Carmen Dal Monte (1963), Ph.D., è CEO di Takeflight, società attiva nel settore dell’intelligenza artificiale per scuole e imprese. Ha insegnato etica della finanza e comunicazione della scienza in diverse università italiane. I suoi ambiti di ricerca includono l’etica, l’intelligenza artificiale, la comunicazione della scienza, i sistemi di classificazione nella storia della cultura e l’innovazione didattica nelle scienze umane e sociali. È autrice di saggi e articoli su questi temi.

Nella storia europea del dopoguerra esiste un paradosso che merita di essere esaminato con sobrietà. Pur essendo l’evento più documentato del XX secolo, la Shoah non ha trovato, per molti anni, un ascolto autentico. Non perché mancassero i testimoni, ma perché mancava un contesto disposto ad ascoltare ciò che essi avevano da dire. Il silenzio che accolse i sopravvissuti fu determinato dall’effetto di una più ampia necessità sociale di rimuovere un crollo morale troppo vicino, troppo compromettente (Wieviorka 1998). L’iniziale rifiuto editoriale di Se questo è un uomo non rappresenta un’anomalia, ma l’indizio di una più generale indisponibilità a riconoscere che lo sterminio non era il prodotto di un corpo estraneo, bensì l’esito estremo di una lunga tradizione antiebraica interna alla cultura europea (Nirenberg 2013).

Quando la memoria è entrata nello spazio pubblico, è stata immediatamente istituzionalizzata. Il ricordo è diventato liturgia civile — la Giornata della Memoria, le cerimonie scolastiche e istituzionali, la codificazione del nazismo come “male assoluto” — e ha prodotto una forma di riconoscimento che ha i tratti di una decontaminazione simbolica: individuare un’epoca, un regime e un insieme di colpe, infatti, consente alla società di ristabilire un’immagine di sé più rassicurante (Assmann 2013). Tuttavia, questa costruzione rituale ha generato un secondo paradosso: la condanna del nazismo ha finito per occultare la specificità antiebraica della Shoah, dissolvendola in una narrazione etica generale sul male (Novick 1999).

Questa universalizzazione, solo all’apparenza inclusiva, ha avuto conseguenze profonde. Nel momento in cui la Shoah è stata interpretata non come la fase terminale di un antisemitismo secolare, ma come l’epifania del male in senso astratto, il soggetto storico del genocidio — gli ebrei — è stato progressivamente marginalizzato (Friedländer 1997). La memoria, così configurata, è diventata neutra, e la sua neutralità l’ha resa sterile: invece di essere uno strumento per identificare le responsabilità politiche, istituzionali e sociali che hanno reso possibile lo sterminio, si è trasformata in un contenitore morale, utile a rafforzare una coscienza collettiva purificata (LaCapra 1998

Il risultato è una rimozione doppia. Da un lato, il racconto pubblico tende a ignorare la continuità dell’antisemitismo nelle società europee odierne, come se esso fosse stato annientato insieme al regime che lo portò all’estremo (Lipstadt 2019). Dall’altro, oscura il fatto che la persecuzione non terminò nel 1945. I documenti mostrano chiaramente che i sopravvissuti furono spesso ricondotti in spazi di segregazione — i Displaced Persons Camps, eredità fisica e amministrativa dei lager — e che l’antisemitismo non scomparve dalle istituzioni, incapaci di distinguere tra vittime e collaboratori nascosti tra i profughi (Stone 2015). La narrazione che colloca il male tra il 1939 e il 1945 getta ombra su quanto accadde immediatamente dopo, e ciò che continuò ad avvenire per anni (Judt 2005).

Questa configurazione produce effetti ancora più rilevanti sul presente. Le responsabilità diffuse — dei governi che non intervennero, delle organizzazioni internazionali che non vollero vedere, delle popolazioni che rifiutarono i sopravvissuti — sono state assorbite in un’unica condanna del “nazismo”, come se il male appartenesse a un regime isolato e non anche alle strutture, formali e informali, che lo resero possibile (Mazower 1998). Il discorso pubblico contemporaneo ha ereditato questo impianto. Le gite scolastiche ad Auschwitz, centrate sull’orrore del sistema concentrazionario, raramente restituiscono la Shoah come progetto antiebraico (Marcuse 2001). Di conseguenza, la memoria si svuota del suo compito: insegnare a riconoscere l’antisemitismo nei suoi sviluppi contemporanei (Rosenfeld 2011).

È in questo vuoto che si inserisce un fenomeno che i documenti descrivono con lucidità: la possibilità, oggi, di identificare nuovamente gli ebrei come oggetto su cui riversare un’ostilità morale. Quando la Shoah è separata dalla sua storia e ridotta a paradigma etico, l’antisemitismo attuale viene percepito come qualcosa di diverso e non come il prolungamento di quell’antisemitismo (Klug 2003). In questa cornice, l’ostilità politica verso lo Stato di Israele o verso gli ebrei viventi viene presentata come un gesto di coscienza, quando, in realtà, costituisce un processo di disumanizzazione che restituisce, in forme mutate, la stessa logica di esclusione che rese possibile lo sterminio (Gerstenfeld 2015). La memoria sterilizzata, che doveva impedire il ritorno dell’odio, finisce per predisporre il terreno del suo riemergere.

Riprendere la memoria significa, allora, restituirle la sua verità storica. Significa ricollocare la Shoah non come simbolo astratto del male, ma come evento radicato in un antisemitismo antico, diffuso nelle società e nelle istituzioni europee (Bauer 2001). Significa riconoscere che il 1945 non indicò la fine di tutto quell’odio, che il dopoguerra non coincise con la fine della persecuzione, e che le forme di ostilità verso gli ebrei hanno trovato nel discorso pubblico contemporaneo nuovi linguaggi per legittimarsi (Cesarani 2004). Questo non implica attribuire colpe ereditarie; implica riconoscere che la memoria non può essere un esercizio di autoassoluzione collettiva.

Riprendersi la memoria è un atto necessario: non per rivendicare uno spazio identitario, ma per ristabilire il nesso tra passato e presente, allentato progressivamente da questa liturgia civile. Solo una memoria restituita alla sua complessità — e quindi alla sua specificità — può funzionare come strumento critico. Solo così la Shoah può tornare a interrogare non un passato pacificato, ma un presente che porta ancora le tracce, visibili o occultate, delle stesse logiche che condussero alla distruzione.

Bibliografia

Aleida Assmann, Das neue Unbehagen an der Erinnerungskultur, C.H. Beck, 2013. 

Yehuda Bauer, Rethinking the Holocaust, Yale University Press, 2001.

David Cesarani, Becoming Eichmann, Da Capo Press, 2004.

Saul Friedländer, Nazi Germany and the Jews, HarperCollins, 1997–2007.

Manfred Gerstenfeld, The War of a Million Cuts, Jerusalem Center for Public Affairs, 2015.

Tony Judt, Postwar, Penguin, 2005.

Brian Klug, “The Concept of the ‘New Antisemitism’”, The Nation, 2003.

Dominick LaCapra, History and Memory after Auschwitz, Cornell University Press, 1998.

Deborah Lipstadt, Antisemitism: Here and Now, Schocken, 2019.

Harold Marcuse, Legacies of Dachau, Cambridge University Press, 2001.

Mark Mazower, Dark Continent, Penguin, 1998.

David Nirenberg, Anti-Judaism: The Western Tradition, W.W. Norton, 2013.

Peter Novick, The Holocaust in American Life, Houghton Mifflin, 1999.

Alvin Rosenfeld, The End of the Holocaust, Indiana University Press, 2011.

Dan Stone, The Liberation of the Camps, Yale University Press, 2015.

Annette Wieviorka, L’Ère du témoin, Plon, 1998.

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