Nunziante Mastrolia, analista politico, imprenditore, editore di Licosia e fondatore di Stroncature. Laurea in Scienze Politiche, dottorato in Economia dello Sviluppo, Research Fellow in Sociologia politica; per 15 anni direttore di ricerca presso il Centro Militare di Studi Strategici. Senior Fellow dell’European Centre for International Affairs, ha insegnato Geografia Politica ed Economica e Sociologia politica presso la Luiss-Guido Carli. È autore di Chi comanda a Pechino (Castelvecchi, 2008); La grande transizione (Rubbettino, 2011); Dalla società aperta alla società chiusa (Rubbettino, 2012); Il socialismo liberale di Bettino Craxi (Licosia, 2015); è coautore di L’atomica di Kim (Rubbettino, 2013); e, con Luciano Pellicani, Le radici pagane della costituzione americana (Ariele, 2014). Ha curato  inoltre Dalla società fordista alla società digitale (Licosia, 2019) e Reddito di cittadinanza. Una antologia (2015); con Giampietro Berti e Luciano Pellicani, I difensori dell’Occidente (Licosia, 2016).

Una delle differenze fondamentali tra il Rimland (fascia marittima e costiera) asiatico e quello europeo è che qui si è avviato un processo di integrazione e là no. Però prima di procedere è necessaria una precisazione. Spesso si sostiene che la via per l’integrazione europea passa per l’economia per poter diventare un giorno politica. È l’idea dell’integrazione funzionale che diviene predominante dopo il fallimento della Ced e il rilancio della Conferenza di Messina del 1955. Eppure le cose non stanno così. La volontà politica di procedere con l’integrazione, di porre fine alla guerra civile europea, è anteriore all’integrazione economica. Per dirla diversamente: non ci sarebbe stata nessuna integrazione economica se prima i paesi europei non avessero deciso di rompere quelle macchine da guerra che erano i vecchi stati vestfaliani. Il che marca ancora di più le differenze con l’Asia. Perché i paesi asiatici che si sono combattuti nella seconda guerra mondiale non hanno fatto lo stesso? La risposta non è semplice, e per tentare di chiarire questo punto può essere utile ricorrere a un’ipotesi di storia contro-fattuale.

Che cosa sarebbe successo in Europa se in Francia, nella lotta contro l’occupazione nazista, avesse conquistato il potere un partito comunista alleato di Mosca? È difficile, se non impossibile, fare la storia con i “se”, eppure ci sono buone probabilità che quel processo di conciliazione e di perdono che consentì a De Gasperi, Adenaeur e Schuman di fondare l’Europa non avrebbe avuto luogo. E nel contempo è altamente improbabile che si potesse dare il via a un processo di integrazione economica che, senza la Francia, sarebbe apparso ai paesi che avevano subito gli orrori dell’occupazione nazista come un nuovo tentativo egemonico di Berlino.

Questo significa che la riconciliazione tra gli ex nemici è stata possibile perché i maggiori paesi del continente erano tutti al di qua della cortina di ferro. Cosa che ha facilitato non solo la conciliazione, ma anche l’inizio del processo di integrazione tra le grandi potenze europee.

Ma non bisogna sottacere il ruolo degli Stati Uniti, la cui politica nei confronti dell’Europa non è stata solo quella di creare, in una cornice impostata al containment, un bastione anticomunista nel Vecchio Continente. C’era anche dell’altro: evitare che nel futuro la febbre della politica di potenza si impadronisse ancora una volta delle cancellerie europee tanto da gettare i popoli del Vecchio Continente in una nuova guerra autodistruttiva. Una politica che di fatto si collegava con la visione di coloro che in Europa videro nella ricostruzione post bellica l’occasione per mettere fine alla guerre civile europea: un patto tra ex combattenti in nome del troppo sangue versato[i].

Da qui la decisione americana di istituire l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (Oece), un organo che avrebbe aiutato gli stati europei a decidere come utilizzare i fondi americani messi a disposizione dal piano Marshall per la ricostruzione, approvando i progetti di investimento all’unanimità, creando infrastrutture e impianti industriali integrati e complementari tra i vari paesi europei, per cominciare a coinvolgerli «nella discussione della gestione economica collettiva»[ii], in un quadro non più esclusivamente nazionale. L’Oece «istituì una della maggiori innovazioni della cooperazione internazionale postbellica, l’esame nazionale sistematico, in cui le autorità nazionali responsabili subiscono l’esame incrociato di una serie di propri omologhi, coadiuvati da esperti mondiali di alto livello. In questi esami sono sollevate questioni che in epoca prebellica sarebbero state considerate una grossolana e inaccettabile ingerenza straniera nella politica di un paese sovrano»[iii]. L’Oece aveva inoltre il compito di ridurre le barriere tariffarie tra i paesi europei.

La complementarietà economica e la riduzione delle barriere commerciali avrebbero dovuto impedire il ritorno delle antiche rivalità tra i paesi europei. Ma perché il continente potesse rapidamente uscire dalla crisi postbellica era necessario reintegrare la Germania. Il progetto dell’Unione europea forniva la cornice entro cui far svolgere l’integrazione tedesca e consentire a Berlino di superare le limitazioni di sovranità che la sconfitta le aveva imposto. Non a caso, «anche i francesi si attivarono per ottenere dall’America garanzie sulla sicurezza. Molti francesi erano a favore di un’Europa più unita. L’integrazione tendeva a consolidare l’influenza di Parigi sul continente, mentre l’integrazione politica e economica le avrebbe permesso di esercitare un certo controllo sulla rinascita dell’economia tedesca e avrebbe vincolato la Germania a una struttura soprannazionale»[iv][4].

Placare i sospetti contro un revanscimo tedesco e formare una barriera contro le velleità espansionistiche di Mosca sarà compito della Nato, che dovrà favorire l’istituzionalizzazione dell’impegno americano alla pace in Europa e alla prevenzione della minaccia sovietica, o, per dirla con il noto aforisma di Lord Ismay, «mettere fuori i russi, sotto i tedeschi e dentro gli americani». E visto che a Parigi sarebbe stato riservato un posto tra le grandi potenze del Consiglio di Sicurezza, si potrebbe aggiungere che compito della nuova alleanza militare era anche quello di «tenere i francesi su». In quest’ottica, il piano Marshall e la Nato facevano parte di un più ampio pacchetto istituzionale: «Ogni elemento contribuiva all’insieme. Nel complesso erano destinati a plasmare il carattere militare delle nazioni atlantiche, prevenire la “balcanizzazione” dei sistemi di difesa europei, creare un mercato interno abbastanza ampio per alimentare il capitalismo in Europa occidentale, e ancorare la Germania al versante occidentale della Cortina di Ferro»[v].

I cardini della ricostruzione post bellica dunque prevedevano da un lato una sicurezza collettiva per difendere gli europei da loro stessi (il ritorno della guerre civili europee) e i confini di Yalta dalle velleità espansionistiche di Mosca. Dall’altro la creazione di un ordine economico integrato e multilaterale per evitare che dalla competizione economica si passasse allo scontro armato: è per questo che «la guerra fredda e la minaccia sovietica rinforzarono la collaborazione tra le democrazie occidentali, ma non la crearono»[vi].

La politica americana e dei paesi europei è stata un enorme successo: un periodo di crescita economica, di prosperità e di pace che non ha probabilmente precedenti nella storia. Eppure è ben improbabile che qualcosa di simile sarebbe potuto accadere se, continuando con l’esempio precedente, sull’Eliseo dal 1949 avesse iniziato a sventolare la bandiera rossa.

Considerato che anche a Pechino fu riservato un posto nel Consiglio di Sicurezza, è probabile che Washington avesse intenzione di applicare anche al Rimland orientale la stessa ricetta pensata per quello occidentale: avviare un processo di integrazione tra i grandi attori regionali, in modo da  estirpare le cause dell’annosa conflittualità: protezionismo/mercantilismo economico e nazionalismo politico, con la garanzia esterna americana.

La storia sarebbe andata diversamente, la vittoria maoista del 1949 sconvolgeva questi piani e veniva accolta a Washington con «costernazione»[vii], dando avvio all’annoso dibattito sulle ragioni della “perdita” della Cina alla causa americana. Successivamente, la guerra di Corea e la Guerra Fredda sarebbero venuti ad approfondire le “innaturali” divisioni tra i paesi della regione.

Note

[i] G. Sacco, Critica del XXI secolo, Luiss University Press, Roma 2005, p. 70.

[ii] J. Ikenberry, Dopo la vittoria, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 281.

[iii] Ivi, pp. 281-282.

[iv] Ivi, p. 261.

[v] Ivi, p. 282.

[vi] Ivi, p. 225.

[vii] H. Kissinger, Cina, Mondadori, Milano 2011, p. 94.

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