Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell'interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Nel 2022 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la classe di concorso A019 (Filosofia e Storia). Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, l’ermeneutica letteraria e i paganesimi antichi. Ha pubblicato saggi e articoli per riviste di filosofia, letteratura e fotografia. Con la cura del volume Psyché. L’anima ha contribuito alla collana del «Corriere della Sera» dedicate a Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà  (a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, 2022/2023). È redattore della rivista culturale online «Il Pequod». Ha pubblicato De scriptura. Dolore e salvezza in Proust (Mimesis, 2024).

Recensione a: T. Ditlevsen, Una ragazzina che non vuole morire. Cinquanta poesie scelte, a cura di G. Longo, Edizioni Joker, Novi Ligure 2023, pp. 180, €16,00.

Questo volume curato da Giulia Longo, esperta studiosa di Kierkegaard, raccoglie una scelta antologica di alcuni tra i componimenti più significativi della poetessa danese Tove Ditlevsen. La curatrice orienta il lettore italiano nella scoperta dei suoi versi con un’agile ed efficace appendice, in cui sono ben riassunti gli elementi di maggiore fascino della sua voce poetica: una figura eccentrica, certamente, e tuttavia consapevole, come solo i grandi poeti sanno essere, del dolore e del limite che intesse il mondo e di cui la parola può farsi testimone, cura e redenzione. Concetto che, con le parole di Longo, emerge con grande chiarezza negli anni della maturità della poetessa: «Scrivere torna ad essere ciò che per Tove è sempre stato: una possibilità di sopravvivenza, e allo stesso tempo una via di fuga da quella vita dolorosa che sta sempre più mettendo a rischio la sua esistenza» (p. 161). Scrivere versi, mettere in parole se stessi e il mondo, è una forma più elevata di vita, in cui accade qualcosa di più puro delle miserie esistenziali, del dolore e della fatica per continuare a essere. È anche di questo incanto che Tove Ditlevsen parla al suo lettore.

C’è infatti una limpida consapevolezza della morte, definita come il momento in cui «tutta la luce del mondo / scomparirà in una scia di stelle» (Per l’ultima volta, p. 11), l’inevitabile verso il quale si va incontro. In questa poesia, la poetessa dispone che le sue spoglie vengano interrate «nella terra oscura e molle» ma dentro nessuna bara, in modo che le intemperie delle stagioni possano agire sul suo corpo: in un futuro imprecisato, un ricercatore le troverà per studiarle, e avrà la sensazione, nel contatto tra due umani distanti millenni, dell’eternità del tempo che passa. È l’evento della morte che prelude a un’altra vita, al riaffermarsi continuo della zoé.

In alcuni casi il verso è così rarefatto da coincidere con una sola parola: un elenco di cose che la poetessa sa o non sa fare, come nella serie di poesie dal titolo Autoritratto. La descrizione poetica del sé avviene dunque tramite l’azione, ordinata secondo il discrimine di ciò che si è in grado o no di fare, dai gesti più quotidiani fino a quelli più metafisici: «So / stare da sola / lavare i piatti / leggere libri / formare frasi / ascoltare / ed essere felice / senza sensi di colpa» (Autoritratto 1, pp. 11-13). Sembrano azioni da nulla, un elenco pedante e improduttivo, eppure la poesia esprime, nel saper fare, nella positività dell’azione che si fa pienezza di senso, l’essenza dell’esserci: Ditlevsen, parlando di sé, afferma di saper stare in solitudine, di curare le faccende di casa e dell’abitare, di conoscere e di gustare i libri, di esprimere il mondo e di ascoltarlo, e soprattutto di essere in grado di ignorare la colpa che intride la vita esperendo in modo assoluto la gioia d’esistere.

Una gioia che non può però condividersi, che, tragicamente, non può trascendere il sé, se non con la testimonianza della parola che può almeno comunicare la sua ferita, il suo limite: «Con nessuno / si possono condividere / i pensieri / più intimi. / Con le cose più importanti / del mondo / si è / soli. // È un / peso perenne / è una / gioia sommessa / che qui nessuno / può raggiungerti / e nessuno / essere accolto» (Con nessuno, p. 25). Un gesto di grande lucidità e coraggio, ammettere cioè che l’umano, considerato nella sua individualità, benché rimesso continuamente alle relazioni con gli altri, è destinato alla solitudine e alla incomunicabilità di ciò che giace nel suo sé più profondo. E le parole che Ditlevsen attribuisce all’ontologia esistenziale dell’esserci, provando a riflettere su di esse, sono: peso, perché pur si sente l’urgenza di condividere, quella trascendenza esistenziale desiderata e desiderante che però è impossibile da compiersi pienamente; sommessa, perché anche la felicità più grande, quella che rende il morire indifferente, è destinata a una solitudine irrimediabile, a una tensione all’accoglienza che rimane sempre frustrata. L’altro, infatti, non sarà mai il sé; e la gravità della vita, inguaribile.

Forse la felicità è possibile solo per i giovani e le giovani, come si evince dalla poesia Giovani ragazze, in cui «la felicità sono due occhi che li incontrano un mattino, / la felicità è una voce, un essere e un nome» (p. 35), alludendo con tutta probabilità alle prime, memorabili scoperte amorose, in grazia delle quali la felicità poteva candidamente derivare da uno sguardo, da una persona. Ma tutto questo, maturando, si dileguerà, come stanno a dimostrare i versi sul divorzio, sulla perdita, ovvero sulla morte che si frappone tra due persone in cui questo incanto si rompe e non sarà più replicabile.

Tra qualche tempo arriverà però qualcun altro, cercato per offrire un rimedio alla solitudine e per illudersi di poter comunicare. Scrive Ditlevsen, su un probabile marito appena lasciato: «Non mi manca nulla, ma quella notte / rimpiango non esserci alcuna mancanza: / sono un edificio che qualcuno ha abbandonato, / presto sussurro il nome del nuovo proprietario» (Il nuovo proprietario, p. 37). Arriverà qualcun altro, quindi, prima o poi: prima, se non altro, che l’edificio, rimanendo vuoto, diventi pericolante, oppure finisca per crollare.

In questa desolante, muta ma vera negatività, c’è la speranza nel riconoscersi l’uno sostegno dell’altro, nel sapersi consumati dal dolore che anche l’altro ha consumato, nello scorgere nel fondo di uno sguardo in cui ci si osserva lo stesso motivo del male, vibrando così in modo comune: «Sedevamo in fondo alla notte, / in fondo a tutti i danni, / lì un dolore ci vagava accanto / portandosi via tutta la nostra redenzione. // Ci capivamo in silenzio – / mentre cadevano foglie negli occhi e nei capelli / sentivamo gli uomini parlare / di primavere svanite e vissute. // Ma anche noi eravamo uno stadio, / una zona frequentata, / consumata e superata, / caduta come pioggia in autunno» (Riconoscimento, p. 65). Alla fine della notte della vita, dopo il dolore patito per tutta l’esistenza, tramite quel capirsi in silenzio in mezzo al racconto di primavere di speranza andate perdute, c’è un attimo per raccogliersi, per provare nuovamente a essere primavera nel fitto calpestio e nel cadere delle foglie d’autunno: in altre parole, per sopportare.

Con i versi forse più belli e acuti di tutta la raccolta, con una nota di altissimo lirismo Ditlevsen scrive: «La vita sa di cenere / e va sopportata» (Divorzio 2, p. 85). La cenere è ciò che resta di una combustione, di ciò che si è consumato, arso dalla fiamma del dolore che brucia la vita fino a condurla al suo nulla obbligato. E ha questo sapore: di bruciore e distruzione, funereo. Questo è l’esito di ogni vita, finire come finisce qualcosa che brucia.

Se questo è il suo termine, merita allora di essere attraversata? Potremmo dire, sulla scorta della poetessa, che può esserci bellezza nelle lingue di fiamma in cui arde l’esistenza. Ma forse la bellezza suprema a cui si può giungere è quella della parola poetica che con coraggio giunge all’ontologia dell’esistere, come in questi altri, intensi versi: «Tanto a lungo / tuttavia si sente / la vita / in queste / notti di primavera / con la loro / dolcezza malvagia / per chi è solo. // Oh, lasciami / invecchiare in fretta / e non desiderare / nulla / e mai più / essere desiderata / da altri / eccetto la mia morte» (Desiderio, p. 137). In altri termini, desiderare la restaurazione del niente.

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