Corrado Ocone (1963) si occupa di filosofia e teoria politica, con particolare attenzione alle tematiche del neoidealismo italiano e del pensiero liberale. Collabora a vari organi di stampa nazionali e riviste accademiche. È direttore scientifico di Nazione Futura e membro del comitato scientifico della Fondazione Cortese di Napoli e della Fondazione Craxi. Tra i suoi numerosi volumi: Benedetto Croce. Il liberalismo come concezione della vita (2005); La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio (con N. Urbinati, 2006); Liberali d’Italia (con D. Antiseri, 2011); Il nuovo realismo è un populismo (con D. Di Cesare e S. Regazzoni, 2013); Liberalismo senza teoria (2013); Il liberalismo nel Novecento. Da Croce a Berlin (2016); Attualità di Benedetto Croce (2016); La cultura liberale. Breviario per il nuovo secolo(2018); Europa. L’Unione che ha fallito(2019); La chiave del secolo. Interpretazioni del Novecento(2019); Salute o libertà. Un dilemma storico-filosofico(2021); Il non detto della libertà(2022); Radici e libertà. Una filosofia per l'Europa (2024).
a cura di Danilo Breschi
Lei è ormai da molti anni uno studioso attento ed originale del liberalismo, in particolare della lezione crociana. Come definirebbe questa tradizione di pensiero? Quali gli apporti culturali, sociali e politici del liberalismo da cui non può prescindere una società contemporanea che si voglia solida e prospera?
Io farei una distinzione fra il pensiero di Benedetto Croce e la tradizione crociana, che sta a noi ri-attualizzare per la parte che ci interessa. Croce è un classico del pensiero: come tale appartiene a tutti, e tutti possono interrogarlo e confrontarsi con le sue opere. Come tutti i classici, egli ha partecipato al suo tempo, rappresentandolo nel pensiero, ma ha anche pensato, da par suo, gli eterni problemi del pensiero e della vita. Dal primo punto di vista, il “neoidealismo”, suo e di Gentile, ha rappresentato non solo una delle risposte reattive date dal pensiero europeo al positivismo, ma anche, più in generale, come ebbe a scrivere una volta Salvatore Natoli, la modalità italiana di partecipazione alla distruzione delle categorie epistemiche, che è stata propria di buona parte del pensiero contemporaneo. Croce, al contrario di Gentile, ha cercato di salvare il salvabile: prima si è fermato davanti alla soluzione “attualistica”, a cui pure sembra a volte indugiare (penso al concetto di “storia contemporanea” e in genere alle idee espresse in Teoria e storia della storiografia); poi si è fatto pensatore, con la migliore intellettualità europea, della “crisi della civiltà”, da lui esorcizzata in mille modi ma riaffiorata con prepotenza proprio con le ultime riflessioni sulla dimensione del “vitale”. Una riflessione che ci impegna ancora. E che soprattutto non può allontanarci da quel sentiero di realismo politico e senso della storia in cui consiste per me la parte più viva dell’eredità crociana. Il tema del liberalismo si inserisce in questa cornice perché Croce ha provato a pensare la libertà filosoficamente, cioè non tanto in modo metapolitico ma anche in modo impolitico o speculativo. Ha cercato di gettare ponti fra la libertà empirica e quella teoretica: un tentativo che alla fine, come la libertà stessa, si è dimostrato necessario ma impossibile. Croce dice poco in positivo ai liberali, ma li aiuta a diffidare di tutte le maschere illiberali che il potere può assumere e di tutte le teologie politiche, compresa quella stessa “liberale”. Egli ci ha insegnato a diffidare, detto altrimenti, del determinismo, del costruttivismo, del razionalismo in politica, del paternalismo, del “pensiero unico”. Il suo “liberalismo”, come ho argomentato in Il liberalismo nel Novecento. Da Croce a Berlin (Rubbettino, 2016), è su questi punti solidale con quello dei grandi liberali novecenteschi, pur molto diversi da lui per interessi e modalità di pensiero: Hayek, Popper, Oakeschott, Berlin. Questi apporti culturali, sociali e politici del liberalismo sono sempre validi, anche se sembrano apparentemente in crisi nel nostro mondo. E andrebbero rimessi in moto non per creare una società più solida e prospera, che può esistere solo nelle utopie, ma per salvare non certo il pianeta, come vorrebbe l’ideologia contemporanea, ma l’uomo stesso nella sua umanità. Se come io penso il liberalismo non esista ma esiste solo la continua lotta per la libertà, ovvero della libertà col suo opposto, le sfide di oggi si pongono sui terreni del politicamente corretto, del progresso tecnico (l’Intelligenza Artificiale), di un potere sempre più “sorvegliante”, dei cosiddetti post- e trans-umanesimi.
Il liberalismo è una tradizione di pensiero specificamente europea, occidentale, ma può essere attrattiva anche per popoli di altre tradizioni, oppure è destinata a suscitare solo e soltanto ripulsa e ostilità
Non so se la lotta per la libertà sia specificamente europea, occidentale. Oppure, come io immagino, universalmente umana. Quanto al liberalismo penso che lei si riferisca al liberalismo politico, che è essa sì una tradizione specificamente occidentale, seppur con accentuata propensione universalistica. Nulla vieta che altre civiltà possano declinare in altri modi le esigenze “liberali”. L’economista americano e premio Nobel Amartya Sen ha mostrato come una cultura e una civiltà come quella indiana non sia in linea di principio incompatibile con i valori della democrazia liberale. Forse il discorso si pone in modo diverso per una civiltà di impronta organicistica quale quella cinese, in cui anche porre il concetto di individuo risulta problematico. In ogni caso, credo che il conflitto fra necessità e libertà sia universalmente umano, così come credo che vitale sia la stessa tensione che viene a crearsi fra i due poli, come ho argomentato in un altro mio libro: Il non detto della libertà (Rubbettino, 2022). In quel libro argomentavo sull’impossibilità e contraddittorietà di una libertà assoluta, concludendo che la libertà è impossibile e necessaria al tempo stesso. Mi rendo conto che il mio è un discorso prettamente filosofico, ma credo che esso possa avere delle “ricadute” anche in un senso più lautamente empirico. Se non altro perché siamo chiamati a concepire in modo meno ingenuo la libertà e lo stesso liberalismo. A non ragionare per schemi prestabiliti, deterministicamente.
Dall’esito delle recenti elezioni del Parlamento europeo che bilancio ricava per la tradizione liberale? Ne esce sconfitta, come parrebbe, oppure no?
Le elezioni europee hanno confermato la sempre più massiccia insofferenza, in questo senso “liberale”, di un’ampia parte degli europei per il carattere costruttivistico impresso all’Unione Europea dal suo ceto dirigente, sempre più lontano dai problemi reali e concreti dei cittadini: la sicurezza, l’immigrazione, la mancanza di senso e di prospettive per il futuro. È qui che si collocano, fra l’altro, i temi della disaffezione per la politica, nonché della cosiddetta “crisi della democrazia”, che tanto tengono impegnata l’intelligencija liberal. L’Unione Europea attuale ha un grosso deficit democratico, ma le classi dirigenti europee non sembrano accorgersene. Ma ha anche un grosso deficit liberale, se è vero che il liberalismo si costruisce dal basso e non impone modelli dall’alto. La libertà non tollera il conformismo, la standardizzazione, l’omogeneizzazione, il “pensiero unico”, il regolismo e la razionalizzazione estrema. Tutti i mali che l’attuale Unione Europea mi sembra avere in sommo grado.
Rispetto al liberalismo, e non solo, come si configurano oggi destra e sinistra, se per Lei hanno ancora un senso?
Mi sembra evidente che oggi sia in atto, in tutto il mondo occidentale, una “guerra culturale”, con immediati risvolti politici, fra una visione del mondo progressista con forti conati illiberali, regolistici, dirigistici, costruttivistici; e una visione del mondo opposta, più attenta alle specificità e alla costitutiva (e necessaria) imperfezione dell’essere umano. Lungo questo crinale si sono riformulate la sinistra e la destra, pur con tutte le contraddizioni del caso. La distinzione conserva perciò una sua validità, seppur empirica ed orientativa come sempre. Da che parte debba posizionarsi chi ha a cuore la libertà, pur conservando la sua autonoma facoltà di giudizio, a me non pare dubbio. Lungi dall’essere una forma di antipolitica, il liberalismo come io lo concepisco è fortemente politico, nel duplice senso che ha a cura la polis e che vorrebbe restituire alla politica quel suo intrinseco carattere dialogico. Un carattere che si è perso con la modernità, che è andata sempre più concependo la politica come artificio e “fabbricazione”.
Rispetto alle sfide, o minacce vere e proprie, che incombono sull’Unione europea, come ad esempio la guerra con la Russia e la concorrenza commerciale sempre più aggressiva e invasiva di una superpotenza come quella cinese, che cosa può dirci e darci oggi il liberalismo?
Per intanto credo che le due crisi a cui Lei accenna, la russa e la cinese, possano risolversi con più realismo politico, un elemento purtroppo in gran parte assente nell’attuale ceto dirigente occidentale. Certo, ci troviamo di fronte ad una riproposizione del vecchio schema politico che ha dominato nella guerra fredda, quello della lotta fra autocrazie e “società aperte”, seppure in un orizzonte allargato di molto.. Però è solo facendo politica, spezzando il fronte avversario, usando il bastone e la carota, l’Occidente può aspirare a vincere questa guerra, come vinse (alleandosi col totalitarismo sovietico) la seconda guerra mondiale e come vinse la “guerra fredda”. Di realismo però non ne vedo molto in giro. Così come non vedo grandi leadership, soprattutto nel Paese guida dell’Occidente. Se si riproporrà la sfida fra Trump e Biden, non ho però dubbi con chi stare. Fatta la tara dei suoi tanti difetti, l’ex presidente mi sembra che abbia alla fine, alla prova dei fatti, fatto bene in politica internazionale: ha difeso gli interessi dell’Occidente e ha garantito la pace negli scacchieri caldi del globo.