Nato nel 1990, si interessa di storia, filosofia, geopolitica e politica internazionale. Laureato in Scienze storiche e della documentazione storica nel 2016 presso l’Università degli studi di Bari con una tesi sull'integrazione europea nel contesto della decolonizzazione, collabora con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, presso la quale è autore. Attualmente assolve al ruolo di operatore museale nell'ambito di un progetto di Servizio Civile Nazionale presso un museo archeologico nazionale.
Recensione a
John J. Mearsheimer, La grande illusione. Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo
Luiss Univ. Press, Roma 2019, pp. 336, € 25,00.
La critica serrata che John Mearsheimer rivolge al liberalismo politico nel saggio La grande illusione (intr. di Raffaele Marchetti, trad. di Roberto Merlini, Luiss University Press, Roma 2019, pp. 328) non costituisce solo una grande requisitoria nei confronti della politica estera degli Stati Uniti degli ultimi venticinque anni, segnati dal «momento unipolare» e dalla loro pressoché indiscussa egemonia globale, ma rappresenta anche una larvata decostruzione dell’intera filosofia politica che è a fondamento dello stesso «Leviatano liberale» (definizione di John Ikenberry).
Il tentativo operato dai dirigenti politici di Washington di diffondere la democrazia liberale rovesciando i regimi autoritari ostili, con l’obiettivo di creare un mondo popolato esclusivamente da democrazie liberali, non ha condotto ad una diffusione a livello mondiale della liberal-democrazia, come sostiene Mearsheimer. Non solo: ha indebolito lo stesso liberalismo, minando le istituzioni internazionali create con l’obiettivo di promuovere un’economia mondiale aperta (l’interdipendenza economica è un fattore unificante per il liberalismo) e di dirimere mediante arbitrato le controversie tra le nazioni.
La tesi di fondo del politologo statunitense è che nei rapporti internazionali «il liberalismo non può competere con il nazionalismo e con il realismo». Gli Stati Uniti non hanno fatto i conti con questi due ostacoli che si sono frapposti alla loro “crociata” per la democrazia (iniziata da W. Wilson all’indomani dell’intervento americano nella prima guerra mondiale), indirizzata a promuovere la diffusione su scala mondiale del liberalismo. Se la prima ideologia, quella nazionalistica, è senz’altro uno dei più tenaci impedimenti all’esportazione del sistema liberale, in quanto, fondandosi sull’autodeterminazione dei popoli, pone un pressoché insormontabile argine all’occupazione o influenza di altri Stati, il realismo politico, che si fonda sull’idea che il sistema internazionale sia anarchico e non gerarchico, contraddice la diffusione del modello liberale, in quanto ritiene che solo uno Stato mondiale sia in grado di garantire la stabilità internazionale di cui abbisogna un mondo popolato quasi esclusivamente da Stati nazionali. Se seguissero la logica realista, gli Stati dovrebbero unicamente preoccuparsi di garantire la propria sopravvivenza nell’arena internazionale, muovendosi in essa secondo la logica dell’equilibrio di potenza. Gli Stati Uniti, al contrario, per preservare il loro sistema liberale su scala mondiale, hanno dovuto agire come gendarme del mondo, ma sono andati incontro a un clamoroso fallimento, giacché a un crescente impegno in vari scenari dello scacchiere mondiale, hanno dovuto far seguire necessari arretramenti, dovuti a fallimenti locali o a pressioni interne, che hanno minato l’innesto del loro modello liberale.
C’è un’altra pericolosa conseguenza della tendenza alla proiezione sull’estero del progressismo liberale, che, in nome della protezione dei diritti umani impone di eradicare il pericolo costituito dagli Stati autoritari per promuovere la pace mondiale, virtualmente assicurata dalla presenza di soli Stati liberali nel mondo. La conseguenza, scrive l’Autore, è quella di provocare una progressiva erosione del liberalismo in patria, a causa della creazione di un imponente apparato di sicurezza interno volto a supportare le ardite imprese belliche all’estero.
La tesi di Mearsheimer è che «il liberalismo praticato all’estero compromette il liberalismo praticato in patria». La libertà assegnata dai paesi liberali ai propri cittadini (anche a coloro che rifiutano i principi liberali) espone gli Stati fedeli al credo liberale ad un rischio, già paventato da James Madison nel Federalist n. 10, di incentivare fazioni politiche dirette a rovesciare il potere della maggioranza costituita. Il principio di tolleranza, cardine della concezione liberale, pone perciò in pericolo l’esistenza dello stesso Stato liberale. Per evitare un tale scenario, il liberalismo ha sviluppato una tendenza all’intolleranza verso i dissidenti. Come scrive Mearsheimer, «nel liberalismo è presente un senso sia di vulnerabilità sia di superiorità che promuove l’intolleranza nonostante l’enfasi della teoria sull’uso della tolleranza per mantenere l’armonia interna». Un tale paradosso espone gli Stati liberali al rischio autoritario e financo li conduce a limitare fortemente la libertà dei propri cittadini, al punto da compromettere la democrazia. Il principio di tolleranza viene accantonato quando uno Stato liberale si confronta con un rivale che viola i diritti dei suoi cittadini, sino a comportare il restringimento delle libertà interne al fine di convogliare le energie del paese verso l’obiettivo della sopravvivenza contro un nemico esterno minaccioso.
Ciclicamente, in situazioni di insicurezza geopolitica o di guerra civile, i dirigenti politici americani hanno limitato seriamente i diritti individuali, specie in coincidenza di guerre e pericoli esterni. Si pensi, ad esempio, alla sospensione dell’habeas corpus da parte di Lincoln durante a guerra civile, all’incarcerazione dei cittadini nippo-americani durante la seconda guerra mondiale o alla persecuzione dei sostenitori del comunismo durante la guerra fredda. Come metteva in guardia James Madison, «nessun paese può preservare la propria libertà se è costantemente in guerra». Alexander Hamilton, sempre nel Federalist, aveva sostenuto che l’insicurezza politica e il rischio di guerra conducono a esecutivi potenti che potrebbero restringere le libertà individuali, accelerando la trasformazione in senso monarchico dell’ordinamento politico. Scrive Mearsheimer che «gli Stati Uniti hanno scatenato ben sette conflitti dalla fine della guerra fredda e sono continuamente in guerra dal mese successivo all’11 settembre […]. Ciò ha reso ancora più potente il più formidabile sistema di sicurezza che esisteva già nel 1991, quando è crollata l’Unione sovietica».
Mearsheimer sfata il mito dell’internazionalismo liberale offensivo ricorrendo alla critica di due principi cardine dell’interventismo democratico, ma a ben guardare presenti anche nella visione realista: la teoria della pace democratica e quella dell’interdipendenza economica. La critica che egli muove riguarda l’importanza che i liberali assegnano ai due obiettivi sistemici come fattori di prevenzione del conflitto. Non basta che questi ultimi facciano aumentare la cooperazione tra Stati, ma serve che entrambi facciano in modo che la guerra sia del tutto impossibile. Se la prima teoria afferma che gli Stati democratici tenderebbero a non farsi la guerra reciprocamente, la seconda sostiene che un’economia internazionale aperta, non chiusa da barriere protezionistiche, favorirebbe maggiormente la cooperazione, stornando il rischio di guerra fra paesi.
Secondo Mearsheimer entrambi questi assunti hanno grosse lacune. Intanto è falso che non ci siano mai state guerre fra Stati democratici e che le norme liberali siano un fattore di pacificazione, perché l’età contemporanea annovera almeno quattro casi di democrazie che hanno combattuto tra loro (Germania imperiale contro Gran Bretagna, Francia, Italia e Stati Uniti durante la prima guerra mondiale, Gran Bretagna contro Repubblica sudafricana e Stato libero dell’Orange durante la guerra boera, Pakistan contro India durante le quattro guerre indo-pakistane, Stati Uniti contro Spagna durante la guerra ispano-americana). Spesso inoltre le democrazie non solo si alleano con gli Stati autoritari contro altre democrazie, ma si adoperano, come fanno spesso gli Stati Uniti, a rovesciare altre democrazie.
L’antica teoria dell’interdipendenza, perorata da Kant e Constant, parte dal presupposto che l’obiettivo principale degli Stati sia la prosperità, non la competizione per la sicurezza, ma secondo il politologo americano i calcoli politici e strategici spesso hanno un peso maggiore di quelli economici. Un esempio della fallacia dell’argomentazione dell’interdipendenza come fattore di pace è il ricorso alle sanzioni economiche contro i paesi recalcitranti o che violano i diritti umani. In questi casi i paesi colpiti dalle sanzioni o esclusi dai circuiti economici continuano nella loro condotta anche a costo di perdite economiche enormi. La spiegazione è nel peso che gli Stati annettono al nazionalismo, rispetto ai calcoli economici e commerciali, nonché nella grande rilevanza della logica dell’equilibrio di potere. Un esempio recente ci viene dalla crisi ucraina: la Russia pur sottoposta a sanzioni non ha restituito la penisola di Crimea, anche a costo di una forte contrapposizione con Kiev.
Nel capitolo conclusivo del suo saggio l’autore si chiede quanto ancora gli USA siano disposti a sobbarcarsi il peso dell’egemonia liberale. La risposta sta nella dinamica che assumerà l’assetto internazionale in futuro. Se l’ago della bilancia penderà a favore del multipolarismo sarà molto difficile per gli Stati Uniti perseguire l’esportazione del liberalismo, perché la presenza di altre potenze le impedirà di continuare a mantenere l’egemonia globale. L’America perciò dovrà orientarsi verso i dettami del realismo. L’ascesa impetuosa della Cina e la resurrezione della potenza russa la spingono a tornare a confrontarsi con potenziali concorrenti per il potere mondiale e dunque a adottare la logica realista. La politica adottata da Trump sembra favorire una recessione geopolitica rispetto all’interventismo pregresso (perseguito anche da Obama), anche se negli apparati statunitensi le sirene dell’egemonia liberale appaiono ancora molto forti e forse non rimane per i sostenitori del realismo che sperare in una prosecuzione dell’ascesa cinese in grado di porre gli Stati Uniti di fronte alla velleità del loro disegno egemonico.