi di tentare l’avventura. Cambridge era stata l’Università di Keynes, dove ancora insegnavano i suoi allievi e soprattutto era presente un grande economista italiano, Piero Sraffa, che proprio allora aveva scritto un libro che sembrava destinato a rivoluzionare l’economia. Insomma, sedotto dall’idea ingenua che esistesse una disciplina principe per comprendere l’origine delle ingiustizie sociali, l’economia, decisi per una radicale ripartenza, abbandonando sei anni di studi giuridici. Solo l’avventatezza giovanile e il clima economico e culturale estremamente aperto di allora – erano i primi anni Sessanta, l’epoca del miracolo economico italiano, di Kennedy, di papa Giovanni – può spiegare una decisione che sarebbe incomprensibile oggi.

Dunque, Cambridge, sotto la guida di Michael Posner – mio tutor al Pembroke College – e di Joan Robinson – mio supervisor in Facoltà, e poi, dopo la laurea in economia e un anno come PhD candidate, il ritorno in Italia, a Roma, come borsista nell’Istituto di Economia della Facoltà di Statistica della Sapienza, diretto da Sylos Labini. Seguirono molti anni come professore nella nuova Facoltà di Economia di Modena, dove si era insediato un gruppo di allievi di Cambridge, poi Torino, il Politecnico di Milano, infine l’approdo alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale della stessa città.

Già all’inizio di questo lungo percorso, cominciò a maturare un nuovo orientamento culturale e politico. Studiando lo sviluppo economico italiano in un confronto con quello di altri paesi comparabili, mi resi conto che la guida di Marx non consentiva di coglierne molti aspetti che lo studio approfondito rivelava: il calambour del mio amico torinese non mi rappresentava più. Ma neppure mi rappresentava l’orientamento prevalente dell’economia accademica: convinto da sempre che l’economia non sia assimilabile alle scienze della natura e che lo sviluppo economico sia il frutto di comportamenti umani che anche altre discipline concorrevano a spiegare – la storia, la sociologia, le scienze politiche e altre ancora – allo studio di queste mi dedicai sempre di più, soprattutto cercando di capire perché, nel caso italiano, dopo i grandi successi degli anni Cinquanta e Sessanta, la crescita economica si fosse rallentata.

Cominciai ad esprimere i risultati delle mie ricerche, oltre che in pubblicazioni accademiche, anche su giornali e riviste rivolte ad un pubblico più ampio e politicizzato: prima sui «Quaderni Piacentini», poi soprattutto su «Il Mulino», una rivista, una società editrice e una associazione di politica e cultura in cui incontrai un clima congeniale e alla quale sono tuttora molto legato. Oltre che un cambiamento di natura intellettuale – da marxista a liberale progressista – gli anni dai Settanta ai Novanta, e soprattutto l’ultimo decennio, comportarono anche una mutazione del mio atteggiamento verso la politica – da spettatore e commentatore esterno a partecipante sempre più interessato e attivo nella vita politica italiana. Alla fine degli anni ottanta non accettai l’offerta del Partito Comunista di candidarmi al Parlamento come “indipendente di sinistra”: lo fecero molti studiosi con idee simili alle mie, ma per me era inaccettabile diventare parlamentare con i voti di un partito che ancora non era riuscito a troncare il legame con l’Unione Sovietica e il comunismo. Con Salvatore Veca, pochi mesi prima dell’abbattimento del Muro di Berlino, su una rivista del PCI, «Rinascita», scrivemmo un articolo che fece molto discutere, nel quale auspicavamo, come segno inequivocabile del distacco dal comunismo e dall’Unione sovietica, il cambiamento di nome del partito.

Il cambiamento del nome, proposto come obiettivo dal segretario Achille Occhetto subito dopo l’abbattimento del Muro, diede luogo ad un acceso dibattito che durò quasi due anni: alla fine, dopo la scissione di Rifondazione Comunista, il nuovo nome fu quello che Veca ed io avevamo proposto: Partito Democratico della Sinistra, PDS. Al dibattito sul nome e sull’indirizzo politico e culturale del nuovo partito partecipai attivamente e nulla ostacolava ormai l’iscrizione al PDS: tra il 1991, quando Occhetto prevalse nel congresso di fondazione, e il 1996, divisi il mio tempo tra Roma, dov’ero parte dello staff del segretario, e Milano, dove continuavo a insegnare. Nelle elezioni politiche del 1996, fui eletto come deputato della coalizione dell’Ulivo, nella circoscrizione Milano-centro.

Mi ero già reso conto che svolte radicali in un grande partito, con una forte e combattiva militanza, sono lente e difficili. In parlamento capii quanto è difficile governare in modo coerente quando il governo è sostenuto da coalizioni: Prodi cadde ben presto per la defezione di Rifondazione Comunista. Da qui un nuovo obiettivo politico. L’Ulivo doveva evolvere da semplice coalizione tra ex-democristiani di sinistra ed ex-comunisti in un vero partito, dotato di una analisi condivisa dei problemi istituzionali e politico-sociali che affliggono l’Italia e doveva essere caratterizzato da un orientamento ideologico liberal-democratico. Non potendo più ricandidarmi in Parlamento dopo il 2001, la nuova battaglia per un grande partito della sinistra liberale e riformista – il nome era già pronto, semplicemente Partito Democratico – fu una battaglia condotta sul piano delle idee, attraverso convegni, libri, riviste, giornali e altri media. Con grande ritardo, questo partito prese avvio con Veltroni solo nel 2007.

Sono molti i saggi che scrissi sui due grandi problemi che ho prima menzionato – di natura prevalentemente economica, relativi alle riforme che il paese deve attuare per tornare a crescere; di natura politologica, relativi all’assetto politico e istituzionale che l’Italia deve darsi per attuare un programma di riforme efficaci. Una sintesi provvisoria, più rivolta all’insieme di paesi con regimi liberal-democratici che al caso italiano in particolare, è contenuta in un libro che scrissi con Norberto Dilmore durante la pandemia e fu pubblicato da Feltrinelli nell’ottobre del 2021 (Liberalismo inclusivo: un futuro possibile per il nostro angolo di mondo).

Ma credo sia il momento di concludere questa biografia politico-culturale in pillole. Partito con il piede sbagliato, con la fascinazione di Marx all’origine dei miei studi, ho fatto fatica a raggiungere la sintesi che vi ho brevemente descritto: altri ci arrivarono assai prima. È una sintesi che parte dal riconoscimento di una anomalia dell’Italia tra i grandi paesi che vennero sconfitti nella seconda guerra mondiale. Ma la mano delle potenze anglosassoni vincitrici e occupanti – per fortuna avemmo una sorte diversa da molti paesi dell’Europa centrale e orientale, che caddero sotto il controllo dell’Unione Sovietica – fu assai più dura nei confronti di Germania e Giappone di quanto fu per l’Italia, dove rimasero tracce profonde dei radicali conflitti ideologici che avevano travagliato l’Europa nella prima metà del secolo ventesimo: fascismo e comunismo, in Germania occidentale e Giappone, restarono confinati in spazi marginali del loro sistema politico e il consolidamento di una democrazia liberale non subì gli ostacoli con i quali l’Italia dovette confrontarsi. Che ancor oggi ci si accapigli con riferimento a fascismo e comunismo è una conseguenza degli equilibri politici che si crearono nel primo dopoguerra e ai quali il nostro patto costituzionale – peraltro il migliore possibile date le circostanze – non riuscì a porre rimedio.

Gestire politicamente le grandi trasformazioni strutturali che si accompagnano ad una fase intensa di crescita economica – nell’immediato dopoguerra gli occupati in agricoltura erano la metà della popolazione in età di lavoro, oggi sono meno del 5 per cento – è politicamente difficile anche se tutti i partiti condividono una concezione politica democratico-liberale. Se subiscono il fascino di concezioni diverse e distanti, diventa molto più difficile quel continuo compromesso sul quale si basa la democrazia rappresentativa e il paese, invece di crescere, arretra. L’Italia corre questo rischio.

Cari alunni e alunne del Collegio Borromeo, voi diverrete parte di una classe dirigente allargata sulla base delle capacità professionali che avrete sviluppato nei settori di studio ai quali vi state dedicando. Ma nelle scelte culturali che la vostra associazione vi offre spero ci sia spazio per una riflessione sulle condizioni economiche, sociali e politiche del nostro paese. Non molti tra voi vorranno diventare economisti, storici, sociologi, e ancor meno politici. Ma sapersi riferire a buone analisi storiche ed economiche è un piccolo patrimonio che vi tornerà utile e vi consentirà di evitare indirizzi culturali sbagliati. Molti di voi completeranno all’estero il proprio percorso di formazione. La mia speranza e il mio augurio è che poi torniate in Italia: il nostro paese ha bisogno di voi per interrompere il processo di declino in cui è avviato.

Loading