Eugenio Serra (1990) si è laureato in Filosofia presso "La Sapienza", Università di Roma.

Recensione a
L. Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi
Longanesi, Milano 2017, pp. 288, € 16,90.

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In Sinistra e popolo Luca Ricolfi racconta e analizza sia il «prolungato addio» (p. 12) che si è consumato, e si sta tuttora consumando, dappertutto, tra la sinistra e il popolo, sia le ragioni che hanno spinto il popolo ad abbandonare la sinistra, per andare incontro a quelle forze politiche populiste che tentano di sostituirsi ad essa nel ruolo di veicoli delle istanze degli strati più deboli e periferici della popolazione. In questo abbandono e spostamento del popolo ha avuto una responsabilità enorme la stessa sinistra, perché ha evitato sistematicamente di comprendere le ragioni di questo spostamento, ed anche di riconoscere l’autonomia culturale del populismo, ed anche, più in generale, l’autonomia culturale della cultura di destra. Ma, si chiede Ricolfi, come poteva la sinistra comprendere e riconoscere, se nel suo lungo viaggio era approdata alla cultura azionista e alla filosofia politica di Norberto Bobbio, che ha rappresentato in Italia, negli ultimi decenni, l’interpretazione dominante della dicotomia destra-sinistra?

Nella prima parte del libro, Ricolfi non soltanto ripropone il pensiero del liberale Hayek con lo scopo di restituire alla destra tutta la sua autonomia e non considerarla più come il semplice rovescio della sinistra, ma attribuisce anche al testo di Bobbio, Destra e sinistra, «il cortocircuito logico che ha permesso alla sinistra di non comprendere quello che nel frattempo essa era diventata, nonché di prolungare indefinitamente il proprio atteggiamento di superiorità morale verso la destra» (p. 56), costruendo una scale bipolare asimmetrica, all’interno della quale la sinistra è il bene e la destra il male. Destra e Sinistra di Norberto Bobbio, conclude Ricolfi, ha rappresentato «un testo fortunato quanto infelice. Un testo fortunato perché, nella seconda Repubblica, è diventato una sorta di Bibbia laica, il luogo teorico in cui, per anni e anni, una sinistra scioccata dal successo del berlusconismo ha potuto cercare conferme, ritrovare autostima, e soprattutto darsi una spiegazione rassicurante delle sconfitte, da allora invariabilmente ricondotte alle tv del Cavaliere e alla mutazione antropologica che esse avrebbero prodotto negli italiani. Un testo infelice perché quello schema teorico, in cui la sinistra è il bene e la destra è il nulla, ha contribuito ad avvelenare la lotta politica in Italia, e ha impedito alla sinistra di guardarsi davvero allo specchio» (p. 64).

Dietro questo enorme mutamento della scena politica italiana, Ricolfi individua innanzitutto il fenomeno della globalizzazione, e il modo inadeguato con il quale gli stessi partiti e le classi dirigenti tradizionali hanno risposto ad essa, provocando così un’unica importante conseguenza nell’universo politico delle società avanzate: la separazione, a destra come a sinistra, fra le forze dell’apertura e dell’innovazione, favorevoli al mercato e alla globalizzazione, e le forze della chiusura e della conservazione, più o meno avverse a uno o più aspetti della stessa. Sicché, alla fine del XX secolo, la scena politica delle società occidentali mostrava un po’ ovunque due destre, una liberista e l’altra semplicemente conservatrice, e due sinistre, una riformista e l’altra anch’essa a sua modo conservatrice. Due destre e due sinistre apparentemente diverse, fra loro e al proprio interno, ma in fondo entrambe prigioniere del Novecento, perché incapaci di fare i conti con gli sconvolgimenti che hanno reso il mondo di oggi così diverso da quello di ieri. Due destre e due sinistre inadeguate a rispondere a quelle che sono, secondo Ricolfi, le più importanti conseguenze del processo di globalizzazione: la deindustrializzazione delle economie occidentali; l’apertura delle frontiere, che significa circolazione delle merci e dei capitali, ma anche delle persone e delle informazioni e, dunque, un aumento imponente dei flussi migratori; la lunga crisi del decennio 2007-2016, che ha condotto molti paesi occidentali in un regime di stagnazione economica, o alle soglie di essa, nel quale «la torta del Pil non cresce più, o cresce a un ritmo estremamente blando» (p. 110).

Questi tre grandi mutamenti – deindustrializzazione, apertura delle frontiere, stagnazione economica – non solo hanno alterato radicalmente le condizioni in cui si svolge oggi il conflitto politico, ma hanno anche reso terribilmente inattuali la destra e la sinistra, perlomeno nelle forme con le quali le abbiamo conosciute nella seconda metà del Novecento. «Alla loro concorde volontà di aprire le frontiere a tutti i livelli – merci, capitali, persone, informazioni – si deve il trionfo della globalizzazione, ma a entrambe la globalizzazione ha fatto mancare la terra sotto i piedi. Sotto i colpi della deindustralizzazione, alla sinistra la globalizzazione ha tolto la classe operaia, […] ed essa, nel contempo, ha fatto ben poco per dare voce ai superstiti di quel mondo. Alla destra la globalizzazione ha, invece, tolto la fede nel libero mercato, perché la lunga crisi iniziata nel lontano 2007 non ha ancora ceduto il passo a un’era di prosperità e di crescita, e le turbolenze dell’ultimo decennio hanno mostrato i rischi di un mondo divenuto troppo interdipendente. A entrambe, sinistra e destra, la globalizzazione ha imposto il problema delle frontiere e dei flussi migratori, che né l’una e né l’altra paiono in grado di risolvere: la sinistra, perché il suo cosmopolitismo le impedisce di vedere gli inconvenienti e le paure suscitate dalle politiche di accoglienza, la destra perché sa benissimo che se si vuole il mercato globale non si possono sigillare le frontiere. E tuttavia, dice Ricolfi, nonostante tutto ciò, e a dispetto della loro inattualità e impotenza, destra e sinistra sono ancora qui, e probabilmente lo saranno ancora per un bel po’» (pp. 111-112), anche se, forse, non riusciranno più a rioccupare, come in passato, il centro della scena. E, infatti, al centro della scena vi sono, oggi, dappertutto, movimenti e partiti populisti, il cui successo, dice Ricolfi, può essere spiegato con un’unica e assai semplice, parola chiave, protezione, in quanto quello che i partiti populisti offrono è esattamente una nuova protezione, e cioè una capacità «di intercettare sia la domanda di sicurezza economica, specie con il populismo di sinistra, sia quella di sicurezza fisica, specie con il populismo di destra» (p. 154).

Un bisogno di protezione che, a sua volta, deriva dalla sempre più vasta diffusione di sentimenti di insicurezza, preoccupazione, paura, tutti sentimenti, questi, che i partiti populisti riconoscono e prendono estremamente sul serio, il che spiega perché una parte consistente del popolo vota per essi, e non per la sinistra, la quale, da decenni, impegna, invece, le sue migliori energie comunicative per dissolvere i problemi che la gente normale percepisce drammaticamente. Il punto è che la sinistra, oggi, ben più della destra, è compattamente a favore della globalizzazione, in Europa come in America, in campo economico come in campo sociale e culturale, «mentre la gente […] travolta dalla deindustrializzazione, dalla concorrenza dei paesi poveri e dall’arrivo dei migranti, comincia a sospettare che la globalizzazione non sia un’opportunità, ma una minaccia da cui vorrebbe essere protetta» (pp. 168-169). A questo popolo la sinistra non offre nessuna promessa di protezione, perché semplicemente «quello non è più il suo popolo» (p. 171), in quanto le politiche della sinistra si rivolgono ormai «agli strati forti del sistema sociale, a quanti cioè posseggono le risorse materiali per poter esperire la globalizzazione come un’opportunità, e le risorse culturali per poter apprezzare i valori della sinistra. Ed ecco a che cosa servono gli immigrati. La sinistra ha bisogno, un assoluto bisogno, degli immigrati e delle politiche di accoglienza perché i migranti, in quanto deboli o ultimi per definizione, sono l’unico segno rimasto della sua vocazione a occuparsi di chi sta in basso. […] Giunti a questo punto, si potrebbe pensare che l’incapacità di fornire protezione basti a spiegare il divorzio fra sinistra e popolo» (pp. 171-172), mentre, invece, «nel divorzio fra sinistra e popolo come si sta profilando negli ultimi tempi in Europa e ancor più in America, non vi è solo l’incapacità di rispondere a una domanda di protezione» (pp. 173-174), ma vi è anche «la voragine che si è aperta fra la cultura dominante, ampiamente egemonizzata dagli ideali progressisti e liberal della sinistra, e il modo di guardare il mondo del popolo» (p. 174). È in questa voragine che è nato e si è affermato il «politicamente corretto», il quale ha rappresentato il modo attraverso il quale «la parte progressista o liberal, ha preteso di stabilire come le persone dovessero parlare e, per questa via, che cosa dovessero pensare. […] Spogliandosi dei suoi tratti più apertamente politici, la mentalità liberal ha provato a diventare essa stessa senso comune» (p. 176). E tuttavia il politicamente corretto, che ha sedotto i ceti del mondo di sopra, non ha mai convinto il mondo di sotto e il popolo che vi abita, mentre «i movimenti populisti intercettano consensi in entrambi i mondi, ma è soprattutto del “mondo di sotto” che cercano di essere la voce. Del mondo di sopra raccolgono essenzialmente l’indignazione contro il ceto politico e l’insofferenza per l’invadenza dello Stato. Del mondo di sotto raccolgono la domanda di protezione, economica e sociale, che ha radici profonde nella crisi e nel disordine sociale delle periferie» (p. 185). E quando le vittime di questi processi, e di questo fallimento (il fallimento «delle élite che hanno preteso di guidare il processo di integrazione fra le economie del pianeta, ma non hanno ancora trovato un modo per fronteggiare le conseguenze più spiazzanti» di tale integrazione: pp. 189-190), «cominceranno ad alzare la testa, che il populismo diventerà un attore fondamentale della scena politica delle democrazie» (p. 191).  

Oggi, conclude Ricolfi, per leggere i conflitti politici in corso nelle società occidentali, non si può fare a meno della opposizione dicotomica fra apertura e chiusura, perché «qualche tipo di chiusura è quasi universalmente la cifra dei movimenti populisti» (p. 197), mentre le forze di apertura condividono sostanzialmente «tutti i sogni (e i principali dogmi) della cultura liberal» (p. 201). Ci si potrebbe chiedere che sbocchi potrebbe avere la rivolta dei popoli e dove potrà portare l’ascesa, apparentemente inarrestabile, delle forze di chiusura. Secondo Ricolfi, «specie in Europa, molto dipenderà dalla risposta che le forze di apertura, ovvero la destra e la sinistra ufficiali, sapranno fornire ai due problemi fondamentali che il populismo ha posto all’ordine del giorno: il problema  dei perdenti della globalizzazione e il problema del controllo delle frontiere» (p. 215). Perché se tale risposta non ci sarà, o non sarà soddisfacente, è probabile «che solo le forze populiste saranno in grado di rappresentare la marea montante della domanda di protezione» (p. 218), e che la loro risposta non potrà che far riemergere, ancora una volta, i nazionalismi. E la sinistra, conclude Ricolfi, se vuole risalire di nuovo al centro della scena, e contrastare tutto ciò, deve innanzitutto guardare in faccia il suo distacco progressivo dalla sensibilità popolare, e poi predisporre una qualche via d’uscita significativa da quel vicolo cieco nel quale da qualche decennio si è stabilmente installata.

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