Jacopo Miatton (1996) ha studiato Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Trento. Si è specializzato in Sicurezza Internazionale a Roma, presso l’Università degli Studi Internazionali (UNINT), con una tesi comparativa sui modelli sociopolitici occidentali ed islamici.

Recensione a: P. Bruckner, Un racisme imaginaire. La querelle de l’islamophobie, Grasset-Fasquelle, Paris 2017, pp. 272, € 19,00.

La convivenza con “l’altro da sé” è un tema più che mai controverso nel globalizzato ventunesimo secolo. I terremoti geopolitici, le disparità economiche che si palesano all’annullarsi delle distanze, e il movimento virtualmente estemporaneo garantito dalla tecnologia costringono l’uomo postmoderno a misurarsi con l’involontaria coesistenza accanto a chi un tempo era percepito come esotico alieno.

L’intensità di tale sfida appare, peraltro, direttamente proporzionale alla distanza “culturale” tra conviventi costretti ad esserlo. Più le simbologie differiscono, più grande è la differenza tra le interpretazioni e le comprensioni del reale, e maggiore sarà la difficoltà nella condivisione dello spazio (letterale e figurativo). Il tema della convivenza e della integrazione dell’immigrato (islamico, in questo caso specifico) è, per tali ragioni, particolarmente centrale nel dibattito politico europeo. Pascal Bruckner, scrittore e saggista francese, ne scrive apertamente in Un racisme imaginaire: la querelle de l’islamophobie, un breve ma puntuale saggio del 2017.

In questo testo Bruckner discute con arguzia in merito al tema dell’integrazione e della convivenza con l’Islam in Europa. Senza mezzi termini, l’Autore propone riflessioni che colpiscono per freddezza di pensiero e precisione. Si percepisce, in Bruckner, una rinfrescante lucidità, finalmente libera dal buon pensiero multiculturale e idealista, riuscendo a rimanere rispettoso delle altrui abitudini ma, allo stesso tempo, capace di difendere senza timore il diritto di chi è nativo ed autoctono a decidere in merito all’organizzazione del proprio spazio pubblico.

Il saggista francese propone in prima battuta una approfondita riflessione sul ruolo del linguaggio in relazione all’immigrazione e all’integrazione. Come già si anticipa nel titolo, per Bruckner l’espressione «islamofobia» subisce nel corso della seconda metà del Novecento ripetute contorsioni, che conducono ad una apertura semantica della parola, divenuta infine un «ombrello» utile a tacciare qualsivoglia atteggiamento critico nei confronti dell’Islam e dei musulmani. Il tema della manovrabilità linguistica, d’altronde, caratterizza bene i cosiddetti movimenti woke, attitudini portate all’estremo dal nuovo progressismo di sinistra che, in definitiva, ha sostituito la critica economica di Marx con quella sociale dei postmodernismi e della Scuola di Francoforte. I nuovi protagonisti dell’oppressione sono, in questa nuova versione, le minoranze linguistiche, etniche, religiose, e non ultimo l’immigrato sui generis, vittima dei luoghi in cui spera di trovare benessere vita natural durante. Per difendere, dunque, chi si vede attribuito lo status di vittima sempiterna è necessario in primo luogo operare sull’uso e sul significato del linguaggio, per introdurre interpretazioni dei fenomeni sempre più originali (come fece Jacques Derrida nel 2001 cercando di minimizzare gli eventi dell’11 settembre). Ed è così che la «violenza», un tempo contraddistinta dai suoi effetti fisici e reali, oggi si trasforma in «violenza emotiva» e «violenza verbale», la cui misurazione è affidata solamente alla percezione di chi la subisce e non più a criteri oggettivi. Il «razzismo» sperimenta una non dissimile inversione di significato, passando da qualsivoglia comportamento che insulti o ferisca individui sulla base di discriminazione per il proprio colore della pelle, ad indicare una colpa collettiva e inespiabile dell’uomo occidentale (il quale, al pari dell’uomo kafkiano descritto ne Il Processo, pare essere protagonista inconsapevole di atti che avvengono al di fuori della sua volontà e coscienza). Si può perfino giungere a considerare razzista una curiosa e legittima domanda sulle origini di taluno, posta del tutto in buona fede. Si nota pertanto, come si è detto, l’influenza dell’epistemologia postmoderna, che mette in dubbio oggettività e logica, preferendo la percezione individuale come metro di misurazione del reale. E così, se ci si percepisce «vittime di razzismo», lo si diventa, senza necessità di ulteriori chiarimenti. La manipolazione del linguaggio diviene dunque, per Bruckner, strumento politico che sfrutta l’onta del passato coloniale e del razzismo (quello vero) del Novecento, per invitare al silenzio quegli occidentali che, pur accettando di buon grado il proprio spazio pubblico liberale e dunque inclusivo, si permettono di esprimere timide riserve sulla natura eminentemente espansiva dell’Islam «europeo».

Il saggista francese, però, non si ferma a considerazioni di questo tipo, e nella seconda parte del volume denuncia non soltanto le esagerazioni inaccettabili dell’Islam, ma, forse ancor di più, quelle parti politiche e correnti filosofiche di origine occidentale che ne apprezzano il deprimente influsso sulla cultura europea. Esempio principale dell’inevitabile cortocircuito di coerenza è il pensiero femminista «di quarta ondata», che cerca, così com’è descritto nelle parole dell’Autore, una «riconciliazione dei contrari» promuovendo, da una parte, l’emancipazione femminile (dimenticandosi che in Occidente è già avvenuta, checché ne dicano i fautori del fuorviante gender gap), e dall’altra sostenendo politiche multiculturali che ammettono e talvolta incoraggiano la presenza di tangibili elementi culturali patriarcali dell’Islam in Europa. Dunque, per un verso, la donna europea madre e casalinga è vittima dei costrutti culturali occidentali, e agli antipodi si troverebbe la donna libera, consapevole e contenta di vestire burqa e hijab. Si ricordino, in tal senso, le manifestazioni in Francia per la libertà di velarsi da parte delle donne musulmane, paradossalmente parallele alle rivendicazioni di piazza delle donne iraniane a capo scoperto contro il regime teocratico. Queste frizioni, d’altronde, non sembrano preoccupare i pensatori più liberal (nell’accezione americana del termine), poiché, come si è detto, il progressismo odierno è irrimediabilmente infettato dal germe postmoderno, che non si preoccupa di scomodare logica e coerenza per addurre giustificazioni ai propri ragionamenti: se la Verità non è raggiungibile e se, in fin dei conti, ogni interpretazione del reale è valida in quanto soggettiva e percepita, non vi è necessità del confronto dialettico con l’avversario politico, ma ciò che resta è solo il potere (da ottenere, anche, forzando la mano).

Bruckner riesce dunque a mostrare un quadro complessivo del legame tra sinistra radicale e Islam: il primo serve al secondo per affermarsi in Europa, così come il secondo serve al primo perché vi è la necessità di un «protagonista dell’oppressione» che nei decenni addietro è venuto a mancare. Questa «congiunzione del risentimento», così definita dal saggista francese, ben delinea i tratti tipici della sinistra filo-islamica, che vede nell’immigrato musulmano il nuovo protagonista della rivoluzione: i martiri di Hamas sostituiscono proletari e guerriglieri.

Al netto degli estremismi, pare necessario infine comprendere quale sia l’atteggiamento dell’Occidente inteso come civiltà in larga parte cristiana e soprattutto laica. È qui, secondo Bruckner, che si articola la «tirannia della colpa» (altro titolo evocativo di un precedente saggio dell’Autore). In questo senso, c’è chi sostiene che l’immigrazione e conseguentemente la convivenza  con – e l’accettazione di – alcune «stravaganze» dei fedeli musulmani in Europa siano il prezzo da pagare per il passato coloniale dell’Europa. Dimenticandosi, opportunamente, che il «colonialismo» inteso come conquista di popoli e territori (nonché la pratica della schiavitù) configura atteggiamenti ben noti a tutte le popolazioni umane. Se non altro, l’Occidente per primo ha fatto un passo indietro, riconoscendo i propri errori.

Che cosa insegna, dunque, il saggio di Bruckner? Nell’Europa del ventunesimo secolo, il vero razzismo nei confronti dell’«altro» è da intendersi come residuale nostalgico di frange ininfluenti. Per Bruckner, l’immigrato musulmano in Europa non è ridotto a mera «vittima di razzismo», ovvero non è inteso come oggetto passivo che subisce un comportamento. L’idea è certamente rinfrescante: media e politica interpretano l’immigrato come destinatario dell’agire, eterna vittima dell’ospite europeo, reo di insufficienti sforzi per l’integrazione. Questa perversa meccanica è parimenti degradante. La «infantilizzazione» dell’immigrato rende sterile il dibattito sull’integrazione, trasformando il processo in una strada a senso unico (senza via d’uscita). Pascal Bruckner, d’altra parte, mostra rispetto verso l’immigrato proprio interpretandolo come un agente responsabile, in grado di commettere errori e di pagarne le conseguenze.

Quale che sia il nodo che risolve la più difficile tra le convivenze, non è dato saperlo. C’è chi interpreta la soluzione come spinta verso l’esterno: questo è il mio spazio circoscritto, e tu stai per esserne escluso. Ma come può un motore spingere se al suo interno non vi è combustibile? In altre parole, il quesito riporta al confrontarsi con la pervadente forza spirituale dell’Islam da parte dello «spirito» occidentale, quanto mai assopito. D’altra parte, come ritrovarlo, questo spirito, dopo Charles Darwin e le rivelazioni di Zarathustra? Come nota Bruckner, quando Dio non c’è più, il cuore dell’uomo si riempie d’altro. Soldi, lusso, o un altro Dio. Dostoevskij, dal canto suo, lo aveva già capito: e infatti l’esistenza di Dio è il perno sul quale gira la sua intera produzione letteraria. Resta da chiedersi, dunque, se la soluzione per l’Occidente all’annoso problema dell’Islam sia da ricercarsi nella cacciata di tale «antagonista» o piuttosto nella sua stessa decadenza spirituale.

Loading