Mirko Denza (1982) ha studiato Giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II discutendo una tesi in Diritto Penale dal titolo Organo verticistico e associazione mafiosa (relatore Vincenzo Patalano – Correlatore Francesco Marco De Martino). Successivamente ha conseguito la laurea magistrale in Scienze Storiche discutendo una tesi dal titolo L’effimero nella cultura italiana: il suo racconto attraverso i media (1977-1985). Ha partecipato a diversi Premi letterari nella categoria racconti inediti: segnalazione Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti” 4° Edizione, finalista Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti” 5 ° Edizione, vincitore Premio letterario Sulmona “Parole in giallo” edizione 2018 nella categoria raccolta di racconti inediti.

Recensione a: H.A. Winkler, I tedeschi e la rivoluzione. Una storia dal 1848 al 1989, Donzelli, Roma, 2024, pp.151, €.

Il filosofo e germanista Bolaffi nel saggio introduttivo all’opera mette in evidenza il cuore del ragionamento dello storico Heinrich August Winkler, ossia che la Germania, nonostante la riuscita riunificazione del 1990, vede ancora al suo interno la presenza di due culture politiche diverse, le quali rispecchiano la divisione ai tempi della Guerra Fredda. La caduta dell’Unione Sovietica e con essa il dissolvimento del pensiero comunista totalitario, com’è noto, hanno provocato l’innescarsi di una illusione racchiusa nel convincimento che il mondo si fosse definitivamente “convertito” ai valori tipici della democrazia liberale occidentale.

La breve stagione dell’“unipolarismo”, ossia un sistema geopolitico governato dalla superstite superpotenza americana, si è chiusa nel 2001 con gli attacchi terroristici portati a compimento sul suolo americano. Senza dubbio, ricorda Bolaffi, un altro tornante della storia è rappresentato dalla conquista della Crimea da parte della Russia di Putin (2014) a danno dell’Ucraina ma soprattutto dalla “operazione speciale” lanciata da Putin nel febbraio 2022 finalizzata alla riconquista di territori ucraini ritenuti appartenenti alla Grande Russia. In questo frangente la Germania, che aveva costruito la sua potenza esclusivamente sotto il profilo economico (con ciò trascurando i pericoli insiti dietro le relazioni commerciali intessute con la Russia per ottenere a buon prezzo gas da importare), si è ritrovata a fare i conti con una guerra in Europa. La vulnerabilità tedesca ha senza dubbio contribuito ad evidenziare ancor di più la debolezza dell’Unione Europea come partner politico internazionale. In questo modo riecheggia la tesi portata avanti da Winkler circa l’annoso problema della ricerca delle cause che hanno portato la Germania a vivere la drammatica esperienza del nazionalsocialismo.

Invero lo storico sostiene che all’epoca la cultura tedesca era contraria all’assorbimento dei valori liberali incentrati sul concetto di libertà ed eguaglianza, sulla promozione dei diritti inviolabili dell’uomo. In questo modo, sempre secondo Winkler, si può spiegare come mai tanti tedeschi portarono avanti l’idea sterminatrice dell’Olocausto. Storicamente lo spirito tedesco, secondo l’autore del libro, non ha mai completamente sposato gli ideali sottesi al concetto di rivoluzione, ossia quel voler sovvertire l’ordine delle cose mediante l’utilizzo della violenza e l’adozione di azioni rapide. La madre di tutte le rivoluzioni, quella francese del 1789, trovò spazio in un contesto sociale in cui la nobiltà e il clero erano titolari di un potere vasto e schiacciante a differenza della nobiltà militare prussiana. Inoltre anche i sostenitori tedeschi del moto rivoluzionario francese non vedevano di buon occhio il completo esautoramento del sovrano.

Piuttosto, sin dall’inizio dell’Ottocento quando venne istituita la Confederazione germanica, il pensiero tedesco era orientato verso un modello di rivoluzione dall’alto verso il basso, lo stesso Kant propugnava delle riforme con ciò stimolando le istituzioni esistenti ad agire senza teorizzare sull’annientamento delle stesse. Winkler affronta il cammino analitico partendo dalla rivoluzione del 1848-49, la quale, come è noto, si diffuse dalla Francia fino agli stati della Confederazione germanica. Il sovrano prussiano, Federico Guglielmo IV, a seguito delle rivolte in città decise di assecondare le motivazioni degli insorti impegnandosi per il processo di unificazione della Germania. Oltre al tema della creazione di uno Stato germanico, anche la libertà era al centro delle discussioni nel mondo politico ed intellettuale. Winkler ricorda come i liberali tedeschi, portatori di tali rivendicazioni assieme ad altre forze politiche, fossero del tutto in difficoltà in quanto, a differenza della Francia, doveva ancora essere creato un’entità statale. Al riguardo tra le problematiche maggiori vi era la questione dei confini territoriali, l’inclusione di popolazioni non strettamente germaniche oltre allo straripante potere della Prussia all’interno della Confederazione. Senza dubbio lo spirito rivoluzionario, declinato in quel frangente storico, dovette fare i conti con chi esercitava realmente il potere, ossia il blocco conservatore della borghesia. Sul punto l’autore del lavoro individua la causa del fallimento di quella rivoluzione nell’impossibilità di portare avanti contemporaneamente i due obiettivi della libertà e della unificazione tedesca.

D’altro canto, guardando allo stato politicamente e militarmente centrale, ossia la Prussia, la costituzione concessa nel dicembre del 1848 fece perdere i connotati assolutistici che fino ad allora avevano caratterizzato il potere prussiano. Tra gli effetti di quella rivoluzione viene menzionato l’avvicinamento tra i liberali e i conservatori. Ciò fu dovuto anche in ragione della irrealizzabilità di quanto le forze di sinistra andavano teorizzando, ossia una vera guerra di liberazione dei popoli che avrebbe dovuto chiamare in causa potenze quali la Russia, vero obiettivo dei rivoluzionari socialisti e democratici. Lo sconvolgimento europeo che veniva richiesto fece guardare i liberali verso il blocco che deteneva il potere anche in ragione di progetti rivoluzionari che non facevano i conti con l’equilibrio delle forze in campo. Il fallimento della rivoluzione del 1848-49 non cancellava la necessità di risolvere le problematiche sociali ed economiche all’interno degli stati tedeschi.

Un nuovo tentativo venne portato avanti da Otto von Bismarck mediante il paradigma della “rivoluzione dall’alto”, ossia mediante mirati interventi normativi riformatori tesi a migliorare le condizioni economiche delle classi più svantaggiate. Nel 1866 il primo ministro Bismarck propose un Parlamento tedesco designato mediante il sistema del suffragio universale diretto, provocando con ciò le tensioni con l’Austria che era la potenza che presiedeva la Confederazione. Il passaggio successivo fu l’inevitabile scontro bellico tra la Prussia e l’Austria che si concluse con la vittoria prussiana. Anche l’annessione dei ducati Schleswig e Holstein da parte della Prussia risultò frutto della politica bismarckiana negli affari esteri. Senza dubbio la trappola costruita dal ministro prussiano a danno della Francia rappresentò il capolavoro strategico, in quanto la dichiarazione di guerra francese servì a coagulare sempre più quel consenso plebiscitario vitale per Bismarck e per vincere a Sedan il conflitto franco-prussiano. Le concessioni in chiave autonomistica date agli Stati meridionali tedeschi, come la Baviera e il Württemberg, servirono a Bismarck per fondare il primo Reich tedesco nel 1871. Così come l’annessione della Alsazia e della Lorena venne vista dagli Stati tedeschi meridionali non solo come un rafforzamento della sicurezza, ma anche come speranza per i cattolici di riequilibrare la situazione a vantaggio della loro confessione.

Bismarck nel corso degli anni in cui esercitò un potere straordinario volse la sua attenzione contro i socialdemocratici: nel 1878, grazie al voto dei nazional-liberali, fece approvare una legge che poneva forti limitazioni alle manovre politiche di quel partito. Oltre alla durezza dell’intervento legislativo Bismarck realizzò anche una serie di interventi riformatori in materia di previdenza sociale, assicurazione per invalidità e vecchiaia con la speranza di polverizzare il consenso dei lavoratori verso la socialdemocrazia, cosa che non si verificò. Nel 1890 Bismarck perse l’appoggio dei conservatori proprio durante la discussione del prolungamento delle norme anti-socialiste in quanto ritenute troppo indulgenti. Le elezioni del febbraio 1890 determinarono il fallimento bismarckiano e il 20 marzo Guglielmo II, salito al trono nel 1888, sollevò dall’incarico Bismarck. La socialdemocrazia nel 1912 divenne il primo partito ed ottenne ben 110 deputati in Parlamento. Le forze di destra ed i conservatori spingevano verso un impegno militare: nel 1912 vennero pubblicati scritti in cui la guerra veniva posta come condizione imprescindibile per garantire uno sviluppo alla Germania, il conflitto come risoluzione di ogni problematica.

Durante il primo conflitto mondiale i vertici militari riuscirono a convincere il cauto cancelliere Hollweg a far approvare in Parlamento la concessione dei crediti di guerra con il contributo dei socialdemocratici, grazie soprattutto all’abilità nel presentare una strategia militare del tutto difensiva, con ciò nascondendo i veri obiettivi bellici. Nel 1917 i socialdemocratici, il Zentrum e il partito popolare progressista fecero approvare una risoluzione di pace. Il 3 ottobre del 1918 venne varato il primo governo parlamentare del Reich formato dai partiti della maggioranza e dai nazional-liberali. Il 9 novembre a Berlino venne annunciata l’abdicazione di Guglielmo II e venne proclamata la Repubblica. Al riguardo Winkler afferma che «la nascita della democrazia parlamentare dalla sconfitta facilitò il compito alle destre nazionaliste che screditavano il sistema parlamentare in quanto forma statale delle potenze occidentali vincitrici e dunque non tedesca». Controversa risulta l’individuazione di un carattere rivoluzionario in quella nuova forma di governo che la Germania assunse nel 1918-19, ossia la Repubblica di Weimar. Invero alcuni analisti più vicini agli eventi parlarono di un’alternativa che si poneva di fronte al popolo tedesco nel 1918: o si poteva attuare una rivoluzione sociale grazie all’appoggio delle forze che propugnavano una dittatura proletaria oppure si doveva imboccare la strada dell’alleanza con le forze conservatrici per un modello di repubblica parlamentare.

Tuttavia, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, iniziò a farsi strada un’altra interpretazione delle dinamiche di quel momento storico, vale a dire venne considerata un’ipotesi realizzabile l’alleanza dei socialdemocratici con i consigli degli operai e dei soldati per porre in atto una vera e propria trasformazione radicale. I fatti, invece, dimostrarono la vittoria dei socialdemocratici maggioritari rispetto al partito indipendente USPD nelle votazioni per l’Assemblea Costituente. Venne eletto Ebert come Presidente e come Primo Ministro Scheidemann, sempre del partito socialdemocratico maggioritario. Il Governo costituito dovette affrontare la problematica degli scioperi (a Berlino nel marzo 1919 le proteste vennero represse con la violenza) e le responsabilità tedesche per il primo conflitto mondiale. In quel periodo iniziavano gli incontri diplomatici per i trattati di pace e il Presidente Ebert voleva addossare le colpe sui partiti che avevano guidato la Germania verso la sconfitta militare. Tuttavia il 28 giugno 1919 venne firmato il Trattato di Versailles senza apporre alcuna condizione.

Nella primavera del 1920 nella regione della Ruhr vi fu una protesta sociale di massa che il governo riuscì a domare solo a maggio. Nel giugno dello stesso anno le nuove elezioni decretarono la sconfitta dei “partiti di Weimar” e l’anno del 1923 fu l’epicentro di crisi di governo, di un’inflazione galoppante, di scontri in materia di riparazioni di guerra, e del primo tentativo di putsch da parte di Hitler. Grazie alle concessioni economiche americane, grazie ad un atteggiamento meno ostile da parte della Francia, si avviò un processo di relativa stabilizzazione che durò fino al 1928. Le crisi di governo portarono nel 1930 il Presidente Hindenburg ad emanare due ordinanze di emergenza che vennero annullate dal Parlamento (la Costituzione del Reich, approvata pochi anni prima, prevedeva un certo squilibrio tra il Presidente del Reich, eletto dal popolo, e il Primo Ministro, il quale poteva essere sfiduciato dal Parlamento). Hindenburg sciolse il Parlamento e le successive elezioni decretarono la vittoria dei socialdemocratici e l’affermazione del nuovo partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori di Hitler. Nelle elezioni del 1932 il partito di Hitler perse oltre due milioni di voti, ma i comunisti conquistarono nuovi consensi e ciò divenne un’arma per Hitler in quanto aleggiava la paura di una “rivoluzione rossa”. Pressato dall’ex cancelliere von Papen, dagli ambienti militari e finanziari, Hindenburg decise di nominare Hitler a capo del Governo. Sul punto Winkler afferma che «nel 1918-19 una rottura radicale con il passato sarebbe stata impossibile poiché il paese era già troppo sviluppato economicamente e politicamente […] fu il prezzo per la precoce introduzione del suffragio universale maschile e della tardiva parlamentarizzazione del sistema di governo […]».

La presa del potere da parte di Hitler, com’è noto, avvenne attraverso l’esautoramento del sistema parlamentare, la fusione della carica di Presidente del Reich e di Cancelliere in un’unica persona, la promulgazione di provvedimenti senza il passaggio parlamentare. Alcuni interpreti hanno intravisto un tratto rivoluzionario nel nazionalsocialismo tedesco, una sorta di trasformazione radicale della società. Tuttavia, come sostenuto da Winkler, i veri cambiamenti sociali si ebbero nei primi cinque anni del dopoguerra e nei quindici anni dopo il secondo conflitto mondiale con la Repubblica Federale e con la Repubblica Democratica. Lo studioso Zitelmann in un suo scritto del 1987 ha sostenuto che Hitler non si considerasse un uomo di destra, ossia un uomo vicino alla borghesia conservatrice. Invero, come sostenuto dall’autore di questo libro, tale convincimento era tipico dell’estrema destra. Rispetto alla rivoluzione marxista-leninista, il nazionalsocialismo non portò avanti una vera rottura sociale in quanto non mutò i rapporti di forza economici. Winkler inquadra il progetto hitleriano in una forma di «controrivoluzione nei confronti del progetto normativo occidentale […] fu la distanza storica dei tedeschi dalle idee della democrazia liberale e pluralistica a permettere il successo di Hitler». Gli sconvolgimenti del 1989 portarono al processo di riunificazione della Germania, conclusosi il 3 ottobre del 1990.

La caduta del Muro e le proteste sociali (accompagnate dalla formazione di gruppi di opposizione) nella Repubblica Democratica Tedesca possono essere considerati rivoluzionari? Invero lo sgretolamento del potere sovietico e con esso di tutte le formazioni politiche dell’Europa orientale si verificò per il fallimento del modello socialista totalitario e per la contestuale “vittoria” del modello occidentale. Senza dubbio la Germania nel 1990 raggiunse l’obiettivo della libertà e della unificazione nazionale. Inoltre la nuova formazione statale non provocava più alcuna minaccia in quanto ben ancorata all’alleanza atlantica. Tuttavia, a cavallo del 1989, abbiamo assistito all’avvento della rivoluzione tecnologica della Rete e dello sconvolgimento del sistema delle comunicazioni. Le sfide attuali e future sono costituite dal controllo dell’opinione pubblica mediante i social e il bombardamento di continui spot elettorali. Il mondo, pur avendo conosciuto un ritorno al multipolarismo, secondo Winkler sta convergendo verso una nuova forma di bipolarismo con gli Stati Uniti e la Cina a fare da poli antitetici. In questo nuovo scenario la Germania è chiamata, da un lato, ad uscire dal cono d’ombra americano e, dall’altro, a creare un’unica cultura agganciata ai valori occidentali.

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