Denis de Rougemont (1906-1985), scrittore e filosofo svizzero, è annoverato tra quei “non-conformisti degli anni Trenta” che si batterono per individuare una terza via oltre il liberalismo e il marxismo, senza precipitare nei gorghi del totalitarismo. Vicino al personali­smo di Emmanuel Mounier, collaborò alle riviste «Esprit» e «L’Ordre nouveau». Noto so­prattutto per la sua opera L’amour et l’Occident (1939), nel secondo dopoguerra ha coniugato la sua attività letteraria alle battaglie per l’Europa e l’ecologismo. Insieme ad Alexandre Marc, è considerato uno dei maggiori rappresentanti del federalismo integrale. Tra le traduzioni italiane più recenti di alcuni suoi lavori, si segnalano: L'avventura occidentale dell'uomo(pref. di D. Bondi, Edizioni Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2018), Manifesto ecologico per un'Europa diversa(a cura di G. Giaccio, Bietti, Milano 2021) e I miti dell'amore (a cura di S. Morigi e D. Bondi, Edizioni Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2023).

Pubblichiamo l’introduzione della Lettera Aperta agli Europei di Denis de Rougemont, pubblicata nel 1970. Per chi non conoscesse questo autore, o per chi lo conoscesse soltanto per L’Amore e L’Occidente, ricordiamo alcuni brevi dati: Rougemont (1906-1985) negli anni Trenta del Novecento fa parte del movimento del personalismo francese, fremente laboratorio politico e filosofico tra le due guerre, dove matura le sue convinzioni personaliste, europeiste e federaliste. Dopo un periodo di esilio americano, partecipa attivamente alla fondazione dell’Unione Europea: è relatore della Commissione culturale del Congresso dell’Aia nel 1948, presidente della prima Tavola Rotonda del Consiglio d’Europa nel 1952, e creatore e direttore a vita del Centro Europeo della Cultura (CEC), da cui ha preso forma il CERN ginevrino. La sua linea federalista e fondata sulla cultura si rivelerà minoritaria, ed è forse anche per questo che molti dei problemi elencati in questa lettera sono ancora oggi presenti e discussi a livello europeo. Altre cose sono cambiate: tra le altre, la minaccia della guerra, che nel 1970 Rougemont vedeva fortunatamente lontana e che invece nel 2024 bussa nuovamente alle nostre porte con insistenza.

A Ginevra, nei pressi di Place des Nations, si trova rue Denis-de-Rougemont: qui sorge la sede europea delle Nazioni Unite. Significativamente, è una strada senza sbocco. Forse converrebbe riaprire il cantiere.

Introduzione e traduzione a cura di Damiano Bondi

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Ferney-Voltaire (Ain), Francia, 21 febbraio 1970

Albanesi!

Tedesche federate e dell’Est, Tedeschi federati e dell’Est!

Austriache, Austriaci!

Baltiche e Balti dell’Estonia, Lettonia, Lituania!

Belghe, Belgi!

Bulgare, Bulgari!

Cipriote, Ciprioti!

Danese, Danesi!

Spagnole, Spagnoli!

Finlandesi!

Francesi!

Britanniche, Britannici!

Ellene e Greci!

Olandesi!

Ungheresi e Magiari!

Irlandesi!

Italiane, Italiani!

Lussemburghesi!

Maltesi!

Norvegesi!

Ottomane e Turchi!

Polacche, Polacchi!

Portoghesi!

Rumene, Rumeni!

Svedesi!

Svizzere e Svizzeri dei ventidue cantoni!

Cecoslovacchi!

Jugoslave e Jugoslavi!

A tutti voi, in sintesi, a cui mi rivolgo non senza alcuni scrupoli di dettagli, dovrete perdonarmi se semplificherò ancora di più la prossima volta che vi rivolgerò la parola o chiederò soltanto la vostra attenzione. Perché non potremo mai fare nulla insieme se ogni volta dobbiamo iniziare elencandoci nei due generi e secondo l’ordine alfabetico, il che richiede più di ottanta parole di saluto prima di dire qualcosa e dà solo un’idea vaga dei fastidi, degli ostacoli, delle perdite di tempo e di energia che comporta l’esistenza dei nostri Stati-Nazione, ogni volta che si tratta di collaborare per qualsiasi cosa. Lasciatemi quindi dire semplicemente a voi:

Europee, Europei!

Perché abbiamo molto da fare insieme, e senza indugi.

(Il generale De Gaulle non avrebbe mai potuto diventare il primo presidente d’Europa, appunto perché non avrebbe mai accettato di iniziare i suoi discorsi con nient’altro che “Albanesi!” e così via. Era e rimane convinto che l’unica realtà che conta sia nazionale.)

Ma mi dicono che voi non esistete!

Mi dicono che in Europa esistono solo Francesi, Inglesi, Tedeschi, Svizzeri, Albanesi, ecc., e che gli “Europei” sono solo un’illusione. In questo senso, non ci sono Svizzeri, ma solo cittadini di ventidue stati sovrani chiamati cantoni; non ci sono Francesi, ma Bretoni, Baschi, Occitani, Alsaziani, Nizzardi, Poitevini, Catalani, Franco-Comtois, Borbonici, Bearnesi, Savoiardi, Lorreni, Corsi, e così via. La Francia, la Svizzera e le altre nazioni non sono solo mere illusioni, ma realtà ben marcate sulle mappe e circondate da confini doganali. Tuttavia, sono più transitorie della Bretagna, della Castiglia, della Scozia o di Berna, che esistevano molto prima dello Stato-Nazione in cui sono oggi inglobati, e che sicuramente sopravvivranno ad esso.

Il problema si riduce a questo:

  • o siete prima di tutto e per sempre Francesi, o Cechi, o Svizzeri, e credete di dover rifiutare l’Unione Europea a causa di questo; ma un giorno scoprirete – voi o i vostri figli – che non siete più davvero Francesi, Cechi o Svizzeri, oppure che ormai lo siete soltanto per titolo onorifico, per cortesia o per semplice routine amministrativa che sopravvive alle condizioni di fatto, ma non importa, perché in realtà sarete Americani o Sovietici per alleanza obbligatoria, economica, sociale o ideologica;
  • oppure scegliete l’Unione Europea, e fondate l’unica autorità capace di salvaguardare la vostra identità nazionale e regionale, il vostro modo di essere diversi, il vostro diritto di rimanere voi stessi.

In altre parole: se non esistete come Europei, non esisterete più, o non ancora per molto, come Francesi, Cechi o Svizzeri. Sarete colonizzati uno dopo l’altro, e insensibilmente snaturati dal dollaro o dai vostri partiti comunisti, come lo siete stati, non molto tempo fa, dal nazionalsocialismo.

Non esisterete più, a meno che non abbiate riconosciuto che dipende da voi esistere – perché, in fondo, siete già qui, siete tutti qui da secoli, e si tratta solo di riconoscerlo! Quelli che dicono che non esistete avranno ragione, finché voi manterrete le vostre divisioni. Perché potete esistere solo tutti insieme.

Ma allora, tutti insieme, sarete più e meglio della somma dei due grandi che oggi vi schiacciano, che discutono del destino del mondo sopra le vostre teste e sono pronti a giocare ai dadi per il vostro controllo. Ve lo dimostro.

Agli ultimi censimenti, gli Stati Uniti avevano poco più di 200 milioni di abitanti, l’URSS poco più di 230 milioni, e i trenta paesi europei insieme 480 milioni (di cui 360 a ovest, 120 a est).

Queste quantità demografiche dicono ovviamente solo una parte della storia: le qualità dell’operaio, del filosofo e dell’artista europei – senso della tradizione e gusto per l’innovazione in stretta interdipendenza – fanno dell’alta densità di popolazione un vantaggio che altrove, in India e in Cina, ad esempio, costituisce un pesante handicap.

Ammettete che sia quantomeno curioso che l’Europa si senta schiacciata tra due giganti più piccoli di lei, che nemmeno raggiungerebbero le sue dimensioni mettendosi l’uno sull’altro, e che inoltre sono lontani dall’essere alleati contro di lei: sono tra loro rivali, e uno è nostro alleato, mentre l’altro è il despota che circa un quarto di noi subisce ancora.

Ma il vostro pessimismo e la vostra angoscia si spiegano e paradossalmente si “giustificano” per il fatto stesso che li causa e che voi mantenete gelosamente: la divisione dell’Europa in una trentina di Stati-Nazione, ognuno dei quali pretende la sovranità assoluta. Non vi sentite cittadini di una nazione di 500 milioni in divenire, che supera la somma dei due Grandi, ma solo di uno Stato piccolo che non fa peso, che non è più all’altezza del nuovo mondo. Questo perché l’Unione Europea non è stata realizzata, e quindi è assolutamente necessario farla affinché la nostra capacità globale si realizzi, non solo nelle statistiche ma nelle coscienze, non solo di fronte al mondo che può fare a meno di noi, in caso di necessità, ma di fronte alla nostra vocazione, e meno per costruire una potenza collettiva che per vivere le nostre libertà. Non è più una questione di vita o di morte: si può benissimo vivere all’americana, un po’ meno bene sotto la morsa del PC, ma bisogna essere uccisi per questo? Better red than dead! (Meglio rossi che morti!) diceva Bertrand Russell nel 1961.

Ne va del senso delle nostre vite…

Da tempo vi si dice questo, e voi non avete orecchie per ascoltare.

Tutto inizia nel 1308, quando Pierre Dubois, giurista di Filippo il Bello, indirizza a tutti i principi d’Europa una lettera aperta esortandoli a unirsi contro i Turchi. In realtà, voleva proteggere il popolo europeo dall’anarchia degli stati sovrani, allora nascenti. Gli stessi motivi, uno dichiarato e l’altro reale, vengono ripresi nel secolo successivo da Giorgio di Podiebrad, re di Boemia, e dal suo avversario papa Pio II, il giorno dopo la caduta di Bisanzio. In entrambi i casi, si propone un esercito comune, un parlamento europeo, un tribunale di arbitrato sovranazionale, il tutto accompagnato da sanzioni economiche e da una capitale ambulante, che cambia sede ogni cinque anni. Nel XVII e XVIII secolo, nascono sei progetti principali di unione europea: il Nuovo Cinea di Emeric Crucé, monaco parigino, nel 1623; il Grand Dessein del duca di Sully, ministro ugonotto di Enrico IV, nel 1638; il Risveglio universale di Amos Comenio, vescovo della Chiesa morava, nel 1645; l’Essay on the Present and Future Peace of Europe di William Penn, quacchero inglese e fondatore di uno stato americano importante, nel 1692; a cui si aggiungeranno due Progetti di pace perpetua, quello dell’abate di Saint-Pierre nel 1712 e quello di Emmanuel Kant nel 1795. Ogni autore si riferisce almeno a uno dei piani precedenti al suo, ma come se fosse l’unico a notarlo, a meno che non si tratti del Grand Dessein, sempre citato, ma che nessuno ha potuto leggere, e per chiari motivi[1]. Tutti chiamano all’unità contro la guerra, come se la guerra non fosse il passatempo preferito dei principi, in attesa che lo diventi dei popoli, grazie alle conquiste della Rivoluzione. In seguito, mutano i motivi dell’unione. Henri de Saint-Simon pubblica nel 1815 un piano che intitola: Della riorganizzazione della società europea, o della necessità di radunare i popoli d’Europa in un solo corpo politico, conservando ciascuno la propria indipendenza nazionale. Rompendo con la tradizione dei grandi isolati che si rivolgevano solo ai principi, propone ai popoli di eleggere un Parlamento europeo “posto al di sopra di tutti i governi nazionali”. Propone ai Francesi e agli Inglesi di fondere le loro politiche. E pone il problema sul piano degli interessi comuni e degli impegni solidi. È già il Mercato comune di Jean Monnet! “Ogni volta che ci si riunisce, sia che si tratti di un gruppo di persone o di una comunità di popoli, ci vogliono istituzioni comuni, ci vuole un’organizzazione: altrimenti, tutto si decide con la forza”. Tuttavia, da queste dottrine non sarebbe risultata l’Unione Europea, ma i falansteri di Fourier e le grandi imprese capitaliste del canale di Suez e del canale di Panama. Né la lotta contro il nemico comune o contro i tiranni, né il desiderio di pace, né la ricerca della prosperità hanno mai convinto i nostri leader. All’unione – l’unico mezzo che porti a tali fini – hanno preferito in generale la guerra nazionale o civile, con le tirannie a catena e crisi a cascata che ogni guerra provoca. Altrimenti, dov’è la politica, come la intendono loro? Senza osare ammettere di aver bisogno della guerra, la presentano come una realtà inevitabile e, per verificarla, scatenano la guerra mondiale. È proprio contro il nazionalismo, il quale sta dimostrando appieno le sue capacità, che Coudenhove-Kalergi, a partire dal 1922, darà vita al Movimento Paneuropeo. Questa prima azione militante per l’Europa si tradurrà solo nel bellissimo testo del memorandum scritto da Alexis Léger e presentato da Aristide Briand alla Società delle Nazioni nel settembre 1930: la SDN dimenticherà persino di sopprimerlo, nel suo stupore di fronte al primo trionfo elettorale di Hitler, annunciato pochi giorni dopo. Ma, fin dai primi anni ’30, alcuni movimenti giovanili si cercano e si trovano al di sopra delle frontiere, in Francia, in Svizzera, in Gran Bretagna e in Belgio, ma anche in una Germania già quasi hitleriana e persino nell’Italia fascista. Questa Internazionale che non ha bisogno del nome si proclama contemporaneamente anticapitalista, antifascista e anticomunista. Oppone la persona all’individuo atomizzato, la comunità al collettivismo forzato, e il federalismo integrale allo Stato-nazionalismo dominante. Quest’ultimo celebra finalmente il suo trionfo nei paesi totalitari, amaramente criticati dalle “democrazie” che non sono andate fino in fondo al loro nazionalismo e al loro statalismo, e che ne fanno dei complessi, come previsto da Freud. La guerra scoppia e subito tutto accelera. Si organizza un’azione politica, economica e culturale in Europa e per l’Europa, decisa a trasformare in realtà federaliste immediate la guerra degli Stati-Nazione, persa da tutti, e la passione della resistenza europea. È finito il tempo dei piani senza seguito. D’allora in poi, tutto è concatenato e si autoalimenta: ogni nuovo passo diventa indispensabile per assicurare il precedente. Ecco la successione degli eventi. Nella primavera del 1944, si riuniscono clandestinamente in una villa di Ginevra, e per quattro volte, il 31 marzo, il 29 aprile, il 20 maggio e il 7 luglio, militanti della Resistenza di nove paesi europei. Elaborano una dichiarazione comune, constatando la solidarietà che unisce i popoli nella lotta contro l’oppressione nazista. Designano gli obiettivi morali, sociali, economici e politici di un’unione dei loro paesi e dichiarano:

«Questi obiettivi non possono essere raggiunti se i vari paesi del mondo non accettano di superare il dogma della sovranità assoluta degli stati, integrandosi così in un’unica organizzazione federale. La pace europea è la chiave di volta della pace mondiale. Infatti, nello spazio di una sola generazione, l’Europa è stata l’epicentro di due conflitti mondiali che hanno avuto principalmente origine dall’esistenza su questo continente di trenta stati sovrani. È importante porre rimedio a questa anarchia creando un’unione federale tra i popoli europei».

Avrete riconosciuto, in questo linguaggio, i principali motivi dei Piani europei che ho citato. Nulla di nuovo, tranne questo, che è decisivo: non abbiamo più a che fare con voci isolate, che parlano nel deserto e per il futuro, ma con gruppi di militanti in piena lotta; e non più con voti, ma con volontà. Queste idee e queste volontà agiranno, non appena finita la guerra.

Dai nostri paesi nasce un proliferare di piccoli gruppi, associazioni, movimenti e leghe federaliste. I loro leader, riuniti a Montreux nell’autunno del 1947, decidono di convocare per la primavera successiva gli Stati Generali dell’Europa. Churchill ha appena tenuto il suo celebre discorso a Zurigo, chiamando all’unione tutti i popoli del continente (tranne gli inglesi). Gli verrà offerta la presidenza.

Da questa congiunzione di una decina di movimenti federalisti o unionisti, di alcuni grandi uomini politici e di più di ottocento deputati, leader sindacali, intellettuali ed economisti – congiunzione alquanto difficile e improbabile, ma realizzata in pochi mesi da un animatore straordinario, il polacco Joseph Retinger – risulta il Congresso d’Europa, che si riunisce a L’Aia nel maggio 1948. Tutto è partito da lì, non lo si dirà mai abbastanza. Perché il Congresso dell’Aia fu la sintesi vivente dei grandi motivi di unione rappresentati di fatto dalle sue tre commissioni, politica, economica e culturale:

– la pace attraverso la federazione, fermano l’anarchia degli stati sovrani;

– la prosperità attraverso un’economia contemporaneamente liberata e organizzata;

– e la comunità spirituale attraverso il raduno delle forze vive della cultura, al di là delle frontiere e dei nazionalismi.

Tutto è partito dall’Aia, lo ripeto: perché il Congresso dell’Aia fu la sintesi vivente dei grandi motivi di unione rappresentati di fatto dalle sue tre commissioni, infatti da ciascuna delle commissioni che lo compongono, usciranno, in pochi anni, tre grandi linee istituzionali oggi saldamente stabilite, quindi tre promesse di successo – mentre dal tema della difesa, non accolto all’Aia, uscirà solo un fallimento fragoroso.

(Se fosse vero che la paura di Stalin fosse stato il vero motore della nostra unione, la prima istituzione europea accettata sarebbe stata logicamente la CED: invece, è l’unica che sia stata rifiutata.)

Ecco cosa è stato realizzato:

La commissione politica de L’Aia aveva chiesto l’istituzione di un Consiglio d’Europa, dotato di una Corte dei diritti dell’uomo e di un’Assemblea europea. Nove mesi dopo, il Consiglio d’Europa e la Corte vengono creati. Poi l’Assemblea (solo consultiva, ahimè) viene inaugurata a Strasburgo.

La commissione economica aveva chiesto la creazione di istituzioni comuni, permettendo la fusione degli interessi essenziali delle nostre nazioni: produzione industriale, legislazione sociale, tariffe doganali, libertà degli scambi. Due anni dopo, Robert Schuman e Jean Monnet propongono e fanno accettare la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, o CECA, a cui si aggiungeranno, fin dal 1957, Euratom e il Mercato comune, oggi in piena espansione.

La commissione culturale, infine, aveva chiesto l’istituzione di un Centro europeo della cultura. E questo si crea a Ginevra già nel 1949, mentre si vedono moltiplicare negli ultimi vent’anni, spesso grazie a lui, talvolta senza di lui, e persino contro di lui – ma così vuole il pluralismo europeo, vero fondamento della nostra unità – più di cento istituti, associazioni, case d’Europa e fondazioni, che si propongono tutti e tutte di risvegliare e mantenere vivo il sentimento della nostra comune appartenenza all’avventura spirituale dell’Europa.

Tuttavia, l’impresa federalista non ha smesso di degradarsi a partire dalle giornate dell’Aia, cariche di destini ambigui. Soprattutto, non si approfitti dell’occasione per riprendere il cliché della “sorte comune degli ideali a contatto con la realtà”! Perché non è il nostro ideale federalista, ma un modello di unione molto diverso, l’“integrazione”, che è stato proposto poco dopo all’attenzione diffidente dei governanti – dopo aver abbandonato ogni azione popolare. E così siamo passati, in venticinque anni, dall’Europa della Resistenza all’Europa delle trattative, dalle aspirazioni generose di centinaia di migliaia di militanti all’ostacolo esperto degli Stati. Volevamo una federazione continentale, politica, culturale, sociale, economica, cioè un’Europa “resasi pienamente disponibile alla libera circolazione di uomini, idee e beni”. Abbiamo un’unione doganale che non ha eliminato i doganieri né queste barriere dipinte di rosso e bianco che alzano solo a malincuore; abbiamo alcuni regolamenti settoriali e l’abbozzo – se il termine non è troppo forte – di una politica comune nell’industria, nell’agricoltura e nei trasporti, ma tutto questo riguarda ancora solo sei paesi su trenta che ho elencato. L’idea di unione in generale, la desacralizzazione delle frontiere, la consapevolezza di una comunità di destino continentale hanno fatto progressi nelle menti (soprattutto dei giovani), questo mi sembra innegabile, anche se è molto difficile misurarlo e molto facile negarlo cinicamente, finché non si consulta il suffragio universale, unico sondaggio d’opinione decisivo – unico tiro a segno dopo questi tiri a salve che si pubblicano impunemente. Per quanto riguarda la nostra unione politica… Su questo piano, bisogna constatare che non abbiamo avanzato di un metro, anzi, abbiamo retrocesso. Perché questo arretramento? Il problema sarebbe meno urgente, i motivi di unione meno numerosi o indeboliti?

Riconosciamo che alcune urgenze non sono più quelle del dopoguerra. I rischi di conflitti armati tra paesi europei oggi sono scarsi o nulli, grazie alla condivisione economica, governativa e privata, ma soprattutto grazie alla nostra debolezza rispetto ai due imperi che ci sorvegliano e ci investono: e questo vale per le truppe e per i capitali. Le rovine dei bombardamenti sono visibili solo nella chiesa del Memoriale a Berlino. Infine, le colonie sono liquidate, e con esse una fonte di conflitti secolari è esaurita. Ma questi pochi problemi vitali, appena risolti, hanno creato nuove urgenze e nuovi motivi di unione. L’industrializzazione ha creato grandi complessi dove la vita perde di significato; ha inquinato aria e acqua, terra e semi dei tre regni. La pianificazione dell’abitato, delle città e dei climi richiede studi e piani che non si curano delle nostre frontiere, come hanno sempre fatto venti e uccelli, come fanno oggi le onde e gli aerei e l’umore vagabondo dei giovani in blue jeans. La decolonizzazione ha prodotto il Terzo Mondo, che ha prodotto un labirinto di esigenze e di impasse di ogni genere. E se bastasse una sola delle nostre nazioni, Danimarca, Olanda o Portogallo, per stabilire un impero coloniale, sarebbe a malapena sufficiente tutta l’Europa Unita per contribuire a risolvere, oggi, i problemi della fame, dei termini di scambio, delle guerre tribali, delle allergie alla tecnica e degli “imperialismi internazionali”, quello americano, russo e cinese, impegnati nelle colonie di ieri. La stabilizzazione dell’Est europeo è stata garantita solo dalla satellizzazione politica e commerciale imposta e reimposta dall’Armata Rossa: 1945, 1956, 1968. La stabilizzazione delle democrazie dell’Occidente è garantita solo dagli armamenti e dagli investimenti americani. Ogni resistenza locale o nazionale sembra vana di fronte a questa doppia tentazione. Eppure… Stabilizzati e garantiti, ciò significa colonizzati ma non uniti. E anche: colonizzati perché disuniti! È più di vent’anni che lo ripeto. Il fascicolo della raccolta di testi che pubblicai all’inizio dell’estate del 1948, intitolato L’Europa in gioco[2], portava queste parole:

Unita o colonizzata

(Colonizzata da un esercito o da una moneta, si capiva immediatamente.)

Che si tratti di difesa e armamenti, di tecnica e management, di ricerche scientifiche, di equilibri sociali o ecologici, di trasporti o di informazioni – nessuna di queste realtà può essere trattata sensatamente in un contesto statale nazionale; al contrario, ognuna di esse da sola sarebbe sufficiente a costringerci a superare i confini dello Stato-Nazione. Ma si vede bene che tutte interagiscono. In assenza di un coordinamento continentale, i loro effetti si tradurrebbero in un’epidemia di neutralizzazioni reciproche; concertate, al contrario, ci darebbero buone possibilità di fare dell’Europa, di nuovo, il motore della storia del mondo. Tra il poco che si sta facendo e la sfida che ci viene posta dall’esistenza dei due grandi, della Cina, del Terzo Mondo e dei problemi del XXI secolo, non c’è solo uno iato, ma un abisso che si allarga. Più si va avanti, più si peggiora. Tutte le ragioni del mondo, sia negative che positive, ci comandano di unire l’Europa, ma il fatto è che nulla o quasi nulla è stato fatto, a livello di tutta l’Europa. Venticinque anni di discorsi insistenti, fin dal primo (quello di Churchill a Zurigo), sull’urgenza vitale della questione; e un progresso concreto che per l’umorista evoca “Il ratto d’Europa da parte di una lumaca”… Parto da questa constatazione, da questo scandalo. Bisogna ricominciare tutto da capo.

Europee, Europei!

Non sto scrivendo un appello. Non sto dicendo cosa bisogna fare. A coloro che non avrebbero ancora notato che è vitale per gli Europei fare l’Europa, non è a loro che scrivo: chiudano qua la mia lettera. Scrivo a coloro che sanno che l’Europa deve unirsi, ma che si pongono queste due domande: si può fare l’Europa? e come? Dico che si può fondare l’Unione Europea sull’unità di cultura che essa forma e che la forma da due o tre millenni. Vedo che questa unità è paragonabile a quella di un corpo organizzato: è fatta di diversità e tensioni, non è affatto omogenea. Vedo che la traduzione di questi dati di base in termini politici di istituzioni può essere solo il federalismo, metodo di unione nella diversità, radicalmente contrario al metodo di unità nell’uniformità che è stato quello di Luigi XIV, dei giacobini, di Napoleone e dei nostri Stati totalitari di ogni colore. Vedo che la formula sacra, seppur moderna, della nazione statalizzata che si pretende sovrana assolutamente (i suoi capi hanno il diritto di far massacrare milioni di uomini e donne in guerre sempre “giuste” per definizione, da entrambe le parti), vedo che questo Stato-Nazione, che rimane nell’animo di tutta la nostra classe dirigente come la realtà invincibile di un riflesso condizionato dalla Scuola, dalla Stampa e dall’Esercito, costituisce il dogma centrale di una religione radicalmente e per sempre incompatibile con qualsiasi soluzione federalista, cioè con qualsiasi guarigione del male mortale che essa alimenta. È lo Stato-Nazione che ha creato i problemi tragici dell’Europa – ed è esso che impedisce di risolverli. Fare l’Europa implica quindi smontare lo Stato-Nazione a vantaggio delle regioni da una parte, e della loro federazione dall’altra, queste due realtà complementari avendo come fine non la potenza collettiva, ma la maggiore libertà delle persone.

NOTE

[1] Questo “piano” di unione, dalla coerenza problematica, è stato composto dai commentatori a partire da una trentina di passaggi dispersi nei Mémoires des sages et royales oeconomies di Sully, il quale, con un certo senso della pubblicità, attribuisce l’idea originale ad Enrico IV.

[2] [D. de Rougemont, L’Europe en Jeu, La Baconnière, Neuchâtel, 1948].

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