Valentina Meliadò, giornalista e storica. Nel 2006 ha pubblicatoIl Manifesto dei 101. Il Pci, l’Ungheria e gli intellettuali italiani, libro dedicato alla frattura tra partito comunista e intellettuali all'alba della repressione sovietica della rivoluzione ungherese del 1956; nel 2009, per la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”, il saggio Ugo Spirito il rivoluzionario: dall'attualismo al comunismo, dedicato al viaggio intrapreso dal filosofo del problematicismo in Unione Sovietica nel 1956. Già redattrice della trasmissione radiofonica Rai Radioanch'io, e giornalista del quotidiano “Liberal”, collabora attualmente con il quotidiano “L’Opinione” e con la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”.
Mi sono alzata un sabato mattina, ho preparato la colazione, organizzato la giornata dei miei figli, lo sport, i compiti, gli amici, ma senza stress. Mi sono coccolata all’idea di una giornata senza fretta, da vivere in pigiama, al caldo di casa mia. Casa mia, quel posto che non è solo un luogo fisico, ma un guscio, una cuccia, una proiezione intima e impenetrabile di me, di noi, della famiglia che siamo. Un sabato mattina qualunque, in una città qualunque, in Italia.
Poi ho acceso la tv, e ho scoperto che era il 7 ottobre, e che in quelle stesse ore, in Israele, si stava consumando un massacro atroce, un pogrom antiebraico di una ferocia talmente inaudita da far impallidire molti degli aggettivi consoni a descrivere il modus operandi nazista. Forse il più grave attacco terroristico ai danni di civili del secondo dopoguerra, ancora più sconvolgente dell’11 settembre, perché caratterizzato dalla determinazione assoluta ad uccidere, stuprare, seviziare, mutilare, decapitare, bruciare, inseguire, distruggere, annientare casa per casa, stanza per stanza, porta per porta, persona per persona. Con un orgoglio, una spavalderia e una gioia che lascia interdetti.
Questo evento terrificante ha distolto gli occhi del mondo dalla guerra russo-ucraina, al punto da farla sparire, improvvisamente, dai notiziari e dai quotidiani; l’interesse mediatico per il conflitto che fino a poco più di un mese fa veniva presentato come dirimente per gli equilibri mondiali, per le sorti della democrazia e della civiltà occidentale, si è dissolto in 24 ore. Salvare l’Ucraina da Putin non sembra più di vitale importanza, le vestali della guerra a oltranza si sono assopite, il senso di giustizia dell’opinione pubblica grida vendetta altrove, ma altrove, ancora una volta, non è il posto giusto.
Questo attentato, questa azione di guerra contro civili preparata fin nei minimi dettagli, filmata a fini propagandistici, e – forse – in qualche modo persino preannunciata ad alcuni giornalisti, avrebbe dovuto portare il pianeta intero ad una riflessione profondissima su molti temi: il governo di Hamas e la gestione di miliardi di dollari nella striscia di Gaza negli ultimi diciassette anni; il sostegno e l’approvazione dei palestinesi alle sue attività, apparentemente incomprensibile per l’oppressione e la violenza esercitata in primis sulla popolazione della Striscia; l’interruzione del processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, di fatto il sabotaggio degli Accordi di Abramo; l’immediata, e pesante, presa di posizione della Russia – un paese che dovrebbe risentire gravemente delle proprie responsabilità per la guerra all’Ucraina, e che ha invece acquisito un ruolo preminente nello scacchiere mediorientale – a fianco dell’Iran e dei peggiori nemici di Israele; l’atteggiamento sfacciatamente antisemita delle Nazioni Unite e del suo segretario generale.
Se questi non sono i principali temi di discussione delle cancellerie di mezzo mondo qualcosa non va, e in effetti qualcosa non va: l’indignazione e il risentimento del mondo sono sì puntati su Israele, ma non sul massacro e sulla sorte degli ostaggi, quanto sulla reazione decisa del piccolo stato ebraico. Nessuno può rallegrarsi di una guerra che provoca e provocherà vittime civili, ma si può negare la necessità esistenziale di distruggere Hamas solo ignorando la storia di questo conflitto, e anche in tal caso risulta difficile. C’è di più, ed è l’irresistibile riflesso condizionato di mettere Israele sul banco degli imputati, un riflesso che si nutre, contemporaneamente, dell’antisemitismo connaturato alla storia culturale e religiosa europea, e di quello – dilagante – definitivamente abbracciato dal pensiero progressista dopo il 1967. Tale pensiero, nella sua versione attuale e dominante, è figlio diretto e naturale del connubio tra il retaggio sessantottino e l’economia digitale.
Non esistono periodi storici che non siano segnati e caratterizzati da una particolare visione del mondo, e – dalla rivoluzione francese in poi – si può dire che si sia determinata una radicalizzazione del pensiero politico che ha prodotto, tra il XIX e il XX secolo, l’affermazione e l’apoteosi del pensiero ideologico, cioè della ricerca e della imposizione di massa di spiegazioni esaustive del mondo, che conducono, inevitabilmente, al dovere morale di estirpare la parte “cattiva” della società. Con la caduta del Muro di Berlino, e la fine del socialismo reale in Europa, si è creduto che anche le ideologie avessero fatto il loro tempo, ma, a distanza di oltre trent’anni, è chiaro che la tentazione ideologica non sia proporzionalmente legata a determinati contesti storici e sociali, quanto piuttosto ad un atteggiamento mentale, che ha trovato negli ultimi decenni terreno fertile nel vuoto scavato da un processo di laicizzazione estremo. Il cinismo della mancanza di un senso spirituale della vita, da una parte, e il distacco sempre più profondo tra società e politica, dall’altra, si sono coniugati perfettamente con lo schema di vita proposto dalla socializzazione virtuale della realtà: fugace, vanesio, superficiale, autoreferenziale, pressapochista. Un matrimonio che ha finito per sostituire la politica con la burocrazia, la filosofia con la scienza, le arti con la tecnologia, e il capitalismo imprenditoriale con quello finanziario e tecnologico; se il capitalismo di produzione spingeva il consumo, infatti, quello tecnocratico si consuma e si brucia alla velocità dei suoi prodotti e dello stile di vita, appunto, che suggerisce.
Slogan, diktat, frasi brevi e d’effetto si sono sostituiti a qualsiasi forma di studio e di approfondimento; i social sono diventati la principale fonte di informazione, di studio, di dibattito, di esistenza; tutto e il contrario di tutto hanno la stessa probabilità di essere accreditati come fatti circostanziati e indiscutibili. Ma se i figli del ’68 combattevano la civiltà occidentale per superarla e sostituirla con il modello socialista, i nipoti, con la cultura woke, intendono distruggerla dall’interno censurandone la cultura, colpevolizzandone la storia, responsabilizzandola per tutti i mali del mondo. L’obiettivo va oltre l’utopia della società degli eguali; l’espiazione delle colpe (reali e presunte) non serve alla costruzione di una civiltà migliore, ma ad una destrutturazione nichilista che soddisfi la superficie della coscienza: i buoni e i giusti, privi di un modello sostitutivo, contrappongono all’Occidente, forte e opulente, il concetto di minoranza (etnica, religiosa, sessuale, ambientale) quale valore assoluto, indipendentemente da cosa essa rappresenti, dal suo effettivo stato di debolezza, e al netto del pensiero che la sostiene e dai suoi comportamenti.
Non sorprende dunque lo spettacolo indecente di manifestazioni antisemite o antisioniste – che sono esattamente la stessa cosa, perché negano agli ebrei il diritto di esistere sia come popolo che come nazione – la violenza contro sinagoghe, abitazioni e persone fisiche, in cui si mischiano contenuti politici con tematiche etiche e ambientali; e non stupisce l’adesione imbarazzante al boicottaggio della cultura e della economia israeliane, per non parlare della libertà e della protervia con cui l’odio, il disprezzo e l’indifferenza – se non proprio la soddisfazione – per il massacro del 7 ottobre si esprime non solo nel mondo arabo, ma nelle “migliori” istituzioni politiche e culturali occidentali. Il pensiero ideologico è resistente a qualsiasi forma di ragionamento: è il trionfo del concetto di razzismo umano, secondo il quale solo l’uomo bianco è responsabile delle proprie azioni, e dunque né Hamas, né i palestinesi che l’hanno votata e sostenuta, sono tenuti a prendersi le proprie responsabilità, perché nella narrazione politica e culturale dominante essi sono la parte debole, che reagisce come può alle prevaricazioni del “forte” stato ebraico. Questa idea si è talmente radicata e diffusa da poter essere considerata, oggi, la base ideologica di un processo autodistruttivo della civiltà occidentale, e i risultati sono visibili in tutti gli aspetti in cui una società può essere valutata: i nemici della libertà individuale e della democrazia – dettagli che sono stati portati nel mondo proprio dall’Occidente – prosperano e si nutrono del disprezzo e della censura che imponiamo a noi stessi, mentre lo Stato e le sue istituzioni allargano le proprie prerogative sulle libertà e i diritti fondamentali del singolo, e la nostra stessa vita è diventata una routine digitale di stupidità e luoghi comuni, che offendono e spengono qualsiasi forma di conoscenza e di senso critico.
Chi ha un minimo di consapevolezza storica sa che Israele è l’ultimo baluardo dell’Occidente, la porta attraverso la quale passa, se passa, la caduta di questa civiltà. Non passerà, perché il popolo ebraico non è disposto a farsi sterminare né dal fanatismo arabo, né dalla nostra ignavia, e tuttavia siamo già sconfitti, nella misura in cui si approfondisce il solco della distanza tra noi e tutto ciò che abbiamo rappresentato nella storia dell’umanità. Il mondo che non vorrei è già qui, ora si tratta di vedere quanto, ancora e di nuovo, il popolo ebraico sarà disposto a sopportare per procrastinare la fine dell’Occidente.