Stefano Brugnolo (1956) e si è laureato nel 1980 a Venezia sotto la direzione di Francesco Orlando, ha insegnato Letterature comparate, e dal 2009 è docente di Teoria della letteratura presso l’Università di Pisa (dal 2018 in qualità di professore ordinario). Si è occupato e ha scritto di autori e testi appartenenti a varie tradizioni linguistiche e nazionali. Si è occupato di umorismo, della relazione tra scritture scientifiche e scritture letterarie, di letteratura coloniale, del soprannaturale in letteratura, di letteratura delle periferie, di retorica e stilistica. Ha scritto vari libri, tra cui: La tradizione dell’umorismo nero (1994), La letterarietà dei discorsi scientifici (2000), La tentazione dell’Altro. Avventure dell'identità occidentale da Conrad a Coetzee (2017), Dalla parte di Proust (2022) e Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano e europeo (2023).
C’è questo professore di Princeton che si chiama Dan-el Padilla Peralta, di cui adesso si sta parlando un bel po’. Lui è professore di storia romana, ma è un classicista pentito, per così dire. Da qualche tempo dice infatti che (come riportano media e social) “«i classici non meritano di avere un futuro perché nascono per perpetuare il dominio razziale bianco. Sarebbe un loro aspetto fondativo, connaturato, essenziale». E per esempio per lui «la monumentalizzazione della civiltà antica del periodo neoclassico ha sostenuto l’invenzione della “bianchezza” (e cita a proposito Johann Joachim Winckelmann) e ha funzionato da lasciapassare morale per il colonialismo e la sopraffazione delle altre popolazioni.” Ne consegue che per lui “gli studi classici sono inguaribili. Si possono solo abbattere». Ma mica è il solo a pensarla così.
Ora voglio dire: io non mi scandalizzo. Difendo e onoro la bellezza sì, ma mica negando che le opere umane anche quelle artistiche sono il prodotto di contraddizioni. Ben vengano dunque queste contestazioni: i classici se meritano di continuare a essere letti e amati devono fare i conti con i loro “nemici”, e non dobbiamo rifiutare il confronto con coloro che vogliono “abbatterli”. Anche i cristiani della prima ora volevano “abbattere” i classici prodotti dai cosiddetti pagani. Eppure i classici hanno superato quella prova, no? Magari questa volta non ci riusciranno e allora tanto peggio per i classici. In effetti i classici antichi sono per lo più nati all’ombra del potere, e molti poteri successivi li hanno sfruttati (si pensi all’uso che di essi ha fatto il fascismo). Lasciamo perdere, sia detto en passant, che anche dei Vangeli ci si è fatti scudo per legittimare operazioni militari e culturali imperialistiche e d’altro tipo (forse che per questo i Vangeli sono un testo intrinsecamente imperialistico?).Accettiamo la sfida. E per esempio prendiamo Virgilio. Virgilio era certamente dalla parte di Augusto e dell’Impero, e cioè di una grande impresa si dominio sul mondo. Perché negarlo? Una prima domanda da farsi è: quell’impresa è da ritenersi tutta e solo negativa? E per esempio: senza l’impero romano ci sarebbe stato il cristianesimo; o comunque quella religione avrebbe potuto espandersi così tanto nel mondo? Ma a questa domanda non saprei rispondere e se la pongo è solo perché penso che la storia dell’uomo non conosca solo il male o il bene e che tertium non datur. Ma comunque a interessarmi di più è una domanda diversa: l’Eneide nel cantare l’Impero ha dato spazio o no anche agli sconfitti, alla loro rabbia e al loro dolore? E più in generale un classico può essere tale se non è un’opera contraddittoria e ambivalente?
Ebbene certamente secondo me l’ha dato (si pensi a Didone a Turno). Ed è anche e proprio questo a rendere l’Eneide un classico, non certo solo la sua ideologia imperiale. Ma prendiamo il toro per le corna: siamo sicuri che qualunque rappresentazione di qualunque potere sia sempre e solo negativa e moralmente ripugnante? Guardiamo per esempio le grandi costruzioni architettoniche attraverso cui il potere s’è rappresentato nei secoli. Pensate alle Piramidi, al Colosseo, ai vari Archi di Trionfo. Ma pensate anche a Machu Picchu in Perù. Non ci sono mai stato ma mi dicono che è grandiosa, imponente. È certamente una architettura in cui si manifesta una inquietante volontà di potenza. E sappiamo che quella città è anche l’espressione di una civiltà violenta, barbarica. E dunque? Che ne facciamo? La abbattiamo? E forse che la Basilica di San Pietro non è anch’essa una rappresentazione grandiosa del potere papale, del potere cristiano? È per questo meno bella quella cupola, quel colonnato? Il potere o i poteri hanno costruito opere memorabili che ancora oggi ci impressionano. Ma anche certe ville palladiane, per esempio la Rotonda, sono espressione di ricchezza e potenza, e dietro c’è pur sempre il lavoro di gente sfruttata e a volte schiavizzata. Eppure come è perfetta la Rotonda di Palladio! Come essa si inserisce perfettamente nel paesaggio circostante. A guardarla sembra musica tramutata in pietra. Eppure quelle ville furono costruite da grandi signori, proprietari, mercanti. La stessa Venezia che oggi è per noi una sorta di non plus ultra di perfezione è una città la cui bellezza dipende anche dalla sua capacità di dominare il Mediterraneo e di depredarlo. Diciamolo: se davvero noi volessimo amare un’arte finalmente libera di ogni traccia di violenza e ingiustizia ci resterebbe ben poco da amare. Siamo davanti ad una contraddizione (una delle tante che caratterizzano l’umanità) e dobbiamo “sopportarla”. Magari ricordando quello che una volta disse Walter Benjamin e cioè che «tutto il patrimonio culturale che [abbracciamo] con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie». Si tratta appunto di non dimenticarselo, ma certo una cultura che per emendarsi da questi errori e “orrori” procedesse all’abbattimento (anche solo simbolico) delle opere prodotte dai grandi geni del passato sarebbe a mio modo di vedere una cultura di cui diffidare grandemente.