Recensione a: A. Carrieri, Urban Eden. Giardino Città Utopia, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 238, € 20,00.
Se ci si ponesse la domanda riguardo al primo luogo e alla prima forma dell’abitare umano, ripercorrendo i noti racconti dei miti e delle religioni, la risposta sarebbe assai facile: il giardino. Esso, infatti, è stato il primo luogo dell’umanità, uno spaziotempo in cui la natura è addomesticata e il rapporto con l’ambiente è assolutamente equilibrato, armonioso e pacifico. Il fatto, inoltre, che questo luogo originario si sia perduto, nella doppia linea di frattura che intercorre tra il piano dell’idealità e quello della realtà, dice molto, anzi tutto il resto. Il concetto della perdita potrebbe non essere, infatti, un modo di asserire l’effettivo smarrimento di una condizione paradisiaca, perfetta, che richiede uno sforzo nostalgico e ricostruttivo di riparazione, la restaurazione di una perfezione infranta e appunto perduta. L’Eden potrebbe essere nella sua essenza sempre perduto. Almeno fin quando non ci si impegni nella sua ricerca, con la fiducia che è possibile riottenerlo poiché un tempo lo si possedeva. Il giardino è realmente perduto quando si rinuncia a tentare la sua concreta ed effettiva realizzazione nel presente e nel futuro, quando nell’idealità dell’avvenire il paradiso è perso per sempre, e perciò irrealizzabile.
Una delle figure, certamente non l’unica, di attuazione della perfezione, della felicità e della redenzione, è quindi il giardino, attraverso il quale si fa memoria di un’idealità perduta in cui giaceva la pienezza ontologica. Se l’uomo percepisce potente dentro di sé un desiderio irrisolto di un giardino, egli esprime la necessità intrinseca di raggiungere la perfezione, l’assoluta redenzione, conatus che si declina fisicamente nella fattispecie di un luogo, di uno stato d’animo spaziotemporalmente connotato, di un sogno divenuto materia, abitazione, dimora, caldo grembo e ospizio delle lacerazioni e dello smarrimento. «La nostalgia delle origini paradisiache si configura infatti come una nostalgia spirituale, che l’uomo cerca di colmare con il giardino, quale luogo nel quale la felicità a lungo attesa è ancora possibile, dove la realtà può ancora piegarsi al desiderio» (p. 14). In tal senso, il giardino è il simulacro reale delle aspirazioni perdute, è l’immagine concreta del luogo della redenzione, della felicità finalmente compiuta, dell’errore risolto nella giustezza.
Alessandro Carrieri appronta quindi una sapiente e rigorosa ricognizione delle attestazioni progettuali e ideali del giardino nel corso della storia della cultura, sostando in modo particolare sui racconti mitici e religiosi, sulle stagioni del Medioevo e del Rinascimento, con un interessante, e irrinunciabile, affaccio nella contemporaneità, in cui l’alienazione, per dirla con Hegel, dall’idea stessa del giardino rischia di far perdere del tutto le coordinate e la possibilità stessa della sua realizzazione, in una degenerazione dell’Eden da qualcosa che salva a un aborto ontologico, tale da distruggere persino quanto ancora rimane della speranza. Il giardino diviene dunque un’idea salvifica, certamente, ma anche e soprattutto «un potenziale strumento eco-politico contro la catastrofe ambientale» (p. 19).
Ripercorrendo la lezione di Beruete, la nostalgia del paradiso perduto, come si diceva, si coniuga con la speranza di un futuro migliore, in cui a cambiare è il concetto stesso di perdita: non qualcosa da cui si è caduti o stati cacciati, bensì qualcosa che manca per il fatto di non averlo ancora, e quindi da ottenere con ogni sforzo, poiché dal suo ottenimento passa la redenzione, la realizzazione della felicità. La liberazione dalla sofferenza, dal dolore e dalla torba del malovivere in cui l’esistenza è spesso intrappolata coincide con quel tentativo di armonizzare arte e natura secondo un’alchimia sentimentale che tramuta i luoghi in stato d’animo, un affondo nell’originario benessere che promette una felicità assoluta, uno spaziotempo in cui provare pace, nel quale l’essere è disponibile in maniera incondizionata.
Con un denso richiamo alla seconda delle Tesi sul concetto di storia di Benjamin, forse la più vibrante e commovente, Carrieri afferma che «il giardino non parla “solo” della gaiezza primordiale e originaria, ma ci rammenta di tutte le promesse disattese e tradite, della felicità perduta; non rappresenta “solo” la memoria del mondo passato, ma quella di tutti i mondi immaginati e anelati dall’uomo, di tutti i mondi possibili» (p. 59). È per questa ragione che il giardino è utopia, è eterotopia, è luogo della libertà e del sogno, ma è, in modo forse più incisivo e pregnante, un luogo di soglia temporale, in cui passato e futuro, memoria e attesa, perdita e speranza, convergono nell’idea di redenzione di ciò che è stato e di ciò che ancora ha da essere. Un’idea di cui la storia come divenire umano degli eventi deve essere intrisa, come l’ideale città celeste con cui si conclude l’Apocalisse, la raffigurazione di una pacificazione della fine e del fine umano compiutasi in senso urbano. Il giardino è «lo spazio dove vibra e risuona l’eco della nostra memoria, che è promessa di felicità» (p. 59). Tale promessa è stata fatta e il giardino è il luogo in cui essa deve compiersi. Ha ben ragione quindi Carrieri a ricondurre l’idea filosofica che il giardino esempla a quella della soglia messianica benjaminiana, in cui, per l’appunto, «passato, presente e futuro si compenetrano dialetticamente abolendo ogni presunzione di linearità e di irreversibilità temporale» (p. 64). Il giardino, come idea, è lo Jetzeit, il tempo-adesso in cui può avvenire la redenzione, la quale, se deve giungere, viene nella forma di uno spazio pacificato e posto in equilibrio, in cui la relazione tra umano e mondo sussiste all’insegna della salute e del benessere.
Nel mondo attuale della finanza e del capitalismo ferocemente dispiegati, in un implacabile vampirismo che si ciba delle sue vittime senza lasciarne più traccia, fino a dissolverli del tutto, l’idea di giardino risulta alla lettera fuori posto, non trova luogo, è divenuta un non-luogo, ma non nel senso nobile dell’utopia bensì della mancata realizzazione, della sua assoluta ignoranza e trascuratezza. Il giardino come luogo dell’equilibrio sembra anzi intralciare le dinamiche dei grandi flussi economici, del profitto forzato e dell’industrializzazione, forze che dal loro canto vogliono rappresentare una panacea e una restaurazione della pienezza perduta ma che finiscono per rovinare nel suo opposto, trasformando la sua idea in un inferno terrestre e completamente divelto in superficie, esalando fumi e ceneri.
La sua condizione di atemporalità, la quiete che effonde e la lentezza dei suoi processi – ovvero quelli stessi elementi che ne fanno un luogo di ritiro e rifugio – appaiono del tutto incompatibili con i ritmi frenetici della produzione e del consumo […] che pervade e corrode la società tecno-opulenta.
In altri termini, afferma Carrieri, «il giardino costituisce non una, ma l’allegoria politica per eccellenza; anche e soprattutto perché, oggi, il destino dell’uomo e del pianeta si giocano precisamente sulla soglia di quella dissociazione» (pp. 84-85). La divaricazione, forse ancora rimediabile, tra l’integrazione benefica di umano e ambiente, stante la loro attuale incomponibile distanza.
Un tentativo che era stato fatto dai pensatori del Rinascimento, il cui insegnamento, discusso da Carrieri, deve tornare nuovamente attivo, ovvero di «integrare città e campagna, cultura e natura» (p. 114). Diversamente dal mondo di oggi, la cui caratteristica di fondo, come aveva intuito Heidegger, è divenuta il suo essere impianto, utilizzabile, logistico: «Il mondo, oggi, si presenta come un’immensa rete all’interno della quale le grandi metropoli sono ridotte a piattaforme di interconnessione e l’intera realtà sociale, che non può che essere informata dalla configurazione topografica del mondo fisico, appare appiattita su una dimensione prevalentemente logistica» (p. 130). Mondo è ciò che provvede inesorabilmente al dispiegamento tecnico, ancora una volta all’utilizzabilità, alle richieste del mercato, non più quindi il luogo della salvezza, scambiata per un falso benessere che è patogenesi ontologica prima ancora che ambientale, sociale e culturale, in cui impera «lo spiegamento incontrollato della ragione tecnico-strumentale, l’uso irresponsabile delle risorse naturali e la fagocitazione, non solo simbolica, del mondo fisico» (p. 148).
La tecnologia, il capitalismo, la finanza tecnocratica, l’idillio venduto a buon mercato sui social, vetrina politicamente corretta in cui viene offerto l’appetibile senza mostrare il volto reale della distruzione in atto, «occultano le rovine di un mondo marcescente, sommerso da montagne di rifiuti, e le ferite di una natura oltraggiata» (p. 165). Rimanere umani è quindi uno dei doveri a cui il presente è chiamato se non vuole smarrirsi ulteriormente in questa perdita ontologica dell’Eden, del giardino della felicità, della r(eden)zione: un affrancamento, molto di più che semplicemente auspicabile ma prepotentemente richiesto, dalle tecnologie della dissociazione e della dispersione, a favore di un’idea integrata di mondo. In tutto ciò, il compito della filosofia si articola come eminentemente critico, diagnostico e operativo, «scardinare gli addobbi cangianti e le scenografie ipnotiche di una società che promette pace e abbondanza mentre produce morte e penuria» (p. 162). L’obiettivo, dunque, è di tenere ferma l’idea del giardino per non smarrirsi ulteriormente, per non mancare ciò che resta della salvezza:
Ciò significa ritrovare la perduta alleanza tra uomo e cosmo naturale, segnata dal più profondo rispetto del primo per il secondo: per farlo, non è necessario divinizzare la natura e i suoi processi, ma “solamente” tornare a rispettare gli equilibri più profondi e vitali della nostra comune oikos, del nostro giardino planetario; non per timore degli dei, non in virtù di qualche forma di irrazionale e acritica sottomissione, ma per salvaguardare il nostro mondo, sulla base delle evidenze scientifiche di cui disponiamo e dei segnali che la natura quotidianamente ci consegna (p. 201).