Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell'interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Nel 2022 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la classe di concorso A019 (Filosofia e Storia). Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, l’ermeneutica letteraria e i paganesimi antichi. Ha pubblicato saggi e articoli per riviste di filosofia, letteratura e fotografia. Con la cura del volume Psyché. L’anima ha contribuito alla collana del «Corriere della Sera» dedicate a Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà  (a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, 2022/2023). È redattore della rivista culturale online «Il Pequod».

L’ultima fatica di Christopher Nolan, il film storico-biografico sul fisico statunitense Oppenheimer ha il merito di sollecitare temi su cui raramente la riflessione contemporanea si interroga. Gli stessi brucianti interrogativi che hanno tormentato in verità gli ultimi decenni di vita del fisico nell’era da lui inaugurata del post-atomico.

A confronto dei film precedenti di Nolan, Oppenheimer è molto meno spettacolare e con un impiego degli effetti speciali ridotto al minimo necessario. Nolan si è imposto tra i maggiori cineasti del nostro tempo per molte ragioni, ma principalmente per aver fondato la sua idea di cinema sulla rappresentazione delle più ardite ipotesi scientifiche, anche quelle più paradossali e contro-intuitive, portandone alle estreme conseguenze i principi teorici. È il caso di Inception per i sogni e l’inconscio, di Interstellar per i viaggi cosmici, la relatività e i buchi neri, di Tenet per l’entropia e gli universi paralleli. Anche in The Prestige la scienza è determinante, anzi rappresenta il vero e proprio gioco di magia, appunto il prestigio, in cui è Nikola Tesla in persona a fornire la macchina di duplicazione umana per lo spettacolo di Angier.

Oppenheimer segue questo filone di ricerca cinematografica almeno nella prima parte, ma unendo la scienza alla ricostruzione storica ha la pretesa di essere un film politico e di riflessione generale sulla condizione dell’umano. Lo spettatore del XXI secolo, che per ovvi motivi generazionali sa della seconda guerra mondiale, del progetto Manhattan, della corsa agli armamenti e della Guerra fredda dai libri di storia e dai documentari, cosa trae dalla visione del film? Può essere, in qualche modo, una brillante retrospettiva che, spiegando le modalità di costruzione della bomba e il caso politico che ha costituito il suo principale artefice, può dirci molto del mondo del futuro che gli scienziati del passato hanno immaginato e che nel frattempo è divenuto il mondo di adesso, quello in cui viviamo.

Infatti, quando il progetto della bomba era già stato ultimato in tutte le sue parti e a un passo dal test che avrebbe dovuto confermare o negare l’enorme lavoro svolto per la sua realizzazione, ascoltando i pareri discordi di alcuni fisici coinvolti nel Progetto sull’utilizzo o no dell’ordigno dopo la resa della Germania nazista, il vero avversario contro il quale si combatteva a distanza e nei laboratori, Oppenheimer afferma che il compito dei fisici teorici è di immaginare il mondo del futuro, anche se questo mondo avrebbe suscitato orrore, giacché usare la bomba e mostrare pubblicamente il suo potere avrebbero determinato a suo parere la fine di tutte le guerre e una pace definitiva. Dopo aver visto gli effetti della detonazione di un ordigno nucleare, a giudizio di Oppenheimer l’umanità, conosciuta la concreta possibilità della sua auto-distruzione, non ne avrebbe più fatto ricorso. Proseguire con il programma atomico non sarebbe più servito. Los Alamos, pur con le sue vittime, sarebbe stata una benedizione.

Se ci basiamo su come sono andate le cose dopo la seconda guerra mondiale, su un eventuale conflitto nucleare dall’esito totalmente distruttivo per il pianeta, le previsioni di Oppenheimer sono state rispettate. A parte i test e l’enorme tensione tra le due maggiori forze belliche del pianeta, Usa e Urss, i due scorpioni nella stessa bottiglia pronti ad attaccare, la pace è stata realmente tale. Lo scenario distruttivo paventato da Oppenheimer è stato scongiurato, ma non le guerre, che imperversano oggi più che mai.

È un film sulla scienza, sul desiderio prometeico di giungere ai confini estremi della conoscenza, come recita la frase che campeggia all’inizio del film tra le fiamme scaturite dalla detonazione dell’ordigno e che ricorda il titano del mito che aveva sottratto il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini. È lo stesso Bohr, aiutato a fuggire dagli inglesi e giunto a Los Alamos, a dire a Oppenheimer che è un nuovo Prometeo, ed è ancora lo stesso Oppenheimer a dire, nella riunione preventiva con il ministro della guerra statunitense, che l’esplosione della bomba sarebbe stata per il mondo la rivelazione di un potere divino. Ed è sempre Oppenheimer, in una frase celebre che si ricorda tuttora su di lui tratta dalla sapienza orientale, a dire di sé di essere divenuto con la bomba Morte, distruttore di mondi. La ricerca atomica, infatti, ha tutto l’aspetto di un’indagine nel proibito, nell’invisibile, nell’enigma più recondito della materia laddove essa rivela la sua essenza, si trasforma in energia: rubare al regno dell’ignoto, alla divinità, il suo segreto per darlo agli uomini, ma prima ancora mostrarlo in tutto il suo splendore. È tale splendore che vedono Oppenheimer e il resto dei collaboratori al progetto, nella scena sicuramente più intensa, vibrante, adrenalinica e meglio riuscita del film, la superba sequenza del Trinity Test, la prima volta nella storia in cui l’energia segreta della materia veniva esibita nel suo terribile fulgore. Un’esperienza sublime, che giustifica gli sforzi e l’immane impiego di risorse.

Eppure, come sottolinea la vicenda di Prometeo, tutto questo richiede un costo da pagare. È un topos della cultura occidentale quello di giungere al punto più estremo per poi pagarne le conseguenze, inoltrarsi nel proibito, come l’Ulisse di Dante, e infine essere puniti per aver varcato porte che non si potevano superare, un atto di hybris contro la finitudine che ci costituisce, l’aver ottenuto qualcosa rispetto al quale non tutti avranno la saggezza per poterne disporre: è a questi che va il pensiero di Bohr, di Einstein, di Szilárd e per ultimo di Oppenheimer. Ne è dimostrazione cristallina la scena a dir poco impietosa in cui il fisico, invitato da Truman allo Studio Ovale della Casa Bianca, dà sfogo sommessamente al suo rimorso dicendo di sentire il sangue sulle sue mani, per le quali il Presidente gli offre il suo fazzoletto, adducendo in modo rozzo e volgare che a nessuno dei morti in Giappone importa di Oppenheimer, bensì di lui stesso, poiché è dalla sua volontà che è venuta la decisione di sganciare le bombe. È difficile capire cosa voglia dire qui Truman, se capisca lo stato d’animo di Oppenheimer riconoscendosi il peso della decisione presa oppure se abbia uno sprezzo feroce verso di lui e dei morti in Giappone.

Oppenheimer, da film prometeico sul profeta della bomba atomica, si tramuta da questo punto in avanti in un’esibizione della banale e scontata bassezza umana, anzi troppo umana, dalla vendetta dell’ammiraglio Strauss su Oppenheimer alla stupida cecità degli Stati Uniti di rincorrere fantasmi inesistenti, come lo è del resto il passato politicamente scomodo del fisico in merito alle sue frequentazioni comuniste. Nell’economia del film, la doppia udienza di Strauss e di Oppenheimer costituisce l’addensante della trama che permette ai fatti di distribuirsi, ma può essere intesa senza troppa difficoltà come un vero e proprio processo che l’umanità, e la coscienza morale del fisico, intentano contro il Prometeo che l’ha portata fino a questo punto, all’orrore dell’ipotesi del suo auto-annientamento.

Affidandosi al colloquio tra Einstein e Oppenheimer all’inizio del film, il contenuto del quale si conosce soltanto nella conclusione, il padre dell’atomica potrebbe essere stato il capro espiatorio per una colpa collettiva che l’umanità sentiva di dover scontare per la scoperta a cui era giunta, sia sprigionare l’energia della materia fin nelle sue strutture più elementari sia la sua applicazione incondizionata come arma di distruzione di massa, che da quel momento in avanti minaccerà l’intero pianeta e la vita su di esso. Cercando allora di dare una risposta alla domanda sul senso di un film di questo genere nel secolo attuale, serve sicuramente per comprendere cosa è avvenuto, quali sono i rischi dell’oggi che si continuano comunque a correre, ma soprattutto, come affermava Céline, che la guerra non è una condizione passeggera nell’animo dell’umano, ma qualcosa che alberga costantemente nel suo cuore.

In tal senso, la figura di Oppenheimer rappresenta le due facce del paradosso, da una parte il fuoco della scoperta e dall’altra la catena del supplizio. E se è greca la metafisica della vicenda atomica, della Guerra mondiale e delle conseguenze nei decenni successivi, deve essere greca allo stesso modo la lezione che se ne deve trarre, in questa come in innumerevoli altre occasioni: il senso della misura e la saggezza nel riconoscere il limite non appena si senta, come Oppenheimer, di averlo superato.

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