Valerio Pellegrini (1984), ricercatore. Si è laureato in Giurisprudenza presso la Sapienza Università di Roma in Diritto Pubblico Comparato. Ha conseguito il Dottorato di ricerca presso l’Universidad de Valencia in Sostenibilità e pace nell’era post-globale, con un focus in Diritti umani e globalizzazione, nel maggio del 2021. Tra le sue pubblicazioni: I minori stranieri non accompagnati nell’ordinamento spagnolo in Il sistema attuale di protezione internazionale. Austria, Francia, Regno Unito, Spagna (ESI, Napoli, 2010, pp. 273 –293); La crisi dei diritti umani in Francia e in Belgio a fronte del terrorismo, supplemento al n. 3-4 di "Formamente" (Gangemi Editore, 2016, pp. 83-112); I diritti dei minori: il lascito di Maria Rita Saulle, una sfida per il futuro, in "Nuova Etica Pubblica" (A. 5, n. 9, 2017), nonché la monografia I diritti universali delle comunità. Dalla globalizzazione dell'indifferenza a quella generativa (presentazione di G. Buttà, pref. di D. Breschi, Aracne, Roma 2022). Ha lavorato per l’UE e per lo European Patent Office. Attualmente svolge attività di consulenza come Policy Officer per le policies europee. Appassionato di filosofia, cerca, nei suoi scritti, di ridare un respiro esistenziale alla quotidianità e alle sfide politiche. Collabora con "il Riformista".

Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.

Inizia così Il mito di Sisifo di Albert Camus. È un quesito che percorre tutta la riflessione camusiana, da Sisifo fino a giungere all’opera del 1951 L’uomo in rivolta. È forse proprio in questo testamento filosofico e spirituale del filosofo algerino che si possono rintracciare non solo le domande che lo inquietano ma anche la sua risposta esistenziale e politica.

L’uomo in rivolta, difatti, è anche un manifesto politico, un lascito per le generazioni a venire. In un Occidente, e più precisamente in un’Europa, che sembra aver smarrito il senso del suo esistere e una visione per il futuro, questo libro, se letto attentamente, potrebbe essere un tesoro per una rinascita collettiva. In esso viene ripercorso tutto il cammino filosofico di fine Ottocento e del primo Novecento. Il fiume carsico che percorre tutto il libro è l’inquietudine che assilla Camus, il suo trovare una risposta alla domanda posta da Sisifo. Davanti all’assurdità della vita e degli orrori della guerra, vale la pena vivere? Il nichilismo dell’oltreuomo nicciano è una risposta finale della consapevolezza umana?

Per Camus l’essere dell’umano, non il suo senso, è intimamente legato alla rivolta. Per il filosofo, ogni rivoluzione sembrerebbe trovare il suo fondamento in una rivolta. Una rivolta metafisica dell’uomo contro lo stato di cose presenti. Potremmo dire che «l’uomo in rivolta è un uomo che dice no e allo stesso tempo sì»[1]. Il movimento di rivolta si basa simultaneamente sul netto rifiuto di un’intrusione considerata insopportabile e sulla sfumata convinzione di un diritto, o più precisamente, sull’incerta sensazione di colui che si ribella di possedere, in qualche modo e in qualche luogo, una ragione valida. Dal punto di vista etimologico, rappresenta un voltafaccia. L’individuo che precedentemente camminava sotto il peso del dominio del padrone, ora fa fronte.

La rivolta – scrive infatti Camus – con questo, prova di essere il moto stesso della vita, e non la si può negare senza rinunciare a vivere. Il suo grido più puro, ogni volta, suscita un essere. È dunque amore e fecondità, o non è niente. La Rivoluzione senza onore, la rivoluzione del calcolo che, preferendo un uomo astratto all’uomo di carne, nega l’essere tante volte quante occorrono, mette appunto il risentimento al posto dell’amore. Non appena la rivolta, dimentica delle sue generose origini, si lascia contaminare dal risentimento, nega la vita, corre alla distruzione e fa alzare la coorte ghignante di quei piccoli ribelli, seme di schiavi, che finiscono per offrirsi, oggi, su tutti i mercati d’Europa, a qualsiasi servitù[2].

Oggi l’Europa si rivolta contro qualcosa oppure accetta supinamente di vendersi al miglior offerente? A cosa dice no e a cosa dice sì?

Quel che sembra prevalere oggi in Europa, ma non solo, è una concezione di übermensch che vive al di là del bene e del male e non immerso nel male per trasformarlo in bene.  In altre parole, lo spettro che si aggira per l’Europa è lo spettro dell’indifferenza e del manicheismo. D’altra parte, la scoperta della morte del dio della morale di Nietzsche ha come diretta conseguenza l’assenza di valore. Lo stesso Nietzsche, scrive Camus, aveva scoperto che

se la legge eterna non è libertà, ancora meno lo è l’assenza di legge. Se nulla è vero, se il mondo è senza norma, nulla è proibito: per vietare un’azione, occorrono un valore e un fine. Ma allo stesso tempo nulla è autorizzato: valore e fine occorrono anche per eleggere un’altra azione. L’imperio assoluto della legge non è libertà, ma l’assoluta disponibilità neppure. Tutti i possibili sommati insieme non fanno la libertà, ma l’impossibile è schiavitù. Non c’è libertà se non in un mondo nel quale ciò che è possibile si trovi definito insieme a ciò che non lo è. Senza legge, nessuna libertà[3].

In Nietzsche si sostituisce al “se nulla è vero tutto è lecito” di Karamazov, un “se nulla è vero, nulla è lecito”. Infatti, «negare che anche una sola cosa sia vietata a questo mondo equivale a rinunciare a ciò che è lecito. Dove nessuno può dire più che cosa sia nero e che cosa bianco, la luce si spegne e la libertà diviene prigione volontaria»[4]. È la condizione dell’übermensch, dell’uomo-dio astratto.

Nel momento in cui la rivoluzione che ha portato in secoli e secoli di dolore, sofferenze, riflessione, battaglie, rivoluzioni e guerre, a costruire le istituzioni che oggi conosciamo perde il suo seme, il seme della rivolta direbbe Camus, perde contatto con la sua essenza. Il rischio è quello di perdere il grido più puro, l’amore e la fecondità a favore di una neutralità sterile e asfittica, un tirare a campare. Quando le leggi e la rivoluzione divenuta struttura perdono contatto con l’essenza che le ha fatte nascere, per citare la teoria del diritto vivente, diventano entità vuote. Proiezione perfetta dell’uomo post-moderno che le ha create. 

La rivolta si adempie e si perpetua nella vera creazione, non nella critica o nel commento. A sua volta, la rivoluzione può affermarsi soltanto in una civiltà, non nel terrore o nella tirannia[5].

L’atto creativo soggiace al mondo della metafisica, rifiuta il reale, per renderlo regale. D’altra parte per Camus «la rivoluzione è amare un uomo che ancora non è venuto ad esistenza». Oggi più che mai le riflessioni di Camus, ed in particolare quelle contenute ne L’uomo in rivolta, risuonano nelle coscienze di un’Europa ed un occidente stanchi, che forse hanno accettato il suicidio in nome di un übermensch distaccato dal reale, asettico, neutrale, indifferente. L’assurda tragicità del vivere “è troppo”, sembra esserci un eccesso di male al quale non si vuole far fronte e alla rivolta si preferisce la sedazione ossia il rifugio nell’oltreuomo che tutto può ma nulla fa, dell’uomo che abbattuto il dio della morale incontra l’horror vacui della tutta-possibilità, della libertà assoluta al dilà del bene e del male in un paradiso artificiale. Nel momento in cui scopre di essere Dio, per Camus, l’uomo cade nel nichilismo. È a questo punto che il filosofo scrive alcune tra le parole più illuminanti per la nostra civiltà e in particolare per l’Europa. Meritano di essere riportate per intero:

quando la rivoluzione, in nome della potenza e della storia, si converte in meccanismo omicida e smisurato, diviene sacra una nuova rivolta, in nome della misura e della vita. Siamo a questo estremo. In fondo alle tenebre avvertiamo già l’inevitabile luce e non ci resta che lottare perché sia. Al di là del nichilismo, noi, tutti, tra le rovine, prepariamo una rinascita. Ma pochi lo sanno. È già, in realtà, la rivolta. Senza pretendere di risolvere tutto, può almeno fronteggiare. Da quell’istante, il meriggio zampilla e scorre sul movimento stesso della storia. Intorno al braciere divorante, battaglie d’ombre s’agitano un attimo, poi scompaiono; e alcuni ciechi, toccandosi le palpebre, gridano che questa è la storia. Gli uomini d’Europa, abbandonati alle ombre, si sono distolti dal punto fisso e irraggiante. Scordano il presente per l’avvenire, la preda degli esseri per il fumo della potenza, la miseria dei sobborghi per una città radiosa, la giustizia quotidiana per una vana terra promessa. Disperano della libertà delle persone e vanno fantasticando di una strana libertà della specie; rifiutano la morte solitaria, e chiamano libertà una prodigiosa agonia collettiva. Non credono più a ciò che è, al mondo e all’uomo vivo; l’Europa non ama più la vita, questo è il suo segreto. I suoi ciechi hanno creduto puerilmente che amare un solo giorno di vita equivalesse a giustificare secoli d’oppressione. Per questo hanno voluto cancellare la gioia dalla scena del mondo, e rimandarla a più tardi.

E aggiunge:

L’impazienza dei limiti, il rifiuto del loro duplice essere, la disperazione d’essere uomini li hanno gettati infine in una dismisura inumana. Negando la giusta grandezza della vita, hanno dovuto puntare tutto sulla propria eccellenza. In mancanza di meglio, hanno divinizzato sé stessi e la loro sciagura ha avuto inizio: questi dèi hanno gli occhi squarciati. Kaliayev, e i suoi fratelli del mondo intero, rifiutano invece la divinità poiché respingono il potere illimitato di dare la morte. Eleggono, e ci danno a esempio, la sola regola che sia oggi originale: imparare a vivere, a morire e, per essere uomo, rifiutare di essere dio.  Al meriggio del pensiero, l’uomo in rivolta rifiuta così la divinità per condividere le lotte e la sorte comune. Sceglieremo Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa. Nella luce, il mondo resta il nostro primo e ultimo amore. I nostri fratelli respirano sotto il nostro stesso cielo, la giustizia è viva. Allora nasce la gioia strana che aiuta a vivere e a morire e che rifiuteremo ormai di rimandare a più tardi. Sulla terra dolorante, essa è la gramigna instancabile, l’amaro nutrimento, il vento duro venuto dai mari, l’antica e nuova aurora. Con lei, rifaremo l’anima di questo tempo e un’Europa che, essa, non escluderà nulla. Né quel fantasma, Nietzsche, che per dodici anni dopo il suo crollo, l’Occidente andava a visitare come l’immagine folgorata della sua più alta coscienza e del suo nichilismo; né quel profeta della giustizia senza tenerezza che riposa, per errore, nel recinto dei miscredenti al cimitero di Hihgate; né la mummia deificata dell’uomo d’azione nella sua teca di vetro, né cosa alcuna di ciò che l’intelligenza e l’energia d’Europa hanno fornito senza posa all’orgoglio di un tempo miserabile. Tutti possono rivivere, infatti, accanto ai sacrificati del 1905, ma a condizione di capire che si correggono l’un l’altro e che tutti, nel sole, li ferma un limite. Ognuno dice all’altro che non è Dio; qui termina il romanticismo. In quest’ora in cui ognuno di noi deve tendere l’arco per rifare la prova, per conquistare, entro e contro la storia, quanto già possiede, la magra messe dei suoi campi, il breve amore di questa terra; nell’ora in cui nasce infine un uomo, bisogna lasciare l’epoca e i suoi furori adolescenti. L’arco si torce, il legno stride. Al sommo della più alta tensione scaturirà lo slancio di una dritta freccia, dal tratto più duro e libero[6].  

L’unica rivolta possibile oggi per l’übermensch occidentale ed europeo è, nella consapevolezza della libertà assoluta alla quale possiamo accedere nei mondi delle idee, quella di scegliere di non essere Dio ma di essere uomo. L’unica scelta per la civiltà occidentale ed in particolare europea è quella di abdicare in favore di un’umanità che ancora non esiste davanti alla tragicità dell’assurdo in cui viviamo in particolare in questi tempi. Solo così le sue istituzioni, proiezione di noi stessi, potranno rivivere di una luce nuova in una rivolta d’amore, per dirla con Camus: mi rivolto dunque siamo.

NOTE

[1] A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2014, p. 17.

[2] Ivi, pp. 332-333.

[3] Ivi, p. 206.

[4] Ivi, p. 207.

[5] Ivi, p. 297.

[6] Ivi, pp. 668-672.

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