Luca Baldassarre (1989) è docente di Filosofia e Storia nei licei. Laureato in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi su Theodor W. Adorno, ha successivamente svolto attività di ricerca sulla Teoria critica della Scuola di Francoforte, con particolare interesse verso le varie declinazioni della critica dell’industria culturale. Fra le sue pubblicazioni: La Scuola di Francoforte. Una introduzione (Editrice Clinamen, Firenze 20213); Gli scrittori neri della borghesia. Theodor Adorno e il finale di partita (Clinamen, 2016); Gli uomini del cortocircuito. Per una critica dell’infantilismo ipermoderno (Clinamen, 2017).
Alto Adige: l’assessore provinciale alla scuola in lingua tedesca propone l’abolizione dei voti scolastici dal 4 in giù. Non hanno valore educativo, spiega – provocando la solita valanga di reazioni. Ampia gamma di reazioni: dagli entusiasti, che già intravedono la realizzazione dei loro sogni millenaristici, la fine dell’umiliazione come criterio di giudizio, ai contrari, che, come la sottosegretaria al MIM (perché è bene, di tanto in tanto, cambiare gli acronimi per gettar fumo negli occhi), si oppongono perché una volta i 2 in pagella erano come gli gnocchi il giovedì e nessuno faceva drammi. Ah, ai miei tempi…!
Sarebbe facile prender posizione nella mischia di una delle tante, solite, discussioni polarizzate. Piace, oggi, impantanarsi nell’ordine del giorno. L’imperativo è rimanere sui fatti: sei favorevole o contrario all’abolizione del 4 in pagella? e del voto tout court? Scarseggiano visioni d’insieme, è assente qualsivoglia tentativo di critica sistemica. E di questo passo verranno definitivamente meno.
Le chiacchiere sui voti a scuola (nella grottesca discussione sul valore aureo del numero quattro) rappresentano l’epifenomeno della crescente tendenza verso l’abolizione della figura del docente. Lo sfondo è la “civiltà dell’inclusione”: non orientare, non rimproverare, in ultima istanza non educare. Si impara solo vivendo: chi sei tu per…?
Dapprima, si propinano nuove e sempre più strampalate metodologie didattiche, relegando il docente al ruolo di comprimario prima, di gregario poi, allo scopo di renderlo via via ininfluente, semplice controllore in virtù degli ancor presenti limiti di maggiore età… oddio, quale ingombro! Ma fra poco aboliremo anche quelli, abbassandoli a sedici o a quattordici anni. D’altronde, son passati meno di due anni da quando Enrico Letta propose di abbassare il diritto di voto a sedici anni. E la libertà di insegnamento? L’articolo 33 della Costituzione? Vabbè, tutto sommato anche quelle sono solo chiacchiere.
È fuor di dubbio l’insufficienza, e talvolta il danno, della predella, sia essa metaforica o venga addirittura reintrodotta, come proposto, alcuni anni fa, perfino da esimi docenti universitari. La critica all’autoritarismo, di cui i rappresentanti dell’attuale governo si fanno invece, senza troppe remore, vanto, rischia però di gettar via il bambino con l’acqua sporca. L’esigenza di una didattica che superi le rigidità di vecchi e ammuffiti modelli non può venir soddisfatta con uno schiocco di dita: la superfetazione di griglie predeterminate, in cui oggi la scuola si trova impigliata nella sua smania post-valutativa, potrebbe, forse, limitare i danni dei cattivi insegnanti (che molto spesso coincidono – ironia della sorte – coi “predellisti”), ma limita, al contempo, le potenzialità dei buoni insegnanti (la cui autorevolezza non ha bisogno di predelle). L’istruzione diventa così un gioco al ribasso, in cui gli unici a guadagnarci sono i lupi davanti a cui ragazzi e ragazzi si trovano disarmati dopo il diploma.
Ma la smania inclusivista non si ferma davanti ad argomentazioni sofisticate. Non piace, agli inclusivisti, spaccare il capello in quattro. Così, affondato il primo colpo, tocca alla valutazione. Adesso è il turno del quattro, eretto a numero magico. Non si mettano voti sotto il quattro! Non sono educativi. Ma allora perché non il tre? Perché non il cinque? Non si mettano voti sotto il tre! Non si mettano voti sotto il cinque!
La valutazione è un’arte complicata e occorre prestare molta attenzione alla sensibilità di alunni e alunne. Su questo si andrebbe certamente d’accordo. Occorre contestare, senza dubbio, una concezione punitiva del voto. Non si comprende, però, in che modo modificare una griglia di valutazione alzando la soglia dell’insufficienza possa rappresentare il mezzo per contrastare la frustrazione in cui inesorabilmente cadrebbero alunni e alunne poco predisposti allo studio e all’apprendimento. In una scala in cui il limite minimo è 4, per quale motivo un 4 in pagella sarebbe minor motivo di umiliazione rispetto a un 2, in una scala da 2 a 10? Ovviamente, qui è in gioco qualcosa in più della mera convenzionalità delle griglie: è in questione la validità stessa della valutazione. L’abbandono del vetusto sistema decimale è funzionale a nuovi modelli di valutazione, non più su base numerica ma espressa tramite giudizi. E ciò risulta tanto più chiaro oggi che, rispondendo nel merito della questione sollevata dall’assessore tirolese, perfino il ministro dell’Istruzione, non certo il più rigoroso propugnatore dell’ideologia inclusivista, ha affermato che dopotutto ciò che conta, ormai, sono «i giudizi contenuti nel portfolio che devono servire al ragazzo e alla famiglia per cogliere le criticità, opportunità, potenzialità», eccetera, eccetera.
Come se il voto su base numerica non fosse la risultante di quei giudizi. Come se, per formulare quei giudizi, bisognasse render conto di ogni movimento, di ogni distrazione, di ogni sbadiglio. Il voto non è il risultato di una media aritmetica delle singole prestazioni, ma è il prodotto di una serie di fattori, molti dei quali solo il docente stesso conosce e di cui non può rendere conto ogni tre per due. Spetta a lui misurare la temperatura della classe e degli alunni che la abitano.
Un modello valutativo che facesse a meno della risultante su base numerica renderebbe superflua la presenza del docente, stretto in una morsa letale. Letale, perché la sostituzione del voto col giudizio non è che il primo passo, nell’ottica inclusivista, per l’abolizione del giudizio stesso.
– “Il ragazzo è uno scansafatiche”; “La ragazza non si impegna”; “L’alunna è costantemente distratta”; “L’alunno non ha raggiunto il livello di conoscenze minime per affrontare un livello di istruzione superiore” …
– “Ma come si permette? Questi sono giudizi frustranti!”.
E allora potranno andare bene i giudizi, purché formulati nella maniera corretta: “Il ragazzo tutto sommato va bene”; “La ragazza potrebbe impegnarsi un po’ di più ma l’altro giorno è venuta a scuola con la febbre a 36.5”; “L’alunna di tanto in tanto si assenta coi pensieri, ma fa parte della sua genialità”; “L’alunno, pur non avendo idea di chi fosse Napoleone, è appassionato di Risiko”.
Non si considera mai che chi svolge la propria professione con serietà, passione e onestà intellettuale non può che convivere sempre con quel senso di colpa, in sottofondo, che accompagna la valutazione: per un buon docente valutare significa al contempo autovalutarsi. Un cattivo voto è sempre, almeno in parte, la constatazione di un proprio fallimento. Tra i fattori che un buon docente deve prendere in esame nella scelta di un voto, non ultimo è la propria stessa capacità di trasmettere a studenti e studentesse la passione per la cosa, per l’oggetto di studio. Non è qui in gioco la mera questione del merito (non è questa la sede per affrontare il problema della complementare ideologia meritocratica). Superare una concezione punitiva del voto non significa abolirlo, bensì correlarlo alla centralità della passione per la materia, che solo il docente può trasmettere: un’attività delicatissima e chiaramente esposta al rischio. Il docente convive perennemente con questo rischio, con la consapevolezza delle possibilità del fallimento del proprio progetto pedagogico, con le incertezze e i dubbi connessi alla propria responsabilità didattica.
“E allora? Togliamo i voti, così deresponsabilizziamo anche i docenti! No?” Certo: d’altronde, chi sei tu per giudicare…? Eliminiamo i voti, non valutiamo, non giudichiamo, non valutiamoci, non giudichiamoci. Realizzare il cielo in terra è semplicissimo: è sufficiente chiudere gli occhi e fingere di vivere nel Paese dei Balocchi. Con buona pace di Collodi. Per liberare la scuola dai Mangiafuoco e consegnarla all’Omino di burro.