Zeffiro Ciuffoletti (1944) è stato dal 1981 al 2014 professore ordinario di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Emerito dell’Accademia dei Georgofili e Presidente dell’Istituzione di Studi Firenze per l’Europa (ISFE), è autore di numerosi saggi sulla storia politica e sociale, tra cui: Tre storie, una storia. Italia, Europa, mondo(2017); Breve storia sociale della comunicazione (con E. Tabasso, 2018); Craxi. Le riforme e la governabilità (1976-1993) (con E. Tabasso; 2019); Il pane fra sacro e umano. Dal Medioevo cristiano al Novecento (2020); La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale (con D. Breschi e E. Tabasso, 2021); I Garibaldi dopo Garibaldi. La terza generazione e le sfide del Novecento(nuova ediz., 2023); Sfide a sinistra. Storie di vincenti e perdenti nell'Italia del Novecento (con D. Breschi; 2023). Ha curato, di recente, i seguenti volumi: Pensare l'Europa. Riflessioni e proposte (2022); Il Parlamento europeo. Storia, potere, identità e problemi (2024).
A cura di Danilo Breschi
- Professore, Lei è nel Consiglio direttivo dell’ISFE, Istituzione di Studi Firenze per l’Europa, che ha peraltro contribuito a fondare. Si tratta, così recita la presentazione che compare sull’apposito sito web, di «un think tank di politica pubblica europeo dedicato alla difesa della dignità umana, all’espansione del potenziale umano e alla costruzione di un mondo più libero e più sicuro». Da questo osservatorio privilegiato come valuta l’attuale situazione europea e mondiale? L’Ue è davvero ad una svolta dopo la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca?
La brutalità degli atteggiamenti e delle espressioni di Trump, persino quando ci parla di pace, vanno al di là del carattere dell’uomo e di coloro di cui si è contornato. Tutte persone che, invece di raffreddare, alimentano l’estremismo senile e rozzo del Presidente americano. Però, siccome è stato votato da milioni di americani che non sono tutti estremisti, dobbiamo capire che anche la sua elezione è frutto di un estremismo democratico ed elitario che spregia la realtà. Certamente sembra non tener conto degli umori della gente comune che negli Usa, come nella Ue, mostra, almeno con il voto, che il democraticismo e il mondialismo hanno creato più problemi che vantaggi. Come è evocato perfettamente da un libro, poco letto come tutti o quasi i libri intelligenti, intitolato La globalizzazione imprevidente (Effigi, Arcidosso 2021), scritto qualche anno fa. L’accelerazione prodotta dallo sviluppo della rivoluzione digitale e dalle più recenti e sconvolgenti applicazioni dell’intelligenza artificiale, nonché le guerre, la crisi economica di alcuni paesi europei, gli imponenti flussi migratori verso l’Europa e gli USA hanno scavato la tomba all’illusione delle “magnifiche sorti e progressive” di un mondo senza confini, aperto dalla forza travolgente del mercato mondiale. Senza nessuna ragionevole preoccupazione delle resistenze, degli scontri e delle conseguenze negli equilibri mondiali. Come se il mercato fosse, da solo, in grado di superare le differenze di culture, di civiltà, di potenza e di sfere di influenza. L’accelerazione impressionante del processo di globalizzazione e le continue innovazioni in campo tecnologico hanno sconvolto qualsiasi visione di un nuovo ordine mondiale. La guerra dei dazi, come quella della ricerca di materie prime e metalli adeguati a sostenere le nuove tecnologie, oppure la ricerca di risorse energetiche di cui le nuove tecnologie hanno bisogno, perché esse, per prime, sono energivore, rappresentano segnali evidenti di un mondo multipolare e conflittuale. Un mondo che minaccia le democrazie dal loro interno e dall’esterno con le interferenze mediatiche e con le conseguenze sociali dell’emigrazione.
L’Europa, la Ue, si è trovata spiazzata e impacciata davanti ad un sistema mondiale conflittuale che non aveva calcolato, affidandosi a piani pluriennali green che non tenevano conto della realtà e del resto del mondo, ma neanche della velocità delle innovazioni tecnologiche in grado di spiazzare piani di ogni tipo.
L’ISFE è nata a Firenze ormai da cinque anni, quando questa fragilità e farraginosità delle istituzioni europee minacciava la più grande realtà nata dalle macerie della guerra mondiale che aveva avuto proprio in Europa il suo epicentro. Un’Europa, non lo dimentichiamo, che aveva prodotto le idee e i valori liberali e democratici, ma anche le ideologie totalitarie che avevano condotto alla catastrofe della guerra. L’ISFE con pochi, pochissimi finanziamenti, è riuscita a produrre incontri di studio, conferenze e ben quattro volumi ricchi di analisi e spunti per sollecitare una riforma dei Trattati, necessaria per affrontare le sfide di un processo di globalizzazione sempre più conflittuale e sconvolgente. Un processo che rischia di penalizzare proprio l’Unione europea. L’Unione è l’espressione di una civiltà plurisecolare di cui l’Europa, a partire dal Cinquecento, era stata il motore propulsivo con la navigazione, la scoperta di nuovi mondi, la stampa a caratteri mobili e la rivoluzione scientifica. Sino alle rivoluzioni atlantiche del Settecento e alle rivoluzioni nel sistema produttivo e dei trasporti che sono arrivate a noi. Con la dose di violenza, di sopraffazione e di dominio che la storia produce negli scontri e negli incontri di civiltà.
- Cosa direbbe se dovesse spiegare ad un giovane italiano il significato di dirsi “europei”? E come intendere l’espressione “Unione Europea”?
Dirsi europei non vuol dire non avere una identità nazionale, una patria, vuol dire sentirsi parte di una civiltà comune. Senza troppi giri di parole l’Italia non sarebbe nemmeno nata senza il soccorso di Francia e Inghilterra. Magari perseguendo interessi diversi, francesi e inglesi concorsero a fare l’unità d’Italia. Andando più in profondità, come si può negare che le diverse storie delle nazioni europee non abbiano radici che affondano nella cultura greca pre-cristiana, nell’impero romano, nel cristianesimo e poi negli imperi, il sacro romano impero, i grandi imperi dell’Europa medievale e moderna, oppure nelle rivoluzioni da quella inglese a quella francese?
Potremmo, e dobbiamo, proseguire nell’elenco, arrivando sino ai disegni imperiali di Napoleone Bonaparte e poi alla nascita della moderna idea dello Stato-nazione, delle idee di libertà e di democrazia, di diritti e di doveri, di lotte e di sconfitte, di guerre coloniali, di micidiali guerre, di fratricidi e poi di altrettante ideologie assassine e totalitarie di destra o di sinistra. E poi, ancora, di rinascite democratiche, di spettacolare sviluppo delle istituzioni, delle scienze e delle rivoluzioni tecnologiche. Insomma l’Europa non è una cosa semplice da spiegare se non si conosce la storia, non si conoscono le sue città, le sue cattedrali, le sue chiese, ma anche le sue fabbriche, le sue università, l’arte. Poi, quando gli europei, e gli italiani in particolare, Colombo, Vespucci, i Verrazzano, scoprirono il “nuovo mondo” portarono con sé lo stimolo alla libertà, alla libertà religiosa, alla ribellione, alla rivendicazione di decidere il proprio destino anche nelle colonie americane. Da qui l’idea e la realtà dell’Occidente che per due volte portò gli americani ad entrare in guerra sul territorio d’Europa, creando vincoli di tale forza politica, economica, culturale, che nessuno potrà facilmente stroncare.
Di questa stessa storia fa parte l’Europa, che più volte da Napoleone a Hitler si tentò di unificare con la forza, ma che alla fine trovò in sé stessa, nei suoi più grandi pensatori e nei suoi grandi statisti la forza di unificarsi proprio a partire dalle rovine materiali e morali della seconda guerra mondiale. Prima creando una Comunità a sei, poi una Unione a ventisette. Un gigante economico e sociale, che attira milioni di immigrati dal mondo intero e che proprio per la sua crescita impietosa non è riuscito a darsi una forma istituzionale compiuta: né confederale, né federale. Ora, però, dovrà scegliere perché si deve impadronire del suo destino e difendere i suoi valori. Partendo dalla sicurezza, per ragioni che sono sempre più evidenti. Da soli gli Stati europei, anche quelli più grandi, sarebbero incapaci non solo di tutelare la propria sicurezza, ma anche l’idea di ulteriore sviluppo.
- Lei è un autorevole storico dell’età contemporanea, ma anche del Risorgimento italiano. Cosa può insegnarci oggi la nostra storia nazionale, il modo in cui è sorto lo Stato unitario italiano? Ci sono in quelle vicende, lunghe un secolo, se comprendiamo tanto le campagne napoleoniche quanto la Grande guerra, alcuni ammaestramenti per il presente, se non per il futuro?
Il Risorgimento è stato un fenomeno politico e culturale fondante dell’identità e della nascita dello Stato unitario in Italia. Le forze ideali che lo alimentarono presentavano un ventaglio di culture politiche assai vario: liberali, cattolico-liberali, federaliste, democratiche, con sfumature anche radicali e socialiste. Nel contesto delle nascenti nazioni europee la via italiana all’indipendenza nazionale fu la più partecipata e complessa proprio per la geografia politica generata dal Congresso di Vienna, dopo la fine del “tornado napoleonico” e del sogno imperiale di unificare l’Europa con la forza. Restaurare le antiche monarchie, i privilegi sociali e gli assetti politici preesistenti fu con immediata evidenza impossibile. L’orizzonte politico dalla Spagna alla Russia, dall’Italia alla Grecia, si animò subito con movimenti costituzionali e nazionali. Insomma l’ordine europeo non poteva essere ricostruito guardando indietro. Napoleone aveva sfruttato la spinta patriottica e democratica della Francia rivoluzionaria, che animava i suoi soldati, ma quel sentimento nazionale si era romanticamente diffuso anche ai polacchi, ai tedeschi, agli italiani, ai greci. Spesso soldati che si unirono alla “grande armata”.
Ecco perché le critiche al Risorgimento di stampo prevalentemente ideologico alla fine sono state storiograficamente perdenti. Sebbene abbiano rivelato la forte politicizzazione della storiografia italiana, verso la destra nazionalista e poi fascista, o verso la sinistra prima repubblicana, e poi comunista e marxista. Gramsci era ben dotato culturalmente ma anche altrettanto motivato ideologicamente e il suo Risorgimento sarebbe stato una rivoluzione agraria mancata e poco giacobina. Il fatto è che la Francia era già una nazione unitaria prima del 1789, mentre l’Italia del tempo di Mazzini e Cavour era divisa in una decina di stati e staterelli dipendenti dalle potenze europee.
Il problema vero dell’Italia dopo l’unificazione fu il faticoso processo di nazionalizzazione delle masse, proprio per la difficoltà di superare i tanti cleavages culturali, sociali, economici e politici delle diverse “Italie”. Lo si vide nel primo come nel secondo dopoguerra, quando attecchirono ideologie estremiste che nel primo dopoguerra alimentarono l’ascesa del fascismo come partito armato contro le minacce dei “bolscevichi”, e nel secondo dopoguerra, unico caso in Europa, il blocco social-comunista che guardava a Mosca e non alle democrazie dell’Europa occidentale. Prevalse la scelta atlantista e occidentale di De Gasperi e di Einaudi e la nascita di una Comunità europea che favorì uno sviluppo economico e civile semplicemente miracoloso.
Oggi bisogna riequilibrare il rapporto euroamericano sulla base della sicurezza, sia militare che energetica, ma nella consapevolezza che la globalizzazione, ieri e ancora più oggi, è un grande fenomeno conflittuale di incontri e scontri, con sfide continue per affrontare le quali è sempre meglio unire le forze di quello che una volta si chiamava Occidente.
- Lei studia da molto tempo anche la storia dell’agricoltura sotto molteplici aspetti, alimentari, economici, sociali e culturali. Cosa ne pensa delle politiche europee in materia?
Questo è un tema che mi è caro sia dal punto di vista degli studi storici, sia dal punto di vista politico e tecnico, da Georgofilo emerito, con un titolo che sa di antico. Al tema delle politiche agricole della Comunità e poi dell’Unione europea ho dedicato vari saggi anche sulla base delle riflessioni, a volte critiche, degli accademici agronomi dotati di esperienze specifiche o economisti attenti al ruolo del settore agricolo nell’economia nazionale o europea, ma anche a livello globale (Cfr. A. Belisario – Z. Ciuffoletti, a cura di, Le sfide della sostenibilità e i Piani europei, Effigi, Arcidosso 2025). L’impronta eccessivamente ambientalista, cioè ideologica dei Piani europei, rivela una tale astrattezza sin dall’impianto che non tiene conto della concorrenza esterna e della velocità delle innovazioni tecnologiche che contrastano con i piani di lungo periodo e infine non tengono conto dei problemi della sicurezza alimentare che sono stati all’origine della PAC a partire da quando dopo la guerra prese forma la Comunità economica europea.
Le proteste degli agricoltori e i diversi equilibri politici europei emersi dalle elezioni nei vari paesi membri dell’Unione e, da ultimo, le elezioni in Germania hanno imposto una revisione dei piani a favore di una transizione ecologica e ambientale che non penalizzi le imprese, specialmente il tessuto delle piccole e medie imprese, incapaci di sostenere il peso finanziario della riconversione e il carico burocratico. Non a caso il Commissario europeo dell’Agricoltura Christophe Hansen ha presentato in questi giorni un nuovo Piano di azione per il quinquennio del nuovo mandato della Commissione. Probabilmente sarà ancora corretto per via della situazione internazionale e della “guerra dei dazi”. I piani nella storia non hanno mai funzionato, specialmente quando il loro impianto non teneva conto degli uomini e della realtà, ma aveva una forte impronta ideologica. Chi vivrà vedrà, ma il contesto internazionale suggerirebbe una buona dose di prudenza.