Bianca Ciccotosto (1998) è attualmente borsista del seminario di Studi e Ricerche Parlamentari “Silvano Tosi”, presso l’Università degli Studi di Firenze. È inoltre impegnata in un progetto destinato alle scuole secondarie di secondo grado, volto all’approfondimento di tematiche inerenti alla storia contemporanea italiana. Dopo aver conseguito una Laurea triennale in Sociologia, si è specializzata in Scienze della politica presso Sapienza Università di Roma, con una tesi in Storia delle istituzioni italiane ed europee dal titolo Il percorso politico-istituzionale di Pietro Ingrao: dalla Presidenza della Camera allo scioglimento del Pci (1976-1991). Nella primavera del 2022 ha collaborato con la Fondazione Gramsci Onlus e nel 2023 è stata borsista presso la Scuola di Alta formazione promossa dall’Istituto Luigi Sturzo. Le sue tematiche di ricerca si dedicano al ruolo del Partito comunista italiano nell’Italia repubblicana e al funzionamento dell’istituto parlamentare con un focus specifico sugli anni ’70.

Recensione a: V. Lomellini, Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di stato 1969-1986, Editori Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 210, € 22,00.

Fu a seguito degli eventi che contrassegnarono il panorama internazionale tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta che si iniziò a discutere di crisi della democrazia. Si assistette al susseguirsi di stravolgimenti politici, economici e sociali caratterizzati da un elevato grado di complessità, tale da condurre studiosi, intellettuali e società civile – seppur attraverso forme e manifestazioni distinte, talvolta antitetiche – ad interrogarsi sulla funzionalità della struttura dei sistemi democratici contemporanei.

Sul finire degli anni ’60 il dibattito italiano si concentrò prioritariamente sul rischio di un presunto collasso istituzionale: le responsabilità venivano rintracciate nel deficit di comunicazione venutosi a creare tra le masse e la politica e nell’incapacità delle istituzioni di rispondere e saper modellarsi sulla base delle nascenti domande sociali. Quanto a possibili risoluzioni, le riflessioni ruotavano attorno a mutamenti di carattere strutturale: rafforzare il potere esecutivo o estendere le garanzie del potere legislativo, ripensare funzionamento e ruolo dei partiti politici. In questo quadro, rimanevano marginali le tematiche legate alle problematicità del modello di sviluppo economico adottato e alla possibile incursione di fenomeni esterni capaci di destabilizzare ulteriormente l’andamento nazionale. Sull’onda lunga delle manifestazioni studentesche e operaie, che si dipanarono nel biennio ’68-’69, era possibile cogliere una comune matrice sociale delle vertenze: da bisogni materiali e collettivi si assisteva ad uno scivolamento verso interessi individuali, le esigenze degli individui si moltiplicavano, come variegate divenivano le forme di contestazione e di partecipazione. Oltre ai problemi connessi all’inflazione e all’instabilità monetaria internazionale, andava delineandosi un ulteriore elemento simbolo di frammentazione: all’aumentare della distanza tra società civile e centri decisionali, aumentava la probabilità di assistere all’avvento di tendenze estremiste e di controreazioni, così come si verificò nella stagione dello stragismo di matrice neofascista e poi del terrorismo rosso, che coronarono la perdita di credibilità dello Stato. È sullo sfondo di un’Italia già fortemente disarticolata che si inserisce l’analisi contenuta nel volume Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di stato 1969-1986.

Valentine Lomellini, professoressa di Storia delle relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’Università di Padova, aggiunge un’ulteriore dimensione da dover monitorare come variabile interveniente sulla stabilità e sicurezza interna: la percezione, la gestione e l’approccio del governo italiano al terrorismo internazionale. Il volume, che ha reso la studiosa vincitrice della 69ͣ edizione del “Premio letterario Pozzale Luigi Russo”, indaga la risposta dello Stato italiano di fronte alla minaccia proveniente dal terrorismo arabo-palestinese a partire dal 1968, anno in cui fu proprio Roma a rimanere coinvolta nella prima azione di dirottamento di un aereo con bandiera israeliana.

Le prime pagine sono dedicate alla genesi degli accadimenti che resero di uso comune la dizione “lodo Moro”. A partire dalla prima metà degli anni ’70, seppur in modo limitato, la linea filo-arabista governativa iniziò ad essere tacciata come fallimentare. Agli anni ’80 e ’90 possono essere ricondotte le prime inchieste giornalistiche che supponevano l’esistenza di un patto segreto tra l’Italia e la Resistenza palestinese. Fu solo con le dichiarazioni rilasciate nei primi anni Duemila da Francesco Cossiga – ottavo Presidente della Repubblica italiana – che l’espressione si diffuse. Se Cossiga, dichiarando di non esserne a conoscenza ai tempi, associò l’accordo stilato da Aldo Moro alle responsabilità del Fronte popolare per la liberazione della Palestina nella Strage di Bologna, di uso pubblico restò l’idea secondo la quale il “lodo” dovesse essere inteso come un rapporto di scambio e di collaborazione tra i Servizi segreti italiani e il terrorismo di matrice arabo-palestinese: in poche parole, la protezione del suolo italiano dagli attentanti in cambio di una libera circolazione di armi e di guerriglieri.

L’evidente confusione retorica sulla natura del “lodo” muove la ricerca della Lomellini, con il fine di spiegare le origini di tale patto e comprendere come una singola personalità, Moro – dall’agosto del ‘69 Ministro degli Esteri – abbia potuto costituire un unicum, tanto da meritarsi l’attribuzione di un progetto così esteso. L’Autrice si chiede infatti:

Il lodo è esistito davvero? Chi furono i suoi protagonisti, da parte italiana? Quali furono gli interlocutori di Roma? Fu una prassi solo nazionale, chiara dimostrazione dell’archetipica mancanza di credibilità e dell’ambiguità della classe dirigente del nostro paese? Fu un affare dei servizi segreti […]? Fu un affare di Moro […]? (p. X).

Il cospicuo lavoro documentario, svolto attraverso la consultazione di archivi italiani di notevole interesse, fonti estere tedesche, inglesi, francesi e statunitensi, consente di rilevare l’importanza del metodo scelto dalla Lomellini: quello comparativo. La ricerca risulta infatti essere lo sviluppo di un progetto più ampio, edito sempre da Laterza e pubblicato nel febbraio del 2023 con il titolo La diplomazia del terrore. 1967-1989: uno studio delle politiche di antiterrorismo adottate da Francia, Gran Bretagna, Italia e Germania nel periodo della Guerra Fredda.

Osservazioni storiografiche recenti hanno fornito dati che dimostrerebbero l’esistenza di accordi tra differenti paesi europei e la Resistenza palestinese tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta. Allora, quanta consapevolezza avevano i dirigenti politici italiani del terrorismo internazionale?

Gli Stati europei si impegnarono in uno scambio di notizie già a partire dal 1965, concretizzando la collaborazione con l’istituzione del Club di Berna e la condivisione di sistemi di comunicazione particolari. Ma, dalle fonti di cui si serve la Lomellini, emerge una duplice contraddizione. Se a livello europeo i governi sembravano concordi nell’indicare una correlazione tra il fenomeno del terrorismo arabo-palestinese e l’operato dell’Unione Sovietica, a livello nazionale si stavano adoperando singolarmente per aprire un dialogo con la Resistenza palestinese. Questo assunto sembra essere all’origine degli sviluppi che connotarono anche le scelte italiane: l’Italia, pur essendo portavoce di una lettura che indicava il terrorismo arabo-palestinese come collegato al Pci e al Psiup, si interessò in modo autonomo nella mediazione.

Il lavoro della Lomellini conferma quindi l’esistenza di un accordo anche nel caso italiano, ma non con le peculiarità assunte nell’uso volgare. Attraverso un’attenta periodizzazione, la storica riesce a far comprendere lo sviluppo della risposta italiana al terrorismo internazionale. Nel volume si riscontra la distinzione di due «macro-fasi», accuratamente ricostruite prendendo in considerazione il medesimo ordine di fattori: l’evoluzione della minaccia terroristica, la continua ridefinizione degli interlocutori e le dinamiche del contesto internazionale. La prima fase si estende dalla fine degli anni Sessanta al 1973. Di carattere più informale, vede in termini di gestione la prevalenza della collaborazione tra i Servizi segreti, il Ministero degli Esteri e i dicasteri degli Interni e di Grazia e Giustizia. Il terrorismo risulta essere a bassa intensità e selettivo, con un numero di vittime contenuto, tra cui prevalgono diplomatici e personale delle ambasciate. Una seconda fase procede dal 1974 al 1985, più formale e con un ruolo determinante della Farnesina e della Presidenza della Repubblica.

L’attentato all’aeroporto di Fiumicino del 17 dicembre 1973 viene riconosciuto come spartiacque: a questa azione non solo corrisponde un’inversione di tendenza nell’operatività del terrorismo (venne abbandonata la finalità selettiva, con il coinvolgimento di ben tre aeromobili), ma anche dei sostanziali mutamenti negli attori coinvolti, nella stabilità interna alla Resistenza palestinese e nelle modalità di collaborazione della classe dirigente italiana.

Gli accadimenti del 1973 vengono introdotti da un interrogativo aggiuntivo: sarebbe stato possibile prevenire la strage da un punto di vista politico? È un documento datato 26 ottobre dello stesso anno, che la Lomellini annovera tra quelli più significativi, a confermare elementi di novità. Il dialogo tra la Resistenza palestinese e l’Italia prevedeva la partecipazione di importanti esponenti della Democrazia Cristiana e di alcuni dirigenti del Partito socialista: «la paternità del “lodo” era multipla» (p. VII), non poteva quindi essere ricondotta solo alla figura dell’allora Ministro degli Esteri. Agli interlocutori, seppur distinguibili tra la prima e la seconda fase, era nota la presenza di trattative con la Resistenza palestinese, tanto da portarli a ragionare sulla mancata tenuta delle direttive.

Il processo di identificazione dei mandanti dell’attentato di Fiumicino e il rafforzamento della consapevolezza dei dirigenti politici italiani sui contrasti interni e le influenze esterne alla Resistenza palestinese permettono di aggiungere un ulteriore livello analitico al quadro interpretativo. Il libro dimostra come lo scambio avvenuto tra governo italiano e Resistenza palestinese, oltre a non rappresentare un’eccezione nel panorama europeo, non costituisce una singolarità neppure nel contesto nazionale: con un rafforzamento a partire proprio dal 1973, l’Italia fu impegnata anche nei confronti di una serie di stati sostenitori del terrorismo internazionale, come Libia, Iraq e Siria. Queste integrazioni consentono di ridefinire il significato di “lodo” così come conosciuto sino ai giorni nostri: da una questione di sicurezza nazionale – in primis volta a tutelare i cittadini – a nodo di saldatura tra crisi energetico-economica e interessi governativi per il posizionamento geopolitico dell’Italia come mediatrice tra gli Stati arabi e la Comunità europea. Dalla metà degli anni ’70 sembra quasi capovolgersi la sequenzialità. Emerge in modo esplicito la finalità alla base delle modalità operative e strategiche scelte dai dirigenti italiani: la difesa della sicurezza statuale mediante la conservazione di rapporti vantaggiosi intessuti con i paesi del mondo arabo.

Se ancora in una proposta di inchiesta parlamentare presentata il 4 maggio 2021 si alludeva al “lodo Moro” come «l’accordo tra i Servizi segreti italiani e palestinesi» gestito dal colonello Stefano Giovannone, il volume della Lomellini fornisce una risposta chiara ed esauriente: «Il “lodo” era una questione di Stato. Il “lodo” era una politica dello Stato italiano che coinvolgeva alcuni esponenti della magistratura, i principali dicasteri, il cuore del governo e del Paese, nonché del partito che lo governava da quarant’anni con un ampio seguito elettorale, la Democrazia cristiana» (p. 94). «Un “lodo Italia”, quindi: non un “lodo Moro”» (p. 65), di cui non può indicarsi una data costitutiva, poiché risultante di un «processo dinamico di negoziazione continua» (p. 121). Destrutturare quindi il “lodo” da un’impostazione che lo pensa come un unico documento diplomatico fornisce l’opportunità di arricchire l’enumerazione delle caratteristiche che distinsero l’attività italiana in politica estera negli anni ’70.

Colmare questa lacuna storiografica permette di verificare la presenza di un’incompatibilità: in un periodo di nuove forme di mobilitazione e partecipazione politica, di espansione del percorso riformatore in materia di diritti civili e sociali – così come solo i più recenti studi scientifici hanno rilevato per quel decennio – l’approccio politico italiano al terrorismo sembra rimanere ancorato ad una configurazione di tipo tradizionale. Viene rilevata la tendenza della classe dirigente italiana a far uso di forme ufficiose e informali per fronteggiare fenomeni portatori di possibile instabilità. Scelte e conseguenze risolutive nel breve periodo, ma corresponsabili delle distorsioni emerse nella riflessione pubblica e politica successiva.

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