Recensione a
E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola
Marsilio, Venezia 2019, pp. 240, €18,00.
Non si arresta il dibattito intorno all’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia, dedicato alla scuola italiana. I motivi sono molteplici. Anzitutto si tratta di un testo con una tesi perentoria, inequivocabile, denunciata fin dal sottotitolo («l’Italia ha distrutto la sua scuola»). Secondariamente, l’istituzione scolastica si configura, nell’interpretazione dell’Autore, come ennesimo terreno di scontro tra progresso e conservazione, evocando di conseguenza gli eterni fantasmi delle forze politiche che nel Novecento hanno incarnato tali visioni del mondo. Infine, si tratta di un libro per tutti: quest’aspetto va sottolineato per comprenderne lo spirito con cui è stato scritto.
La scuola, del resto, riguarda in maniera più o meno diretta la quasi totalità della popolazione italiana: sicché L’aula vuota non vuole e non può essere un saggio per specialisti, è semmai destinato a un’ampia fascia di lettori che va dall’insegnante al genitore, dal giornalista al professionista della cultura, passando ovviamente per lo storico e lo studioso in senso lato. Il volume, infatti, è edito da Marsilio nella collana Nodi, la stessa che ospita, insieme a storici di professione, anche pubblicazioni di papa Francesco, Laura Boldrini, Giampiero Mughini, David Parenzo, Matteo Renzi. Insomma, nella pluralità delle voci, una chiara indicazione di strategia editoriale verso un pubblico sì informato ma numericamente consistente, non necessariamente colto. Ecco spiegata l’apparente mancanza di metodo denunciata da alcuni recensori: note poco scientifiche, scarsi riferimenti bibliografici, fonti discutibili. Ma qui Galli della Loggia non sta facendo accademia, sta scrivendo di storia nel senso più genuino del termine, ovvero sta raccontando qualcosa da un punto di vista che coincide solo parzialmente con quello del ricercatore, ma che in effetti riguarda anche il suo vissuto di docente e di uomo.
L’aula vuota si apre nel ricordo di una nonna maestra che spiega l’esigenza di scrivere il libro «per fatto personale» oltre che per senso civico. Si passa quindi al primo vero capitolo, corrispondente alla messa a fuoco del problema: la scuola odierna, sostiene Galli della Loggia, è diventata un semplice laboratorio del consenso. Le riforme che si susseguono di governo in governo hanno progressivamente svalutato l’istruzione, intesa come trasmissione del sapere, a favore invece dell’educazione, interpretata dagli ultimi legislatori (complici la pedagogia e l’Unione europea) all’insegna di valori quali l’inclusione e la democrazia. Secondo l’autore, tali richiami ai principi costituzionali rappresenterebbero un mero progressismo di facciata. Quel che conta, invece, è che la scuola continui ad assumere personale e a segnare un tasso di promozione vicino al 100%. In quest’ottica, il Sessantotto segna l’inizio della fine: la contestazione dell’autorità, la politicizzazione verso un sedicente progresso di presunta sinistra, la svalutazione del sapere umanistico contrapposto alle competenze tecnico-scientifiche richieste dal mercato del lavoro, tutto questo continuerebbe ad alimentare la macchina scolastica italiana, in preda a infinite sperimentazioni e caricata di funzioni che sempre meno hanno a che fare con la didattica. Il risultato? Gli studenti hanno difficoltà a leggere, arrivano all’università con una preparazione insufficiente. Galli della Loggia argomenta il discorso con dati, circolari ministeriali, nonché fonti dirette, chiarendo così che la sua tesi non è frutto di una semplice opinione personale.
I capitoli successivi (dal 2° al 4°) ricostruiscono alcuni momenti salienti della storia della pedagogia e dell’istruzione, dal Settecento al secolo scorso. È una narrazione costruita sul modello degli opposti, funzionale a dimostrare come in Europa si contrappongano due visioni formative: una orientata all’educazione (Jean-Jacques Rousseau), l’altra invece all’istruzione (Giovanni Gentile). Galli della Loggia chiarisce al grande pubblico quanto gli addetti ai lavori sanno già da tempo, ovvero che la Riforma Gentile non fu affatto la più fascista di tutte, semmai un tentativo idealistico di rispondere al positivismo imperante, attraverso una scuola che riportasse al centro il sapere umanistico, così da formare la classe dirigente di cui l’Italia aveva bisogno. Tentativo smontato pezzo dopo pezzo dallo stesso regime, fino ad arrivare al progetto di Giuseppe Bottai per una scuola veramente fascista che, sottolinea l’autore, evoca inquietanti consonanze con l’oggi, attraverso la preferenza accordata ai saperi pratici e al mondo del lavoro, l’insistenza sull’inclusione sociale, il dialogo con le famiglie. Inattuata eppure profetica, la scuola immaginata da Bottai è caratterizzata dalla vittoria dell’educazione sull’istruzione, nonché da un’ingombrante presenza politica. Dopo il Sessantotto, pur ispirandosi a ben altri principi, anche i sindacati e il Pci avrebbero percorso la medesima strada.
I capitoli 5 e 6 sono quelli che riguardano più da vicino il presente. Qui Galli della Loggia si sofferma sull’eccessivo protagonismo della pedagogia, dai cui dettami è nata l’odierna didattica per competenze, in base alla quale gli alunni sono chiamati a «saper fare» piuttosto che a «sapere». Il problema, spiega l’autore citando documenti ministeriali, è che gli studenti dovrebbero acquisire competenze che non spettano certo a ragazzini: si va dal generico senso critico all’interpretazione delle fonti storiche, passando per un’attitudine sperimentale nello studio delle materie scientifiche. Il campionario di prescrizioni è zeppo di tale retorica, tesa a svalutare il vecchio sapere in nome di una didattica che Galli della Loggia non esita ad etichettare (non a torto) vacua e pretenziosa. In tutto ciò gli insegnanti fingerebbero di stare al gioco, accogliendo senza entusiasmo tecnologie inutili o valutando le competenze sulla base di tabelle precompilate.
L’ultimo capitolo sfata un mito del progressismo scolastico, ovvero don Milani. Se per certi versi l’educatore cattolico ha anticipato molte delle istanze di cui la pedagogia odierna si fa portavoce (dall’inclusione sociale ai rapporti col mondo del lavoro), per molti altri il suo pensiero sarebbe stato travisato. Galli della Loggia sottolinea infatti come la scuola sognata da don Milani dovesse essere il luogo deputato alla lotta di classe, non un laboratorio pedagogico in continua evoluzione, un’istituzione in grado di avviare concretamente al lavoro, non di «attivare competenze». Pur ispirandosi a don Milani, la scuola di oggi, in sostanza, sarebbe ancora classista: finge l’inclusione semplicemente promuovendo tutti, dimenticandosi di coltivare il merito. Sarà poi la società a selezionare in base al censo, con buona pace dei richiami alla Costituzione durante l’ora di Educazione civica.
Volendo usare un luogo comune, la lettura de L’aula vuota convince che si stava meglio quando si stava peggio. Certo, la cosiddetta scuola del nozionismo, del merito e delle punizioni avrà avuto molti difetti, ma almeno, conclude l’autore, manteneva intatta la funzione di trasmissione del sapere e di legame col passato, lo stesso passato che la scuola delle competenze, della tecnologia e dell’autonomia sta invece cercando di cancellare, appiattendo studenti e genitori su un eterno presente al servizio del lavoro e di un presunto progresso ispirato a concetti ormai svuotati di significato. L’accusa di conservatorismo e nostalgia reazionaria è sempre dietro l’angolo: Galli della Loggia la affronta a più riprese, non risparmiando dettagli legati a vicende personali. Resta il fatto, sintetizza l’autore, che a guardare i politici e la società italiana in generale, è difficile non ritenere la scuola responsabile dell’ignoranza dilagante.
Qualche parola va infine spesa sullo stile di questo libro. Galli della Loggia ha una prosa scorrevole ma autorevole, stesa in una lingua piana con piacevoli punte d’ironia, ben diversa dal deprecato burocratismo di cui si forniscono esilaranti stralci. La voce dell’autore si sente in ogni pagina, anche per via di diversi rimandi autobiografici. L’argomentazione è chiara, continua ad arricchirsi di dettagli, eppure torna spesso sui propri passi, denuncia in ogni capitolo il nocciolo della questione, talvolta anche ripetendosi: «repetita iuvant», si diceva una volta. Più che materiale di studio, una lettura su cui meditare, un libro davvero per tutti, almeno per quelli che hanno a cuore la scuola italiana.