Marco Iuliano (1996) ha conseguito il Diploma di maturità classica presso il Liceo Classico "P. Galluppi" di Catanzaro. Attualmente è studente laureando del Corso di Laurea in Filosofia presso l'Università di Catania.

È la Paidéia, insegnano i Greci, a definire il tipo di uomo che emergerà. Non la Paidéia in quanto esercizio di sudditanza e obbedienza come potrebbe facilmente avvenire in una società aristocratica, oligarchica, classista, ma come diaframma dell’individualità. Pasolini nelle Lettere luterane mette in scena la paidéia rivolgendosi a un immaginario ragazzino napoletano («il fatto che tu sia napoletano esclude che tu, pur essendo borghese, non possa essere anche interiormente carino», in quanto «Napoli è ancora l’ultima metropoli plebea»). Di notevole spessore è la dichiarazione d’intenti delle sue lezioni pedagogiche che toccano il lirismo:

negli insegnamenti che ti impartirò, non c’è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci (Pasolini, Lettere luterane, 2009, p. 29).

L’intellettuale friulano ha voluto appositamente salvaguardare due aspetti emarginati ed estremizzati nelle nostre società: la sacralità e i sentimenti. Le sue parole sono gravide di un iter culturale che sintetizza Nietzsche, Marx e la Scuola di Francoforte, in particolare le analisi di Herbert Marcuse. Perché proprio questi due aspetti? Da una parte il sacro, la metafisica, l’apertura dell’organo visivo che getta e riceve la luce dagli enti circostanti. Si pensi alla lezione ontologica di Pasolini a partire dalla ‘semiotica degli oggetti’ presenti nella sua abitazione natale che gli impartirono appunto un tipo di socializzazione ‘ontica’. Se c’è qualcosa, infatti, di enormemente notevole nel suo occhio sociologico e semiologico è senza dubbio la capacità di notare il cosiddetto linguaggio delle cose, il linguaggio degli enti che parlano anche se sono privi di parola e portano con sé la pesantezza di un carico ideologico e storico positivo e negativo, di dominio o di sudditanza. In ogni caso e sempre di Differenza.

Riuscire a notare questa rimbaudiana nuance è l’azione scientifica, vivere con una costante attenzione ai dettagli, alle sfumature appunto. Il sacro nonostante i processi di secolarizzazione, nonostante l’avvento dei monoteismi e del consumismo che rendono inutili ogni credo, emerge con forza dall’individuo anche nell’età contemporanea. Ma la paidéia può essere sia una forma di schiavitù che di libertà. Schiavitù se è inaccessibile, elitaria. Libertà se il filtro che pone dinnanzi agli occhi non è totalitario e consente di rapportarsi con stupore al mondo, di educare alle emozioni prima che siano i media e i Poteri a farlo. Corpi che educano corpi e non strumenti che educano menti.

Nietzsche getta le basi per i filosofi dell’avvenire, ovvero coloro che avranno il coraggio di ragionare fenomenologicamente e ontologicamente e al contempo di generare nuovi idoli, nuove culture. Non più idoli che vincolino la vita ma che la rendano piena di significato, conscio che per l’agire umano sia necessario un valore che traduca la nostra animalità. Per Pasolini la sacralità dell’esistenza non è determinata dalla tanto da lui ricercata religiosità contadina quanto piuttosto dalla Differenza culturale che rende unica ogni esperienza vissuta. Infatti per lo scrittore:

la parola «cultura» non indica soltanto la cultura specifica, d’élite, di classe: indica anche, e prima di tutto (secondo l’uso scientifico che ne fanno gli etnologi, gli antropologi, i migliori sociologi) il sapere e il modo di essere di un paese nel suo insieme, ossia la qualità storica di un popolo con l’infinita serie di norme, spesso non scritte, e spesso addirittura inconsapevoli, che determinano la sua visione della realtà e regolano il suo comportamento.

Appare ora più chiara la contestazione verso la nuova giovane Italia che trova a suo parere una piccola e debole ‘isola felice’ negli operai e intellettuali impegnati a sostenere il valore e l’ideale comunista contro un nichilismo passivo che cade nel consumo di droghe e, in generale, in uno spietato edonismo borghese.

Nell’articolo Le mie proposte per scuola e tv Pasolini sostiene che la scuola e la tv sono, al termine degli anni ’70 (ma come anche oggi, con l’aggiunta di nuovi strumenti più efficacemente persuasivi), due esperienze fondamentali di socializzazione, dopo quella familiare e prima ancora delle cose. Perché dunque la televisione e la scuola necessiterebbero di una riforma? Perché «la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo stato è la nuova produzione (produzione di umanità)». Ciò che ‘cade’ dal video è autoritario perché è il ‘già assodato’, ciò che si deve dedurre vero e documentato. Lo spettacolo esprime grande efficacia se unito a tecniche verbali di manipolazione, a presentatori teatralmente convinti, scandalizzati quando devono scandalizzare e falsamente apprensivi quando devono corrompere. Biologicamente l’uomo vive di un’ansia di conformismo che lo possa fare sentire forte e perfettamente in regola nella sua società, nel suo gruppo. Ogni suo gesto è sociale (un sorriso, un saluto).

Il consumo conosce queste costanti antropologiche, conosce il punto di arrivo dell’uomo odierno. Bisogna sempre chiedersi, per svelare il suo trucco, quale tipo di uomo voglia consegnare ai posteri, con leggi e stati di emergenza, questo sistema. In tal modo si può, forse, arrestare il flusso dello sviluppo che non coincide con quello del progresso.

Un caso emblematicamente calzante a conferma delle tesi dei francofortesi, di Pasolini, di Biuso, di Illich è il docu-reality televisivo Il Collegio, dove il voyeurismo prevale sulla cultura: per il pubblico è più interessante la capacità dei ragazzi di essere ‘spontanei’, ‘genuini’ piuttosto che la visione di interi filmati su Montale o Palazzeschi (https://tv.fanpage.it/tutti-i-segreti-de-il-collegio-intervista-a-paolo-dago-curatore-del-docu-reality-di-rai2/).

C’è un filo rosso che giunge fino al nostro presente più intimo: va dal cristianesimo al programma pedagogico dell’Emilio di Rousseau, trovando nuova linfa nel marxismo, convergendo nelle pedagogie e psicologie nordamericane per confluire infine in esperimenti educativi (che sono sempre politici: si pensi a Descolarizzare la società di Ivan Illich che immagina, contro il Potere, l’orizzontalità del sapere, un anarchismo metodologico), come ad esempio quello della scuola di Barbiana studiato da Alberto Giovanni Biuso in Contro il Sessantotto. Ma andiamo con ordine. Potremmo trovare l’origine della Società dello spettacolo nella critica che Platone compie contro la cosiddetta ‘teatrocrazia’ nel terzo libro de Le Leggi. Per Platone il teatro è infatti un luogo che corrompe gli animi e soprattutto propaganda l’idea che chiunque possa governare la polis. Tematica, quella dell’educazione politica, che trova già nel Protagora notevoli riflessioni.

L’esperimento di Barbiana è nettamente lontano dalla paidéia gramsciana, proprio perché già lo stesso Gramsci si pone in contrasto con la lettura religiosa e apolide di Marx. La Lettera a una professoressa ricopre una posizione importante nella denuncia al classismo dell’istituzione scolastica fortemente evidente negli anni ’70: un’istituzione senza pedagogia che giudica su presupposti materialistici, su stereotipi, su tempi di risposta. Ma Don Milani ha anche contribuito a spianare il terreno per la scuola-fabbrica che offre a tutti la stessa mediocrità e coincide tristemente col bisogno di uomini-merce del capitalismo. Emblematica l’associazione che fa Althusser tra il suono della campanella del cambio dell’ora e quello della fabbrica alla fine del turno. Oggi un titolo di studio ha poca rilevanza per la mobilità sociale e serve solo a mantenere negli strati più bassi i meno fortunati favorendo ulteriormente le classi dominanti.

È con Jan Amos Comenio, alchimista nonché teologo protestante, che si diffonde «l’idea di far passare ogni individuo per una serie di fasi di “illuminazione”», infatti «nella sua Didactica magna definiva le scuole meccanismi “per insegnare qualunque cosa a chiunque” e abbozzò il progetto di una catena di montaggio per la produzione di sapere» (ci sono echi watsoniani e skinneriani). Nel XVII secolo, poi:

cominciò ad affermarsi un nuovo consenso, questa volta intorno all’idea che l’uomo nascesse inidoneo alla società e tale rimanesse se non gli si forniva una “educazione”. L’educazione venne così a indicare l’opposto dell’attitudine vitale. Venne ad indicare un processo, anziché la semplice conoscenza dei fatti e la capacità di adoperare gli strumenti che danno forma alla vita concreta dell’uomo. L’educazione si identificò con una merce, immateriale che andava prodotta a beneficio di tutti, e a tutti dispensata nella stessa maniera in cui prima la Chiesa visibile dispensava la grazia invisibile. La giustificazione al cospetto della società divenne la prima esigenza dell’uomo, che viene al mondo in una condizione di stupidità analoga al peccato originale (Ivan Illich, Descolarizzare la società, 2010, p. 121).

Ciò che conta per il capitalismo (nella forma del neoliberismo) è l’omologazione, un punto di partenza uguale per ogni uomo o donna. Esso non necessita di persone con prospettive, desideri, progetti, capacità diverse poiché il concetto chiave quale ‘la flessibilità’ (anche di matrice comportamentista), di cui si avvale per raggirare il lavoratore contemporaneo, è l’espressione di tutta l’inutilità della differenza che rappresentiamo. Non importa che un individuo sia capace di svolgere una mansione intellettuale o manuale. Importa che questo sia pronto a farsi flettere dal Potere. Il processo di plasmazione prende piede a scuola, attraverso una programmazione standardizzata, e prosegue nel campo del lavoro e delle scelte quotidiane: «la scuola è divenuta la religione universale di un proletariato modernizzato e fa vuote promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica». Paolo Perticari sostiene che «la profezia situazionista si è avverata: siamo ormai pressoché completamente afferrati dallo spettacolo, in cui il vero è un momento del falso», per cui «Guy Debord e Illich andrebbero letti non soltanto parallelamente ma perpendicolarmente».

Lo spazio politico italiano è lo specchio più evidente di ciò che ha significato il paradigma ’68 per la società, ovvero, l’annullamento del valore della conoscenza a favore, invece, della pornografia. La società che vede Debord è fatta solo di consumatori passivi di merci televisive proprio perché tale è l’individuo contemporaneo: il suo potere è solo potere d’acquistare, libertà di comprare, consumare e generare immondizia. Dunque «l’educazione in funzione di una società fondata sul consumo equivale alla formazione del consumatore»:

il potere, la cui natura è in primo luogo biologica […], consiste nell’afferrare ciò che sta davanti e a disposizione, mangiarlo, incorporarlo e annientare così ogni diversità rispetto a colui che divora. Nel mondo contemporaneo, tale circuito di afferramento, consumo, e digestione è diventato la sacralità della produzione che ha sostituito in pratica ogni altro stile di vita, in un’indefinita tensione verso l’accrescimento dei beni da produrre, vendere, acquistare, distruggere, riprodurre. Il potere è dunque diventato pura produzione in vista del consumo (Biuso, Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia, 2012, pp. 77-78).

Ma il mondo della riproduzione è anche il mondo di tutte quelle persone che mettono in scena la rivoluzione «per non farla nella realtà». Ed è infatti all’ordine del giorno la cruenta lotta tra attori politici che nei talk-show o nei social media difendono ideali e azioni immaginarie, proprio perché se reale è solo e unicamente il virtuale «non apparire equivale a non esserci», ovvero: non dissimulare significa non esistere. E questo non soltanto in un ambito puramente politico ma anche nel quotidiano. Basti pensare al quantitativo di tempo che viene impiegato da ognuno di noi nell’utilizzo dei social network che rappresentano delle vere e proprie agorà ove, però, non vi è un tafano Socrate a creare circuiti di straniamento nelle convinzioni individuali. Il gioco dei social network è infatti solipsistico, autoreferenziale, guidato dalla ripetizione e dall’algoritmo. A ragione alcuni studiosi hanno visto in queste piattaforme un ritorno a istinti creduti, ingenuamente, come passati (siamo primitivi).

Biuso ripercorre un pezzo di storia italiana e della sua colonizzazione culturale da parte degli Stati Uniti. Un pezzo di storia che ha reso il ’68 un paradigma che ancora oggi agisce nella vita collettiva. La sua è un’analisi accurata di alcune categorie filosofiche, antropologiche, sociologiche, pedagogiche (dall’Emilio alla pedagogia della contestazione che «nasce da una cattiva lettura delle pedagogie permissivistiche nordamericane: dall’ottimismo pragmatista di Dewey al meccanicismo di Skinner»), che hanno contribuito a creare quello che è l’«uomo-massa rimasto bambino, che tutto pretende nel momento stesso in cui distrugge le strutture che dovrebbero fornire soddisfazione ai suoi innumerevoli bisogni», studiato da pensatori quali Elias Canetti, Ortega y Gasset, e rimandano, in un orizzonte molto più ampio, anche all’analisi di Kerényi e Jung sul ‘bambino divino’ e ancora all’analisi di Massimo Recalcati su quella che potremmo definire ‘l’infanzia eterna’ ricercata dagli adulti del nostro tempo. Una società ‘senza padri’. Di figli perenni.

Il quadro oggi è differente. Il Capitalismo ha chiuso l’universo politico, come sostiene Marcuse, integrando la ribellione e la critica. Le tendenze progressiste, ecologiste, mostrano chiaramente questa integrazione, la fedeltà al capitale, rimanendo nel terreno della light ecology, del marketing della società dello spettacolo o ancora nel sostenere gli interessi dell’industria non volendo mettere radicalmente in discussione la posizione dell’uomo nel mondo.

Al di là della visualizzazione del nuovo Potere che si rivela come il vero “fascismo” anche perché proprio biologicamente autoritario, Pasolini raccomanda di non cadere né nell’inganno della rivoluzione sessantottina, né, da buon marxista, nell’inganno reazionario e conservatore che accusando la globalizzazione e il progresso nasconde gli interessi delle borghesie e delle autorità nazionali, allontanando ancora di più l’orizzonte della critica che trasforma. In poche parole l’inganno della «coscienza felice – la credenza che il reale è razionale e che il sistema mantiene le promesse» (Marcuse, L’uomo a una dimensione, 1999, p. 96).

 

Loading